Psicoterapia: Il Ruolo Sociale della Psicoterapia.

Luciano Rispoli, 1995.               

Oggi diventa fondamentale diffondere è una vera e propria cultura della prevenzione, una cultura che metta al primo posto il benessere dell’individuo, la salvaguardia dell’ambiente (inteso non solo come natura), il valore della vita, la gioia, la serenità, il piacere dei rapporti sociali. 


La svolta in psicologia clinica

Stiamo assistendo ad un periodo di profondi cambiamenti e svolte all’interno di una scienza in fondo relativamente giovane, quale è la psicologia clinica.

Innanzitutto l’egemonia tradizionale di alcuni paradigmi classici si è andata gradatamente stemperando. L’interesse per la comprensione del rapporto tra star bene e alterazione degli equilibri della persona si è andato giustamente sviluppando nella seconda metà del secolo, generando nuovi punti di vista, interpretazioni originali e diverse, nuove ipotesi teoriche. La crescita è stata sì tumultuosa, ma a ben vedere non caotica: nel senso che i nuovi paradigmi nascevano dall’esigenza di tener conto di fenomeni e aspetti del funzionamento della persona non approfonditi dalla psicoanalisi frudiana e junghiana: il pensiero di gruppo, il sistema famiglia, il rapporto psiche e corpo, i circuiti a feedback, le strutture cognitive, e così via.

Un secondo fenomeno vistoso è consistito nell’enorme crescita della domanda di aiuto: evidentemente per un accrescersi del disagio nella società postmoderna, ma anche di un’accresciuta consapevolezza di tale disagio e del diritto invece a “star bene”. La formazione non è rimasta esterna a questo fenomeno di sviluppo, ma, incalzata anche dalla nuova legge per gli psicologi e dalle indicazioni dgli standard minimi per il riconoscimento delle Scuole, si è più “professionalizzata”. Non intendo certo dire che la formazione ha risolto i suoi tormentosi problemi, ma che è andata comunque crescendo la convinzione che essa deve fondarsi su solide basi teoriche, che deve collegarsi alla psicologia, che deve affrontare una parte pratica di laboratorio, che deve conservare l’aspetto tradizionale della psicoterapia personale (ma con la chiarezza che quest’aspetto non basta più), che ha bisogno di un collegamento con la realtà della patologia che solo delle  buone esperienze di tirocinio possono fornire.

Un ultimo aspetto, notevolmente importante, sta nella crescita dell’orizzonte su cui sanno di potersi muovere sia la psicologia clinica che il settore più specifico della psicoterapia: un orizzonte che va ben al di là della ristretta visione della cura, verso lo statuto di una scienza che in sostanza studia e affronta la complessità dell’uomo, del suo funzionamento, dei suoi processi psichici e corporei, del suo poter mantenere o meno uno stato di salute, di benessere, di vitalità, di capacità ad agire nel sociale.

A cosa stanno portando questi elementi di cambiamento e di svolta? Ad un ruolo della Psicologia Clinica che non è più relegato nel campo dei disturbi psichici ma che irrompe prepotentemente nel sociale, con la sua capacità di analizzare l’uomo all’interno del sistema più ampio: culturale e ambientale. La Psicoterapia esce dagli studi privati e dagli ambulatori per poterci dare un’immagine critica di tutto ciò che mina il nostro equilibrio e il nostro star bene, di ciò che produce stress cronico: nel nostro lavoro, nel sistema famiglia, nella tecnologia, nei mezzi di comunicazione di massa.

E’ ben giunto il momento in cui la Psicologia Clinica può divenire a pieno titolo scienza della prevenzione.

