Relazione psicologica: La specificità funzionale nell’intervento di aiuto al disabile.

Luciano Rispoli, 1999.

La Psicologia Funzionale prevede un intervento di aiuto al disabile sul complesso delle Funzioni, nel senso di una riconnessione e di una rimobilizzazione di tutte le Funzioni alterate, lavorando in concomitanza per garantire nutrimento e aumento dell’autostima, con l’aiuto degli operatori della riabilitazione.


La comunicazione e la visione Funzionale

Gli interventi di insegnamento, di riabilitazione, di cambiamento in genere, si basano sempre sui processi di comunicazione che si svolgono tra due persone; processi costituiti da numerosi “canali” attraverso i quali scorrono incessantemente messaggi nelle due direzioni. Oggi sappiamo che non è possibile considerare separati questi canali, così come non esiste una vera separatezza tra ciò che si definisce psichico e ciò che si definisce corporeo. Vi è non solo una profonda interconnessione tra questi aspetti della persona ma addirittura una sostanziale identità. La comunicazione è dunque come un fascio di vie interconnesse che uniscono chi comunica con chi riceve, chi insegna con chi apprende. Se guardiamo ad uno dei due soggetti in modo più particolare, noteremo che sotto l’aspetto più esterno c’è un mondo complesso ed estremamente articolato costituito da elementi a volte invisibili ad uno sguardo superficiale ed esterno.

Nello schema di figura 1, al di sotto del cerchio esterno che rappresenta la persona globalmente, il così detto Sé, si possono intravedere una serie numerosa di cerchi che costituiscono il funzionamento complesso della persona.

Come fare per leggere una tale strutturata articolazione? Differenti approcci psicologici (con i loro specifici punti di vista) hanno affrontato in passato questa difficoltà ma si sono piuttosto soffermati ora sull’uno ora sull’altro aspetto del Sé. Come cogliere dunque il tutto?

L’epistemologia Funzionale ci può venire in aiuto per affrontare il paradigma della complessità. Il punto di vista Funzionale costituisce il tentativo di guardare la realtà a tutto tondo, a 360 gradi, tenendo conto dell’interezza e dell’unitarietà della persona, senza però perdere la possibilità di scendere nei dettagli, di arrivare a livelli di analisi molto precisi. In genere le concezioni olistiche parlano sì di un tutt’uno ma restano nel vago e nel generico; la globalità che considerano risulta alla fine indistinta e confusa: tutto e niente.

Il concetto di Funzione, invece, permette di fare un salto verso una nuova epistemologia che tenga conto delle peculiarità dell’organismo vivente. Le Funzioni, infatti, non sono le parti di un sistema, non sono distretti del corpo né singole istanze psichiche. E dunque non frammentano l’unitarietà del soggetto. L’epistemologia Funzionale supera la visione sistemica classica fatta di “pezzi” che, anche se intimamente collegati, sono pur sempre contrapponibili l’un l’altro. Le Funzioni non sono neanche strutture, cioè vere e proprie entità di materia: le concezioni più propriamente strutturali rischiano di reificare elementi che non sono “cose” ma modi di funzionare. La psicologia Funzionale, allora, permette di descrivere con grande precisione la funzionalità dell’organismo, scendendo in profondità su tutte le Funzioni psicocorporee che costituiscono il Sé, senza timore di perdere la visione complessiva: le funzioni sono infatti l’intero organismo che si esprime di volta in volta sotto differenti modalità.

Se ora scendiamo, appunto, al di sotto della vaga globalità costituita dal cerchio esterno della figura precedente, possiamo vedere in concreto quale sia l’organizzazione del Sé della persona nel momento attuale, dopo una storia di relazioni attraversate, più o meno soddisfacentemente, con l’ambiente affettivo e sociale circostante. Le Funzioni possono alterarsi se i precedenti impatti con la realtà non sono stati positivi, se i bisogni del bambino (fondamentali per conservare la continuità della vita e del Sé) non sono stati pienamente soddisfatti. Alcune Funzioni possono svilupparsi esageratamente rispetto alle altre, alcune possono rimanere atrofizzate o comunque ipotrofiche. Altre Funzioni possono perdere mobilità, divenire ripetitive, stereotipate, sclerotizzate. Oppure si possono creare scissioni tra Funzione e Funzione. Le Funzioni che si separano eccessivamente dal resto del Sé, vanno in cortocircuito e proseguono nella stessa modalità di funzionamento al di là delle reali condizioni dell’ambiente esterno. Il respiro può essere affannoso, corto e toracico, nonostante il soggetto non avverta paura. Il corpo si può ritrarre da un abbraccio anche se la persona vuole esprimere apertura e amicizia. La vigilanza e la simpaticotonìa possono permanere anche se non vi è alcun motivo esterno di allarme. Il viso può esprimere tristezza senza che ve ne sia consapevolezza, e così via.

