Luciano Rispoli Psicoterapeuta: L’epistemologia Funzionale.

in “Il Tetto” nn. 199-201 Gennaio-Giugno 1997.

Nel seguente articolo Luciano Rispoli affronta la complessa dinamica della relazione didattica tra allievo ed insegnante, sottolineando come tale dinamica non si sviluppi solo sul piano cognitivo, ma coinvolga anche il livello emotivo ed affettivo di entrambi i partecipanti.

Complessità della relazione di apprendimento

E’ oramai una conoscenza ampiamente acquisita la “complessità” della relazione didattica, ed è un dato acquisito che essa non si muove solo su piani cognitivi ma mette in gioco l’intero mondo emotivo e affettivo dei suoi protagonisti. Ma oggi possiamo dire qualcosa di più sui processi che si mettono in moto nell’esperienza di insegnamento-apprendimento. Il bambino sperimenta sin dalla nascita il suo rapporto con il mondo circostante, che per lui non è mai neutro e grigio.  Al contrario, ogni oggetto ha forti valenze affettive e le emozioni colorano interamente il mondo che lui va scoprendo con stupore, con gioia, con grande attenzione. Quando diciamo “sperimenta” non vogliamo dire solo che il neonato effettua valutazioni su quello che osserva ma soprattutto che si muove nel mondo, con tutto se stesso.  Da questo muoversi vengono messe a fuoco man mano delle “invarianti”, degli insiemi di esperienze stabili che costituiscono dei veri e propri apprendimenti e in cui vari elementi sono profondamente interconnessi: con la loro compresenza essi creano conoscenza. Il bambino apprende a percepire tutte le caratteristiche che contraddistinguono un evento che si ripete nella sua vita.  Prendiamo come esempio il momento del bagnetto serale.  Il bambino si accorge del cambiamento del tono di voce della madre e del suo modo di muoversi, e non solo dei movimenti volti a preparare il bagnetto.  Si accorge anche del calar della sera, dello scrosciare dell’acqua, dell’odore del sapone e delle essenze. Ancora, egli avverte in modo netto le proprie sensazioni corporee che annunciano il momento del bagno: la stanchezza di un’intera giornata, la pelle che ha bisogno di essere rinfrescata, il bagnato dei pannolini che non si è asciugato del tutto.  Avverte il bisogno dell’acqua, del movimento senza peso quando vi è immerso, del calore, del benessere, delle carezze, delle creme, del borotalco. Il ricordo degli altri bagnetti lo anima, e insieme al ricordo un’aspettativa piacevole del momento che verrà, una leggera eccitazione che prende tutto l’organismo: dal respiro al battito cardiaco, al rossore della pelle. E infine l’emozione: lo stato d’animo di gioia, l’umore di contentezza nell’avvicinarsi del piacere, del gioco, dello scambio di affettuosità con la madre.  Il viso esprime questi stati d’animo, i movimenti di braccia e gambe si fanno concitati e di tanto in tanto più veloci, proprio come fanno i neonati nell’esprimere gioia. Tutto questo è apprendimento: un’esperienza integrata alla quale il bambino partecipa in modo intenso con tutto se stesso e con tutto il suo organismo; a livello cognitivo, certo, ma anche e soprattutto con le emozioni, con i movimenti del corpo, con le posture, con le percezioni esterne e quelle interne; con il ricordo e l’immaginazione ma anche con i sistemi e gli apparati fisiologici interni, dal respiro al sistema neurovegetativo, dal tono muscolare al circuito neuroendocrino. Ora quando noi, in qualunque momento della vita, rimettiamo nuovamente in moto il processo di apprendimento, per forza di cose tocchiamo varie modalità di funzionamento: l’attenzione, la comprensione, ma anche il mostrarsi, l’interesse e la curiosità, il fare contento l’altro, il bisogno di gratificazione, il desiderio di essere visti e di avere il giusto riconoscimento, e così via.

Da questa fondamentale considerazione ricaviamo due concetti altrettanto importanti.