Una scienza olistica

A questo punto vorrei citare le affermazioni di Ilya Prygogine a proposito di una scienza che si voglia considerare moderna. Prygogine parla, appunto, di una scienza olistica, una scienza che non si chiude nei settorialismi e negli specialismi, ma che si sforza continuamente di gettare un ponte sia tra diversi aspetti della natura, sia tra i differenti modelli che tentano d’interpretarla. Una scienza moderna deve rifuggire dal riduttivismo per divenire scienza della globalità ma anche scienza della complessità. Questo vuol dire che comunque la scienza non rinuncia al compito di capire e spiegare la natura, anche dopo aver assunto la sua complessità; ma anzi ad essa rimane il compito di ricercare modelli di funzionamento, arrivando persino a tentare di trovare “le leggi del caos”. Ho citato Prygogine perché è proprio questo tipo di scienza che può fornirci lo statuto adatto alla moderna Psicologia Clinica: una scienza che non si riduca a ristretti settorialismi ma che si occupi della persona nella sua interezza, nei suoi differenti aspetti, senza cadere però nel “globalismo” vago, nel generico, nell’imprecisato.

Proprio per procedere in questa direzione ho messo a punto in miei lavori precedenti il concetto di Aree Teoriche della psicoterapia, per definire i grandi modelli e sistemi di pensiero (al di là delle differenze di correnti e di autori) che man mano hanno tentato di interpretare il funzionamento dell’essere umano: psicoanalisi, psicologia analitica, sistemica, comportamentismo, cognitivismo, psicoterapia corporea, gestalt, gruppoanalisi. Ora nessuno di questi grandi modelli di funzionamento dell’essere umano può essere considerato come un impianto teorico completamente a sé stante, totalmente separato dagli altri. Piuttosto possiamo dire che ogni modello ha illuminato aspetti differenti della struttura di personalità e della relazione interumana mettendo ciascuno a fuoco aspetti diversi dell’intero campo d’indagine. Nuovi fenomeni che si presentavano nella pratica clinica o nuove scoperte della scienza portavano a nuovi concetti e a nuovi impianti teorici anche nel campo della psicoterapia: fossero il simbolico e le fantasie, i meccanismi di potere nella famiglia, le matrici di pensiero gruppale, i vissuti sepolti nei funzionamenti corporei, ricorrenti copioni e cicli di feedback, l’importanza delle strategie e dei punti di vista, e così via.

Gli errori storici di queste grandi Aree Teoriche (concretizzatesi in Scuole di correnti diverse) sono stati poi di perdere il contatto con questa realtà più globale e complessa, e precisamente:

– non sottoporre a verifica le proprie formulazioni conservando al proprio interno anche quelle obsolete, smentite dai progressi della ricerca;

– assolutizzare il proprio punto di vista, presumendo di ricoprire da soli l’intero campo d’indagine e non più solo quella parte che il nuovo punto di vista aveva contribuito ad illuminare e studiare;

– mettere in atto cambiamenti nella prassi terapeutica concreta, nelle tecniche (rispondendo ad una logica di efficienza e di concorrenza) senza coniugarli con corrispondenti trasformazioni nella teoria generale. Non è possibile introdurre “ecletticamente” tecniche esportate da altri modelli teorici, da altre logiche, senza modoficare minimamente l’impianto teorico di base, perchè usare altre tecniche significa in sostanza aderire ad altri obiettivi, utilizzare altri fattori di cambiamento, spesso del tutto incompatibili con la propria Area Teorica di riferimento.

Ma anche in questo senso siamo ad una profonda svolta perché siamo entrati in pieno (al di là dei pioneristici sforzi di quelli di noi che andavano già da tempo in questa direzione) nella fase del confronto, e più ancora dello scambio, dell’osmosi. I pericoli maggiori da cui bisogna guardarsi rimangono quelli di voler impossessarsi delle tecniche altrui senza un corretto collegamento teoria-prassi; oppure l’arrembaggio precipitoso ad un’integrazione tra modelli che ne lasci fuori alcuni, senza rispettare il pieno pluralismo e il contributo prezioso di tutti i punti di vista; o ancora quello di adottare un facile ma confuso eclettismo mettendo insieme varie tecniche senza una nuova teoria di riferimento. Anche questa fase, invece, deve essere caratterizzata fondamentalmente da una chiarezza epistemologica. E’ necessario costruire, con pazienza e ampiezza intellettuale, a partire dalle conoscenze acquisite in ogni modello, principi meno limitati alla singola ottica, più capaci di estensibilità, più specifici della psicoterapia in sé, intesa come processo profondo di trasformazione.