In figura 2 abbiamo rappresentato la modalità di essere dei vari piani funzionali di un adolescente, Leonardo, così come si presentava nel momento in cui si rivolgeva a noi per un aiuto di terapia. I cerchi con la linea spessa rappresentano le funzioni alterate, sclerotizzate. La grandezza dei cerchi ci dice lo sviluppo di quel piano funzionale rispetto agli altri piani. La distanza indica il livello di sconnessione di una funzione rispetto all’altra (o, quando i cerchi si intersecano, il livello di confusione).

Leonardo aveva gravi problemi a scuola. Le alterazioni del Sé creano grosse difficoltà nell’apprendimento. Non vi è più la mobilità di tutti i piani funzionali così come la si ritrova nel bambino piccolo o nei soggetti che hanno conservato salute e benessere. Le rigidità e le sclerotizzazioni investono il piano affettivo senza il cui contributo è impossibile qualsiasi apprendimento. Ma le alterazioni colpiscono anche l’attenzione, la memoria, la capacità di ascolto, da una parte; e la curiosità, l’interesse, il desiderio d’apprendere, dall’altra. La sensazione di non essere capiti aggrava la situazione diminuendo le gratificazioni, e con esse la spinta al cambiamento, allo studio, al desiderio di mostrare ciò che si è imparato e di mostrarsi.

Lo squilibrio del Sé

Nel disabile, cause che portano all’alterazione del Sé sono già insite nell’handicap che lo ha colpito, oltre che nella relazione con l’ambiente esterno.

Abbiamo dunque due tipi possibili di alterazione delle Funzioni del Sé:

1 Una crescita non paritaria di tutte le Funzioni

Alcune Funzioni possono essere state colpite proprio dall’handicap: Funzioni motorie, Funzioni razionali-cognitive, Funzioni del linguaggio verbale. Questo comporta un’alterazione del Sé del disabile “a priori”. Ma, come sempre accade, le alterazioni non possono limitarsi solo ad alcune Funzioni bensì si allargano poi anche ad altri piani non colpiti dall’handicap.

2 Alterazioni per ipercompensazione

E’ normale che il disabile, nel suo svilupparsi, faccia affidamento maggiore su alcune Funzioni, rimaste integre, per compensare (almeno in parte) quelle colpite dall’handicap. In una persona con difficoltà motorie agli arti inferiori si ipersvilupperà il controllo esercitato con lo sguardo e con i movimenti della testa. Potrà così sopperire all’impossibilità di correre: per venire incontro, per allontanarsi, per scappare da un pericolo, a seconda dei casi. Un’attenzione visiva pronta e acuta gli permetterà di gridare, di farsi aiutare, di organizzarsi per tempo in un altro modo che non sia il ricorrere alle sue gambe. In un non vedente, invece, si acuiscono il tatto e i piccoli movimenti (movimenti di prova, “a tentoni”), oltre naturalmente all’udito, per accrescere la capacità di orientarsi e percepire ciò che sta all’esterno. Ma, al contempo, diminuiscono i “movimenti ampi” con la conseguenza di una grossa difficoltà ad esperienze come soddisfazione e sazietà nel movimento portato con forza fino in fondo in un’attività fisica movimentata e intensa. In chi ha difficoltà motorie ad un arto superiore ritroveremo irrigidimenti muscolari (ipertrofie del tono) nell’arto vicariante, o in quello che funge da appoggio.