Il primo è che l’apprendimento è comunque profondamente vincolato alla valutazione: il bambino (l’essere umano più in generale) apprende per sé e per gli altri; si aspetta un ritorno del suo impegno da parte dell’insegnante e questo ritorno è tutt’uno con l’apprendimento stesso. La valutazione, allora, non può porsi come elemento “esterno” all’apprendimento, freddamente tecnologico, puramente “oggettivo” ed avulso dalla relazione formativa più complessiva.  La valutazione è parte integrante della formazione. Un secondo corollario riguarda le dinamiche psicologiche ed affettive sottostanti il processo didattico complessivo.  Ogni volta che si rimette in moto il processo di apprendimento questo si va a riinnestare sui vissuti di apprendimenti molto più antichi, sui meccanismi che abbiamo descritto per il bambino piccolo.  Il processo ripercorre le tracce di quelle esperienze, si svolge nei solchi costituiti dagli esiti delle prime relazioni di apprendimento, che implicano sempre il rapporto con gli adulti.  Queste tracce vengono come riattivate, riaccese, e naturalmente influenzano fortemente i processi di apprendimento attuali. Qui non si vuol certo sostenere una posizione deterministica perché, come vedremo meglio in seguito, queste tracce possono anche essere trasformate dalla relazione con l’insegnante.

La comunicazione e la visione funzionale

L’insegnamento-apprendimento si basa dunque, come abbiamo potuto vedere, sui processi di comunicazione che si svolgono tra due persone, costituiti da numerosi “canali” attraverso i quali scorrono incessantemente messaggi nelle due direzioni.  Oggi sappiamo che non è possibile considerare separati questi canali, così come non esiste una vera separatezza tra ciò che si definisce psichico e ciò che si definisce corporeo.  Vi è non solo una profonda interconnessione tra questi aspetti della persona ma addirittura una sostanziale identità. La comunicazione è dunque come un fascio di vie interconnesse che uniscono chi comunica con chi riceve, chi insegna con chi apprende.  Se guardiamo ad uno dei due soggetti in modo più particolare, noteremo che sotto l’aspetto più esterno c’è un mondo complesso ed estremamente articolato costituito da aspetti a volte invisibili ad uno sguardo superficiale ed esterno.

L’epistemologia funzionale ci può venire in aiuto per affrontare il paradigma della complessità. Per farlo è necessaria una mediazione tra il soggettivismo spinto, che considera del tutto individuali e indeterminabili le caratteristiche del funzionamento umano, e il riduzionismo classico di un tipo di scienza che tende a vedere solo l’oggettivo, il quantitativo, la schematicità lineare causa-effetto. Il punto di vista funzionale costituisce il tentativo di guardare invece la realtà a tutto tondo, a 360 gradi, tenendo conto dell’interezza e dell’unitarietà della persona, senza però perdere la possibilità di scendere nei dettagli, di arrivare a livelli di analisi molto precisi. In genere le concezioni olistiche parlano sì di un tutt’uno ma restano nel vago e nel generico, considerano una globalità che risulta alla fine indistinta e confusa: tutto e niente. Il concetto di funzione, invece, permette di fare un salto verso una nuova epistemologia che tenga conto delle peculiarità dell’organismo vivente.  Le funzioni infatti non sono le parti di un sistema, non sono distretti del corpo né singole istanze psichiche.  E dunque non frammentano l’unitarietà del soggetto.  L’epistemologia funzionale supera la visione sistemica classica fatta di “pezzi” che, anche se intimamente collegati, sono pur sempre contrapponibili l’un l’altro. Le funzioni non sono neanche strutture, cioè vere e proprie entità di materia: le concezioni più propriamente strutturali rischiano di reificare elementi che non sono “cose” ma modi di funzionare. La psicologia funzionale, allora, permette di descrivere con grande precisione la funzionalità dell’organismo, scendendo in profondità su tutte le funzioni psicocorporee che costituiscono il Sé, senza timore di perdere la visione complessiva: le funzioni sono infatti l’intero organismo che si esprime di volta in volta sotto differenti modalità. Se ora scendiamo, appunto, al di sotto della vaga globalità costituita dal cerchio esterno della figura precedente, possiamo vedere in concreto quale sia l’organizzazione del Sé della persona nel momento attuale, dopo una storia di relazioni che ha già attraversato, più o meno soddisfacentemente, con l’ambiente affettivo e sociale circostante.  Le funzioni possono alterarsi se i precedenti impatti con la realtà non sono stati positivi, se i bisogni del bambino (fondamentali per conservare la continuità della vita e del Sé) non sono stati pienamente soddisfatti. Se l’armonia complessiva del Sé si perde si avranno altrettante difficoltà anche nei delicati processi di apprendimento.  Le tracce delle esperienze passate, di cui parlavamo prima, si ritrovano appunto come alterazioni delle funzioni del Sé. Alcune funzioni possono svilupparsi esageratamente rispetto alle altre, alcune possono rimanere atrofizzate o comunque ipotrofiche.  Altre funzioni possono perdere mobilità, divenire ripetitive, stereotipate, sclerotizzate.  Oppure si possono creare scissioni tra funzione e funzione.  Le funzioni che si separano eccessivamente dal resto del Sé, vanno in cortocircuito e proseguono nella stessa modalità di funzionamento al di là delle reali condizioni dell’ambiente esterno. Il respiro può essere affannoso, corto e toracico nonostante il soggetto non avverta paura.  Il corpo si può ritrarre da un abbraccio anche se la persona vuole esprimere apertura e amicizia.  La vigilanza e la simpaticotonìa possono permanere anche se non vi è alcun motivo esterno di allarme.  Il viso può esprimere tristezza senza che ve ne sia consapevolezza, e così via.

