Psicoterapia: W. Reich: Storia di un’evoluzione metodologica.

Simposio Internazionale, Palazzo Serra di Cassano, Napoli, 1997.

Sabato 5-Domenica 6 Aprile 1997 si è tenuto a Napoli il Simposio Internazionale “Wilhelm Reich: Storia di un’evoluzione metodologica, verso una nuova epistemologia” a favore dell’infanzia e dei giovani, della salvaguardia dei loro bisogni fondamentali, per conservare in una società libera dalla “peste emozionale” i valori fondamentali della vita.


Wilhelm Reich

Erano gli anni ’20 quando Wilhelm Reich proponeva le prime ipotesi sull’esistenza di interconnessioni profonde e complesse tra lo psichico e il somatico e sulla necessità, in psicoterapia, di intervenire anche sul versante corporeo. Il concetto di identità Funzionale tra psiche e soma è stato grandemente fecondo ed è ancora oggi di estrema attualità. Allora non si sapeva ancora quante potenzialità nascondesse e che sviluppi potesse avere il concetto di “funzione”; ma oggi questa ricchezza (allora “in nuce”) si è potuta sviluppare in pieno in tutta la complessità di una “psicologia Funzionale”. Il pensiero di Reich non è stato, però, caratterizzato solo dall’aspetto clinico bensì anche da un costante riferimento al sociale. Reich aveva compreso in maniera lucida come la vita emotiva delle persone avesse un risvolto immediato e fondamentale sulle vicende e sugli aspetti politici; considerava il mondo degli affetti come una delle componenti più importanti delle forze che muovono la storia. Cercò spiegazioni scientifiche più che “psicologistiche” alle sofferenze dell’umanità e a quanto di tragico stava avvenendo in quel tempo: la follia del nazismo e del fascismo in Europa. Considerare la struttura caratteriale dei soggetti che costituiscono la massa, come una delle forze sociali, una vera e propria “forza economica”, rimane una delle chiavi di lettura ancor oggi pressoché insuperata. L’analisi di come la sofferenza della gente potesse costituire la base della “delega” alle autorità, dell’incapacità di perseguire la propria felicità, rimane ancor oggi un punto da tenere ben presente quando si vuol tentare di trovare vie di uscita alle spirali di violenza in cui ancora oggi il mondo sembra cadere. Quando si sta male nel profondo, paradossalmente, si è meno disposti a lottare, a cercare la verità; si è disillusi, si perde la speranza, ci si sente impotenti, ci si accontenta di verità costruite dall’alto, si accetta tutto. Quando si sta male ci si può rassegnare a brillare di luce riflessa: la squadra che vince, un personaggio televisivo che fa furore, un altro che protesta insultando tutti, un politico che promette belle parole; si può accettare qualunque forma di governo, si possono subire sacrifici in nome di un fantomatico bene: della nazione, della categoria, di una regione, di un’etnìa, di un’idea. Oppure può esplodere la violenza, manifesta o strisciante.

La violenza, ci rammenta Reich, non è insita come pulsione distruttiva nell’essere umano ma è il prodotto dell’alterazione della vita infantile, è il prodotto di un non rispetto per questa vita e per le esigenze profonde che la caratterizzano, è il prodotto del distacco dal nucleo emotivo sano e del distorcersi degli elementi vitali preesistenti. Per questo egli dette grande importanza all’infanzia e alla necessità di realizzare una prevenzione diffusa, per evitare le sofferenze e le distorsioni di cui la società soffriva (e soffre ancora oggi).