Tutti questi rappresentano altrettanti squilibri nell’organizzazione del Sé dovuti all’handicap (ai quali si aggiungono le alterazioni nate dall’interazione con l’ambiente). E, come si può facilmente notare da questi pochi esempi, gli squilibri non riguardano tanto le Funzioni colpite ma anche altre Funzioni e altri piani chiamati in gioco nel tentativo del soggetto di riorganizzare la propria vita e di affrontare i problemi che si è ritrovato addosso. Quando diciamo squilibrio del Sé parliamo di disarmonia dello sviluppo, di Funzioni iper o ipotrofiche, di sclerotizzazioni e stereotipie riguardanti tutti i piani del Sé. Un aumento di vigilanza tramite la vista comporta un aumento eccessivo di emozioni (cronicizzate) di allarme e di pericolo. Una diminuzione di movimenti ampi produce una carenza pericolosa del senso di forza e di soddsfazione muscolare. Una ipertrofia del tono muscolare alle braccia può provocare difficoltà nei movimenti sottili e delicati della tenerezza. Dunque, anche le emozioni sono alterate, come lo sono i sistemi percettivi, e anche gli apparati fisiologici interni, equilibratori generali del funzionamento dell’organismo.

La lettura Funzionale

Tutto questo può essere letto in modo abbastanza preciso attraverso l’ottica Funzionale, così come è stato fatto nel caso di Leonardo riportato all’inizio. Sono state messe a punto, da chi scrive, “schede di rilevazione” per varie età, che permettono di valutare la mobilità e l’ampiezza dei vari livelli Funzionali, in modo standardizzato e non solo soggettivo. Ci sono schede di rilevazione per l’infanzia, per l’adolescenza e anche per situazioni di degrado cognitivo degli anziani. Una rilevazione complessiva del Sé, a tutti i livelli Funzionali, evita uno degli errori più grossolani che troppo spesso si continua a commettere: accanirsi a rieducare il piano colpito, insistere a cercare di ripristinare la carenza in modo meccanico, come se fosse un fatto isolato e a se stante.

L’intervento Funzionale

L’intervento, invece, per essere veramente efficace, deve riguardare soprattutto gli altri piani alterati ed oggetto di ipercompensazione. Una balbuzie si corregge molto più facilmente se si interviene sul respiro, sull’ansia, sulle tensioni muscolari alla gola, sull’emozione del mostrarsi, piuttosto che con i soli esercizi di logopedia. Una difficoltà apprenditiva in matematica non si risolve insistendo sugli errori logici ma aprendo il bambino alla creatività, facendolo spaziare nell’espressività artistica.

L’intervento va dunque fatto sul complesso delle Funzioni, nel senso di una riconnessione e di una rimobilizzazione di tutte le Funzioni alterate. L’emozione, che a sua volta si è installata cronicamente per lo sviluppo del Sé, va sciolta e resa più congruente con le condizioni reali del soggetto. Emozione e movimento devono poter ritrovare la sintonia, essere di nuovo realmente collegati. L’immaginare va ricondotto alle sensazioni corporee reali (che devono riprendere il loro posto significativo). La voce va ricollegata alle emozioni e all’espressione del viso. L’importante, in un’attività di riabilitazione, non è eseguire bene i movimenti, ma riconnetterli in modo corretto alle altre Funzioni del Sé. Un movimento ampio e forte, che porti alla sensazione di piena soddisfazione, lo possono eseguire, con un po’ di accortezza, anche i non vedenti. Un gesto delicato e tenero non risulterà impossibile anche per chi deve ipercompensare sviluppando muscoli e forza delle braccia. Poter allentare il controllo e sperimentare il “lasciare” non è difficile anche per chi ha dovuto stare sempre attento e vigile. I laboratori di riabilitazione devono condurre nella direzione di riequilibrare le alterazioni accumulatesi nel Sé, e non in quella di insistere sulle Funzioni colpite dall’handicap. Non ha senso fare attività per l’attività, ma è importante curare il modo dell’attività, riorganizzando l’intero insieme Funzionale del Sé secondo le indicazioni precise emerse dalla rilevazione effettuata.

Bisogna, dunque, agire su più piani: non trascurare emozioni, fantasie, sensazioni. Per chi ha disabilità motorie, ad esempio, è indispensabile non insistere con i movimenti (per lui difficili), ma piuttosto utilizzare metodologie di massaggio che producono effetti benefici per altra via; oppure, per chi ha difficoltà nel modificare direttamente uno stato emotivo, si può passare attraverso l’uso della voce e della gestualità, in una sorta di “teatro guidato” Senza troppo idealizzare le possibilità d’intervento, ammetteremo semplicemente che scompensi dovuti all’handicap e alla necessità di compensazione resteranno comunque, ma appariranno fortemente ridimensionati: non più ingigantiti, sclerotizzati e diffusi come durante i difficili anni dello sviluppo evolutivo.