Leonardo aveva gravi problemi a scuola.  Le alterazioni del Sé creano grosse difficoltà nell’apprendimento.  Non vi è più la mobilità di tutti i piani funzionali così come si ritrovano nel bambino piccolo o nei soggetti che hanno conservato salute e benessere.  Le rigidità e le sclerotizzazioni investono il piano affettivo senza il cui contributo è impossibile qualsiasi apprendimento.  Ma le alterazioni colpiscono anche l’attenzione, la memoria, la capacità di ascolto, da una parte; e la curiosità, l’interesse, il desiderio, dall’altra. La sensazione di non essere capiti aggrava la situazione diminuendo le gratificazioni, e con esse la spinta al cambiamento, alla vita scolastica, allo studio, al desiderio di mostrare ciò che si è imparato e di mostrarsi.

Le esperienze basilari del Sé

Durante gli anni di scolarizzazione ci si riimmette, come abbiamo detto, sulle antiche esperienze del Sé; e se queste non sono state positive hanno lasciato tracce negative profonde nel bambino. Ci sono esperienze all’inizio della vita che sono fondamentali perchè il bambino possa continuare a svilupparsi conservando l’integrazione originaria, la sua mobilità, la capacità di affrontare il mondo con gioia e serenità. La psicologia funzionale le ha definite come “esperienze basilari del Sé”. Esse sono i “mattoni” della vita perchè rappresentano le basi attraverso cui il bambino può consolidare e affinare l’intera gamma dei comportamenti necessari a fronteggiare le possibili situazioni della realtà. A ciascuna esperienza basilare concorrono tutte le funzioni psicocorporee del Sé, attraverso la loro profonda interconnessione. Molte esperienze basilari del Sè sono profondamente implicate nell’apprendimento.  Basti pensare all’importanza dell'”essere visti” o dell'”essere ascoltati”; oppure al ruolo centrale che gioca l'”assertività” nel successo scolastico; o ancora al piacere di mostrarsi; oppure al bisogno di piacere all’altro o di dare piacere all’altro come motivazione perno nel buon rapporto con l’insegnante. Ma anche altre esperienze, meno apparentemente legate allo studio scolastico, vi ricoprono invece un ruolo di grande importanza: come la capacità di “stare”, cioè di concedersi pause nell’attivazione per non far decadere il livello di interesse; o anche di “abbandonarsi a”, come base della fiducia nell’insegnante. Queste esperienze possono essere state non sufficientemente positive nell’infanzia: nel senso di non essere state vissute in pieno, senza ostacoli, con un ambiente anzi che le favorisca, che permetta di dare loro esattemente il senso che dovevano avere e non altro. L’esperienza di “affidarsi” deve essere veramente l’affidarsi: con il corpo, con la mente, con le emozioni.  E non deve essere contaminata da altre situazioni che non hanno niente a che vedere con l’affidarsi: come il dover seguire, l’obbedire, l’essere controllati dall’adulto, l’essere costretti.  Le esperienze sono state positive se non sono state limitate nel loro svolgimento o decurtate nel significato, ma se hanno avuto il loro pieno valore. E’ difficile che un bambino possa conservare la capacità di “stare” se lo hanno sempre sollecitato ad attivarsi, a fare qualcosa per far contenti i genitori, oppure perchè le pause e l’ozio sono visti come inutili e disdicevoli. Un bambino che non è stato “guardato” con affetto, o che è stato guardato senza essere veramente visto, difficilmente crederà che l’insegnante si accorga di lui: e allora si potrà comportare male per farsi vedere; oppure si comporterà male nella certezza di non essere visto; o ancora sentirà come ingiuste le osservazioni che l’insegnante farà sul suo conto, sicuro (anche a torto) che l’insegnante non ha guardato, ha preso una svista, che “non è vero che stavo parlando”, che “mi ha scambiato con un altro”, e così via. Se invece il bambino ha vissuto in modo tendenzialmente pieno e positivo le esperienze basilari del Sé, queste costituiscono un serbatoio importante per il suo comportamento futuro, rappresentano una ricchezza a cui egli può accedere ogni volta che sarà necessario, un patrimonio a disposizione che gli permette di essere attento e di concentrarsi quando vuole, di sentirsi visto, di farsi capire e sentire, di cambiare il giudizio dell’insegnante su di lui quando un giudizio non lo soddisfa o non lo ritiene pienamente corrispondente, di mostrarsi con piacere e solo quando è necessario. Bambini che si mettono continuamente in mostra hanno altrettanti problemi di quelli che non si fanno vedere mai.  Bambini sempre attenti devono farci riflettere quanto bambini che non sanno tenere l’attenzione che per brevi attimi. Recentemente ho utilizzato il termine “attenzione morbida”, contrapposto ad una “attenzione dura”, per mostrare il più chiaramente possibile che un’attenzione veramente efficace è un’attenzione paradossalmente “rilassata”, fatta di movimenti morbidi, di capacità di non restringere l’osservazione ma aprirla ad un campo più globale; fatta di muscoli non tesi e posture non rigide.  Se io guido l’auto con una concentrazione spasmodica, il corpo duro, i movimenti rigidi, gli occhi fissi alla strada, la mia attenzione sarà di gran lunga meno efficace, e il rischio di un movimento errato di guida sarà molto superiore.  In queste condizioni il tempo trascorso alla guida sembra lunghissimo e la stanchezza si accumula rapidamente. Viceversa se si guida chiacchierando, con un’attenzione aperta anche alla persona a fianco, con i muscoli morbidi, i movimenti dolci, il respiro aperto e diaframmatico, la capacità di non commettere errori e di prevenire anche eventi inaspettati e improvvisi sarà certamente e sensibilmente più consistente. Anche se siamo sinora rimasti su di un quadro generale, l’ampia portata di queste considerazioni ci permette una grande ricchezza di possibilità nel momento in cui intendiamo scendere ad un livello più operativo. La creatività degli insegnanti e degli addetti ai lavori non mancherà di costruire una serie di strumenti concreti da mettere in atto nella relazione didattica, sia a livello dell’insegnamento sia a quello della valutazione. Qui ci limiteremo ad indicare le tre grandi direttrici che scaturiscono dal quadro teorico di cornice, e cioè dal pensiero funzionale e dalla concezione delle esperienze basilari del Sé.