L’evoluzione epistemologica

Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a trasformazioni significative all’interno del mondo della scienza, dal modo di affrontare i problemi alle metodologie con cui si andavano studiando sistemi via via più complessi. L’ottica epistemologica si è andata notevolmente evolvendo. Da una visione puramente strutturalista, che guarda prevalentemente alle entità e ai contenuti, si è passati ad un’attenzione crescente verso le modalità e l’organizzazione dei processi. Pensare in termini di strutture significava voler considerare reali e concreti elementi che spesso non sono materiali; voleva dire continuare a spingere nella direzione dell’organicismo, anche se “psichico”; e infine giustificava la parcellizzazione dell’oggetto di studio perché ne venivano prese in considerazione le singole parti separatamente. E’ invece il concetto di olismo che si sta facendo strada, sostenuto dal bisogno di non tralasciare l’unitarietà del soggetto, di superare la frammentazione e le specializzazioni che finiscono con il perdere di vista gli elementi centrali del funzionamento degli esseri umani, della vita, della salute e del benessere. Ma era necessario poter arrivare ad un olismo che non restasse troppo sul vago e sul generico, e che avesse quindi le capacità di scendere nei dettagli profondi per poter avere capacità operative. Anche i modelli basati sulla divisione in parti, nonostante siano più avanzati, oggi mostrano di non essere più completamente sufficienti per affrontare i nodi della dinamicità e della complessità. Una struttura complessa non può essere considerata come somma di parti definite: le parti rimandano a una suddivisione spaziale, territoriale, che non permette di capire il funzionamento dell’insieme. Una logica delle parti non riesce a includere al suo interno la visione dell’organizzazione del sistema e le parti finiscono per venire considerate l’una in alternativa o addirittura in contrapposizione alle altre.

Dunque siamo in pieno cammino verso nuove ottiche di tipo multidimensionale, verso modalità differenti di guardare alla realtà complessa dell’uomo e delle sue interazioni sociali. In questo cammino, nel quale numerosi studiosi (citiamo per tutti Merlau-Ponty e Morin) hanno già dato importanti contributi, si colloca questo Simposio: un momento di riflessione e di ripensamento ad un percorso iniziato diverso tempo fa. Sono passati 100 anni dalla nascita di Wilhelm Reich: qualcosa di significativo ha avuto origine con il suo pensiero proprio in questa direzione. Un qualcosa che, certo, ha avuto un notevole sviluppo successivo fino a nuove frontiere di pensiero (come quello Funzionale, con il suo contributo specifico sui temi della complessità), ma che ha pur sempre germogliato dalla fecondità di quelle prime idee.

La clinica

La terapia è stato il primo campo di applicazione di una visione che non poteva più escludere il corpo e l’interezza della persona. Ai concetti troppo vaghi di corpo e mente si sono andati sostituendo quelli di funzioni psicocorporee: posture, modalità di movimenti; ma anche apparati di regolazione interni (respirazione, neurovegetativo, ormonale, e giù via via fino ai sistemi biologici più profondi), percezioni, tono muscolare di base; senza trascurare i piani simbolici e cognitivi, i ricordi, l’immaginazione, la progettualità; e infine tuta la gamma delle emozioni e dei sentimenti, quelli espressi, quelli soffocati, quelli trattenuti, quelli esasperati. Tutte queste funzioni concorrono in maniera paritetica all’organizzazione della personalità. La loro integrazione, lo sviluppo armonico delle une rispetto alle altre, la loro piena e ampia mobilità costituisce lo stato di salute e di benessere della persona. Il loro alterarsi, l’ipertrofia di alcune di esse a discapito di altre, la limitazione delle loro gamme, la mancanza di mobilità, le stereotipie, costituiscono un’alterazione complessiva del Sé e uno stato di patologia che sfocia in sintomi e disturbi di vario tipo. E’ dunque l’intero organismo che si ammala. La conoscenza di tutto ciò aiuta a migliorare gli interventi curativi; permette di fare progetti calibrati esattamente sulla persona, di individuare le strade e i metodi più adatti a riequilibrare il Sé, a riconnettere tra di loro emozioni e movimenti, toni di voce adeguati, espressioni del viso congruenti, attivazioni fisiologiche più adatte, sensazioni corrispondenti.