La ricerca

Dunque un ruolo centrale in questa trasformazione la giocherà ancora una volta la capacità di ricerca (seria, sistematica, ma anche a largo raggio); una ricerca che deve sportarsi sempre di più sul processo terapeutico per capire veramente cosa accade durante il suo svolgimento e non soltanto al suo termine (nel senso di vedere se ci sono stati risultati o no). Dunque vanno studiate le fasi che caratterizzano il processo terapeutico, gli effetti che si producono in esse, le modalità terapeutiche “sostanziali” messe in atto dal terapeuta nel corso del trattamento (al di là delle singole tecniche), le “regolarità” che si riscontrano in tutte le vicende terapeutiche al di là delle ovvie differenze di ogni singola vicenda. Stiamo già cominciando a capire meglio come si sviluppa e si organizza il bambino, come evolve nell’adulto, come si modificano le condizioni di benessere e nascono così i disturbi, sia sul piano psichico che su quello somatico. Cominciano ad essere più chiari i rapporti tra mente e corpo, quelli che possono essere definiti, senza più scissione tra i due aspetti, processi psicocorporei. Risulta sempre più evidente quanta importanza abbia, nello sviluppo del bambino, la protezione, il sostegno, l’affettività, la soddisfazione dei bisogni primari, affinché non vadano perse le capacità vitali, non si interrompa la continuità dei nuclei profondi del Sé, non si alteri in modo irreversibile l’armonia tra i vari piani e le varie funzioni della persona. Comincia ad essere più chiaro quanto importante sia, nello sviluppo dell’essere umano, riuscire a realizzare in modo positivo ed integro le esperienze basilari del Sé: tutte quelle esperienze di vita che costituiscono i mattoni, le basi, dell’esistenza. Sono proprio tali esperienze fondamentali, infatti, che, svolte in ambiente protetto, permettono all’essere umano di portare a termine in modo soddisfacente, senza danni, il lungo periodo necessario alla propria maturazione, al completamento di quell’apprendimento vasto e complesso (cognitivo, affettivo, fisiologico, motorio) che permette una reale autonomia, una piena capacità di vita.

Dalle neuroscienze al funzionalismo

E’ attraverso questa visione ad ampio spettro che si può combattere il riduttivismo delle neuroscienze, il loro incalzante ritorno. E’ facile promettere la pillola per ogni esigenza, la pillola contro l’angoscia, la pillola per la felicità, e persino, la più recente, la pillola contro lo shopping. Ma non è arroccandosi nel soggettivismo puro, non è arroccandosi nello “psicologismo”, che si può contrastare il ritorno dello “biologismo”. Oggi è necessario superare questa dicotomia obsoleta e pericolosa: anche la psicologia clinica deve poter scendere sul terreno biologico, considerando il farmaco non solo simbolicamente come “l’oggetto buono da introiettare”, ma varando piuttosto delle ricerche sulle interrelazioni psicocorporeee nel trattamento terapeutico, valutando la modificazione di alcuni indicatori biologici, e così via. Si tratta di saper coniugare soggettivismo ed oggettivismo, tenere in considerazione anche elementi verificabili su piani che non siano solo quello del vissuto e dell’affettività. Tutto ciò richiede la capacità di andare a studiare i campi di “frontiera” tra le discipline tradizionali, e in particolare le interrelazioni profonde tra tutti i piani che contribuiscono al funzionamento dell’essere umano, le interconnessioni tra le differenti funzioni che costituiscono il Sé. Più che ad una visione olistica in senso vago e imprecisato, come abbiamo già detto, bisogna ricorrere ad un’ottica a 360 gradi capace però di scendere al contempo nel dettaglio più piccolo e profondo, ad un’ottica che io definisco funzionalistica, che sia in grado di guardare all’insieme della persona e nello stesso tempo andare a studiare con grande precisione tutte le funzioni psicocorporee del Sé, e le profonde interconnessioni che ne costituiscono l’equilibrio, determinando la conservazione o meno dello stato di benessere e di salute.