La lettura dei vari piani del Sé

Un primo punto riguarda la “distorsione” dei messaggi nella comunicazione.

T————R

E’ evidente che le alterazioni del Sé, dovute ad una non positività e pienezza delle esperienze basilari, creano distorsioni nelle comunicazioni. La prima necessità per T (l’insegnante) è allora riuscire a percepire il più correttamente possibile R (l’allievo), andando al di sotto delle apparenze alla sua complessa configurazione.  Questo comunque presuppone un allenamento a cogliere vari livelli funzionali, vari piani della comunicazione, e soprattutto quelli della comunicazione non verbale a cui normalmente non si è specificamente addestrati. D’altra parte nella comunicazione  R———-T  ovviamente è l’insegnante che deve cercare di recepire il più correttamente possibile quello che l’allievo gli sta inviando.  Ancora una volta non bisognerà limitarsi al contenuto delle parole ma ci sarà da guardare anche ai piani emotivi, ai movimenti, alle posture, e altresì ai rossori della pelle, alle mani sudate, al respiro, al tono della voce, per capire tutto quello che sta succedendo nel Sé dell’alunno. Ma non basta; sarà altrettanto importante che per una migliore comunicazione l’insegnante sappia leggere se stesso ai vari livelli funzionali, sappia avere una certa consapevolezza dei vari piani del proprio Sé.  Quando funziona da “ricevente”, infatti, le condizioni personali possono entrare in risonanza eccessiva, su alcune proprie emozioni, su determinati movimenti, su particolari toni di voce.  Oppure, al contrario, può subentrare una certa difficoltà a “sentire” pienamente le proprie componenti interne.  E ciò porta ad una sorta di opacità, di insensibilità. In fase di trasmissione, viceversa, un insegnante che esprime determinati concetti con le parole, con il “contenuto” del suo discorso, può trasmettere inconsapevolmente messaggi completamente contraddittori con le “modalità” di espressione: dal tono di voce allo sguardo, dai tratti del viso ai movimenti del corpo, dalle posture al respiro. Quanto spesso capita che parlando ad una classe, ad un gruppo di persone, tendiamo a guardare solo quegli ascoltatori che mostrano interesse e attenzione, coloro che mostrano di essere d’accordo!  E questo crea un circolo vizioso di ritorno di sensazioni negative negli altri che possono sentirsi trascurati, ancor più di quanto non lo sentirebbero per i loro timori interni. Questo esempio molto semplice si riferisce a uno solo dei tanti elementi che entrano in gioco nella comunicazione non verbale.  E non dimentichiamo che è proprio la comunicazione non verbale ad avere un impatto molto forte sull’ascoltatore, in quanto non passa che marginalmente per il livello della coscienza ed è quindi molto difficilmente controllabile (come hanno mostrato per altri versi gli esperimenti dei messaggi subliminali). Il capitolo della comunicazione non verbale è importante e complesso, ma non lo tratteremo in questa sede perchè ha bisogno di un proprio spazio adeguato.