Il nutrimento

Non dimentichiamoci che chi ha avuto a che fare con un handicap da piccolo ha dovuto farsi forza per superare ostacoli e difficoltà, ha dovuto sopperire in qualche modo alle mancanze, ha dovuto comunque crescere prima del tempo. Questo eccessivo peso sulle spalle è causa di un ulteriore squilibrio da compensazione che il disabile subisce. Un’attività tesa ad aiutare i disabili deve, dunque, tenere in conto questo ulteriore elemento. Bisogna evitare di sollecitare il soggetto a ulteriori sforzi, pur se nel tentativo di raggiungere risultati positivi e voluti; per lo meno, evitare di farlo nel primo periodo dell’intervento. Questi bambini, questi ragazzi, hanno innanzitutto un grande bisogno di potersi finalmente abbandonare, di allentare gli sforzi, di sentire che non hanno ulteriori pesanti “compiti” da assolvere. Prima di poter compiere nuovi sforzi hanno necessità di una pausa ristoratrice, hanno necessità di ricevere aiuto senza che gli sia chiesto nulla in cambio. In altri termini hanno bisogno di ricevere “nutrimento” puro, calore, attenzione, affetto, accudimento, ma senza altro scopo che non sia il ricevere. Il nutrimento permette di rafforzare il nucleo profondo della persona, di riparare, di recuperare esperienze fondamentali per la vita: “stare”, “abbandonarsi” a, “essere tenuti”, “essere presi”.

Direi che un atteggiamento iniziale di questo genere va indirizzato anche verso la famiglia del disabile. Anche la famiglia ha (spesso) compiuto sforzi eccezionali, ha vissuto preoccupazioni fuori del normale, è insomma in uno stato avanzato di “stress”. Ed ha quindi bisogno di un momento di tranquillità ristoratrice, di qualcuno che prenda la responsabilità del problema e la sollevi da questo peso; almeno per un periodo iniziale. Poi potranno riprendere le attività mirate, nuovi sforzi, nuovi impegni: purché nella giusta direzione, purché possibili, purché utili, purché fecondi di risultati.

L’autostima e i piccoli passi

L’autostima è alla base del successo di ogni impegno, di ogni sforzo. L’autostima può accrescersi solo proponendo alle persone piccoli passi che siano realmente alla loro portata; e questo tanto più per un disabile. Ottenere piccoli ma concreti successi rassicura e riaccende l’entusiasmo e l’impegno. Altrimenti può andare come ad Antonio, un ragazzo che mi fu portato a vedere come un caso notevolmente grave di ritardo mentale. In realtà il ragazzo non presentava nessun vero focolaio, nessuna lesione, alle indagini strumentali effettuate. Aveva chiaramente difficoltà motorie e difficoltà a concettualizzare. Ma al di sopra di tutto ciò si era innescata una sindrome d’ansia devastante, dovuta alla maniera tragica con cui la famiglia viveva le difficoltà del figlio. Lo si spingeva continuamente a cercare di superare difficoltà per lui insormontabili, ed Antonio si avviliva sempre più. Ad ogni ostacolo non superato, ad ogni insuccesso diveniva sempre più agitato e preoccupato, sempre più incapace di rimettere in cammino il suo sviluppo, i processi di apprendimento, la sua capacità di gestire situazioni e relazioni.

I limiti

Non bisogna considerare il disabile come una persona “diversa”. Questa ben nota affermazione di principio acquista una luce nuova, una connotazione di particolare concretezza, quando la si osservi dal punto di vista delle Funzioni. Sotto questo aspetto le differenze con le persone “normali” sono infatti sfumate, perché tutti abbiamo abilità e disabilità, tutti abbiamo Funzioni non completamente mobili, alterate, sclerotizzate. Inoltre tutti abbiamo dei “limiti” e impariamo a conviverci, naturalmente. Certo, per un disabile il limite generale tra cose che può fare e che non può fare è spostato; ma niente di più che spostato. Solo che spesso sono la famiglia, l’ambiente, a ingigantire i limiti del disabile (e spesso anche del bambino normale) suscitando una sensazione gravemente dannosa di impotenza, di incapacità, di dolore nel dover ottenere ogni cosa solo a prezzo di grandi sforzi. E’ questo fardello ad essere veramente pesante e “handicappante”, in modo inimmaginabile, molto più dell’handicap vero e proprio. Tutto ciò va ridimensionato. Al di là di casi veramente gravi, l’handicap dovrebbe rientrare nella esistenza (più o meno normale) dei limiti: c’è chi è molto leggero e non può certo sperare di battere alla lotta un peso massimo, chi ha la pelle chiara e non può stare troppo tempo al sole; chi è grasso non può pensare di correre e saltare come gli altri. Ognuno di questi è un limite, niente più che un limite.