Altri campi applicativi

La possibilità di analizzare le configurazioni delle persone con una modalità precisa e allo stesso tempo globale, dettagliata ma unitaria, ci fa comprendere come il pensiero Funzionale non sia solo una teoria clinica ma un modo di leggere la realtà in generale. Negli ultimi anni lo sviluppo delle sue applicazioni e delle sue implicazioni è stato prolifico. E’ bastato cominciare a guardare non solo all’organismo singolo e non solo al momento della cura. E’ stato allora possibile considerare l’entità famiglia, con le sue atmosfere, con i suoi movimenti, il contatto o la freddezza, le “posture” sclerotizzate o mobili, le chiusure o le aperture. Oppure analizzare il gruppo, con le sue molteplici funzioni psicocorporee, i movimenti agitati o calmi, le sue tendenze a razionalizzare o a lasciar correre, a esplodere o controllare. Esiste un “fisiologico” anche del gruppo: un “sistema respiratorio”, un “circolatorio”, un “vegetativo”, un “percettivo”. Recentemente si è passati ad analizzare organizzazioni ancora più complesse, quali può essere addirittura un’intera città, considerata anch’essa come un organismo vivente: caratterizzata da una “temperatura”, da “movimenti”, “circolazioni”, “immaginazioni”, con un proprio “simbolico”, una “memoria storica”, un “tessuto emotivo”.

Il risvolto sociale

Tutto ciò ci aiuta a comprendere che bisogna guardare all’intera società senza perdere di vista la vita affettiva profonda delle persone, come aveva indicato Reich. Non si può scollegare il benessere individuale da quello collettivo, non si può pensare che le ragioni dell’economia siano sempre più importanti, che viene sempre prima il discorso del lavoro, o del mezzogiorno, o dell’entrata nell’Europa. Bisogna considerare anche i bisogni quotidiani delle persone, le loro emozioni, i desideri profondi, i bisogni di solidarietà, di vicinanza e di contatto. E soprattutto bisogna intervenire a cominciare dall’età in cui il malessere si struttura e in cui le personalità perdono le caratteristiche positive iniziali, si distorcono, smarriscono il senso della loro esistenza; e finiscono per non combattere più per la vita, per la solidarietà, per il rispetto degli altri, della natura e di se stessi. Dobbiamo evitare che personalità “infelici” e disilluse cerchino un palliativo all’angoscia e alla sofferenza nella droga (nelle varie droghe, non solo quelle chimiche), nel potere sfrenato, nella violenza, nella pedofilia, nell’impulso folle alla distruzione o all’autodistruzione. Dobbiamo agire, in fretta e in modo radicale, per salvare i nostri bambini e i nostri adolescenti; dobbiamo mettere in atto un’opera di prevenzione non sporadica ma capace di permeare tutta la società, capace di entusiasmare tutti, di collegare genitori ad operatori, società civile e istituzioni, scienza e professioni, amministrazioni e governo. Se vogliamo far cessare il dramma di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi, che è poi il dramma della società tutta, dobbiamo mettere in atto, presto e bene un’opera di prevenzione primaria. E dobbiamo allora ripensare i processi di costruzione dell’identità dei nostri giovani senza più trascurare nessuna componente psicocorporea individuale né alcuna componente sociale, alfine di salvaguardare le ricchezze esistenti (in partenza) delle nuove generazioni, e le sensibilità specifiche del maschile e del femminile prima che si impoveriscano in ruoli stereotipati e sterili. Bisogna ridare senso alla vita, ridare progettualità non solo all’esistenza individuale ma anche a quella collettiva: un significato di largo respiro basato sul rispetto, sul contatto, sull’amore, sulla tenerezza, componenti fondamentali per una pienezza di vita che non possiamo più trascurare e che invece le accelerazioni, gli sviluppi tecnologici, i modelli precostituiti imperanti nei massmedia stanno distruggendo. La salvaguardia della vita individuale e sociale è nella multidimensionalità, così come quella della vita biologica è nella biodiversità. Non si possono perdere lati fondamentali del vivere umano a favore di velocità, durezza, aggressività, indifferenza, egocentrismo, violenza. Il pensiero Funzionale, la teoria della complessità, ci possono aiutare a dare contenuti, modalità e direzioni precise al nostro agire. Se riuscissimo ad avviare un progetto che restituisca all’infanzia e all’adolescenza gli aspetti che si stanno perdendo, avremo fatto un passo importante verso una svolta decisiva, verso un’umanizzazione completa della società, verso il nuovo millennio.

E avremo fatto il più prezioso omaggio che si possa fare a Wilhelm Reich e a tutti coloro che, come lui, si sono sempre battuti, pagando duramente sulla propria pelle, a favore dell’infanzia e dei giovani, della salvaguardia dei loro bisogni fondamentali, per conservare in una società libera dalla “peste emozionale” i valori fondamentali della vita.