La formazione

La proposta che a conclusione qui lanciamo è di puntare ancora di più sulla formazione e non arretrare nemmeno di un passo su questo terreno. E’ nella formazione, infatti, nella necessità di trasmettere ad altri il senso dell’operare in psicoterapia che viene stimolata fortemente la riflessione, la necessità di sistematizzare e di teorizzare e in ultima analisi la ricerca. E’ nella sinergia tra le differenti realtà della psicologia clinica che può trovare forza il programma di trasformazione della Psicologia Clinica in senso sociale: università, scuole private e servizi territoriali. Non si tratta di combattere una guerra per la supremazia perché una tale guerra è perdente per tutti: bisogna invece utilizzare il contributo di tutti, le conoscenze acquisite, le esperienze elaborate; per poi andare a costruire uno status nuovo della Psicologia Clinica. E’ inevitabile che in questo  percorso ciascuno dovrà essere disposto a buttare a mare qualcosa: ciò che non è più utile, alcune formulazioni, alcuni principi teorici superati, alcuni “dogmi”, alcuni “miti”. Ma ciò che ci aspetta ne vale senz’altro la pena. La formazione non può dunque essere un affare privato, della singola scuola, dell’università, di chi lavora nei servizi: tutti devono fare la loro parte senza poter più ritenere di essere “gli unici” o i “migliori”. La legge che abbiamo, forse non perfetta, ma sicuramente tra le migliori in Europa, ce ne dà comunque la possibilità: si tratta di non travisarla e di applicarla fino in fondo, nel suo spirito. Il fatto che oggi siano solo le prime scuole ad essere state riconosciute dalla Commissione Ministeriale a poter andare avanti e che il riconoscimento di tutte le altre sia bloccato è un fatto gravissimo, che rischia di rompere in modo violento gli equilibri esistenti, di arrestare il processo di confronto e di osmosi in atto, di ritornare ad una formazione intesa solo come business: o perché in mano ad un’oligarchia o per un ritorno ad un mercato selvaggio dove prevale solo l’immagine, la pubblicità, il fumo negli occhi. Dunque è indispensabile che riprendano al più presto i lavori per il riconoscimento delle scuole di formazione, che si moltiplichino le esperienze di collaborazione tra i vari approcci e tra pubblico e privato, che si vada avanti nella ricerca all’interno della formazione.

La cultura della prevenzione

Questi sono i presupposti indispensabili perché si attui il passaggio da una attenzione rivolta alla cura ad una rivolta alla prevenzione. Quella che si deve diffondere è una vera e propria cultura della prevenzione, una cultura che metta al primo posto il benessere dell’individuo, la salvaguardia dell’ambiente (inteso non solo come natura), il valore della vita, la gioia, la serenità, il piacere dei rapporti sociali. Qualcosa di profondamente diverso dall’atteggiamento di “rapina” che ha avuto l’uomo sino ad oggi, specie nei paesi più sviluppati, dalla logica del profitto, dallo sfruttamento selvaggio delle risorse umane e naturali, dalla cultura dell’immagine e del successo, dall’ansia, dalla velocità, dalla divinità-denaro, dalla tecnologia incontrollata. E questo con estrema urgenza. Perché come esistono dei limiti fisici abbastanza ristretti entro i quali si è scoperto è possibile la vita (temperatura, radiazioni, ossigeno, ecc.), così oramai è indubitabile esistono analoghi limiti affettivi, altrettanto ristretti, perche tale vita abbia un senso e non sia solo un vuoto sopravvivere: dei limiti relativi ai bisogni fondamentali del Sé, al di là dei quali la vita è distorsione, è terrore, è angoscia, e si perdono drammaticamente benessere, gioia, e continuità delle esperienze positive del Sé.