Il corporeo

Nell’intervento con il disabile il lavoro corporeo è uno strumento che decisamente facilita il compito. Attraverso il corpo è più facile risalire ad altre Funzioni del mondo interiore del disabile, alle sue emozioni, alle sue paure. Il corporeo è una strada d’accesso al profondo più agevole ed immediata, meno controllata dalla coscienza vigile ed attiva. L’intensità dell’impatto diretto con il corporeo è oramai risaputa e dimostrata da una lunga esperienza di attività psicoterapica. Ma c’è una ragione ulteriore per non trascurare il corporeo nel lavoro con i disabili. Troppo spesso il disabile non viene guardato: per paura, o perché è disfunzionante o per eccessiva delicatezza. Invece essere guardati è indispensabile per uno sviluppo sano e una vita normale.

Utilizzare il livello della corporeità è dunque importante per vari motivi:

1 Essere guardati rappresenta una guida rassicurante e affettuosa;

2 Guardare il disabile permette di capire bene come e dove intervenire;

3 L’aumento delle sensazioni corporee costituisce un aiuto basilare per quasi tutti gli handicap. Per i non vedenti, ad esempio, sentire il proprio volto aiuta notevolmente a recuperare espressioni emotive perdute o sconnesse dalla mimica facciale;

4 Guardare il disabile significa, infine, andare oltre l’handicap, vedere la persona.

“Leggere il corpo”, prendere in considerazione la comunicazione non verbale è di grande interesse e di grande utilità; purché non ci si limiti ai gesti-segnale, ai gesti comunicativi standardizzati e universalmente usati, come il sorriso, la bocca adirata, il saluto con la mano, l’atto di minaccia.

Interessante, invece, è osservare la comunicazione involontaria: il modo di muoversi, i movimenti inconsapevoli, i funzionamenti corporei profondi della persona; e tra gli altri:

– Le posture abituali;

– I movimenti improvvisi;

– I piccoli scatti muscolari, i movimenti “nervosi”, i clonismi;

– Il modo di respirare;

– I tratti stereotipati del viso: che emozione esprimono;

– La coloritura della pelle, la temperatura, il tono muscolare;

– Le modalità di “contatto”: con gli occhi, con il tocco delle mani, e con la presenza di tutta la persona.

Gli operatori della riabilitazione

Una delle conseguenze logiche di tutto questo discorso è la necessità di riconoscere la grande importanza di colui che lavora con i disabili. Si tratta di una figura che può assumere un aspetto fondamentale nella vita di tutte quelle persone che hanno avuto da lottare e lottano contro un handicap. E’ con l’operatore che si stabilisce quella relazione profonda intensa di muovere il disabile sin nel profondo e farlo uscire dal circuito chiuso della esclusione e della sfiducia. Certo, l’operatore ha oggi a portata di mano, con la psicologia Funzionale, degli strumenti in più, delle metodologie più precise e circostanziate, un’ottica che gli permette di avere una visione più ampia e più profonda del problema e dell’intervento. Ma tutto questo significa che l’operatore deve avere sperimentato prima su se stesso questi livelli di funzionamento, li deve avere resi mobili e risonanti nel suo organismo. Il lavoro necessario su di sé non è difficile, ma paziente, abbastanza lungo, e necessita di una disponibilità e una sensibilità non del tutto comuni. Rivalutare la professionalità e l’importanza di chi opera con i disabili significa superare definitivamente l’ottica di un’assistenza passiva e rassegnata, la concezione limitata di poter offrire solo “compagnia” a chi è minus (per il quale in fondo ci sarebbe ben poco da poter fare). Nuove metodologie, nuovi strumenti, nuove professionalità permettono di approdare all’idea che è davvero possibile ridare vitalità, fiducia, gioia, spinta a persone che non sono dei “minorati”, ma solo “limitati”, pur se con sfumature diverse, come tutti quanti noi; e come tutti quanti noi, in grado di ritrovare armonia e pienezza all’organizzazione del proprio Sé.