La ridondanza

Per cercare di superare le difficoltà di ricezione dell’allievo, per diminuire il più possibile il rischio di distorsione, l’unico modo è di dare una grande ridondanza a ciò che stiamo dicendo.  Noi possiamo dire che siamo contenti dei risultati raggiunti da un ragazzo, aggiungendo poi che possono anche migliorare se lui curerà di più la forma.  Se le alterazioni emotive sono intense, l’autostima e la fiducia basse, il ragazzo inevitabilmente capirà che l’insegnante disprezza il lavoro e gli sforzi che lui ha fatto.  E forse arriverà anche alla conclusione che è del tutto inutile continuare a sforzarsi. Non basta che un insegnante esprima un giudizio positivo se vuole che in un ragazzo difficile arrivi questa positività.  Il suo messaggio deve essere fortemente ridondante per rompere le stereotipie del Sé: ridondante come quantità (ripetuto cioè più volte) ma soprattutto ridondante su più piani del Sé. Il messaggio deve arrivare non solo attraverso il contenuto delle parole, ma con il tono di voce, con lo sguardo, con il gesto, con l’espressione del viso e di tutto il corpo, e persino con il contatto fisico.  Una mano poggiata sulla spalla con un profondo e sincero contatto emotivo può dire molto di più che una parola fredda e sterile. Solo la ridondanza può rappresentare la speranza di penetrare oltre gli strati più duri e difensivi del Sé.

Mobilizzare le polarità e le esperienze basilari

Quest’ultima direttrice, la più recente nella ricerca applicata, è forse la più ricca di possibili implicazioni metodologiche. Si possono intravedere una serie molto ampia di interventi da realizzare in un gruppo classe, interventi volti a riaprire canali chiusi, esperienze troncate, capacità limitate, funzioni irrigidite.  Qui ci limiteremo a tracciarne alcune linee guida attraverso la rappresentazione di “polarità” sui vari piani del Sé. La teoria e la pratica clinica, e in particolare le ricerche della psicologia funzionale, ci dicono che nessuno dei due poli delle “polarità” in cui si articolano le varie funzioni psicocorporee è quello più giusto, e che nemmeno il mezzo è la posizione migliore.

Se noi prendiamo la polarità

o——————–o

esplorare da solo      essere guidati

ci renderemo conto che, piuttosto, è importante per il ragazzo poter andare in modo continuativo da un polo all’altro e viceversa.  Se si è guidati unicamente si può vivere la guida come intrusione, direttività, oppressione; mentre dover esplorare sempre da soli è estremamente scoraggiante e doloroso.  D’altronde stare a metà tra le due posizioni non serve assolutamente a niente. La vera mobilità è invece quella per cui il ragazzo passa tranquillamente da momenti in cui utilizza la guida a momenti nei quali sperimenta le proprie capacità di fare da solo; tornando poi ad utilizzare la guida quando è necessario e ne ha davvero bisogno.  L’andamento della vita è una modularità tra i due poli, una curva sinusoidale che passa ora per l’una ora per l’altra delle due posizioni estreme. Di tali esempi potremmo farne numerosissimi, poiché numerose sono le gamme e le polarità che costituiscono delle basi significative nella funzionalità del Sé.  Ne riportiamo qui (in figura 5) solo alcune, le più importanti relativamente ai processi formativi.

Le polarità toccano numerosi punti cruciali dell’insegnamento, punti spesso controversi tra gli studiosi della materia e gli operatori.  Come abbiamo già detto la verità e la virtù non “stanno nel mezzo”, poichè più il ragazzo, la ragazza riescono ad andare verso uno dei due poli più possono accedere pienamente anche all’altro. Più si riescono ad avere piacevoli ed effettivi momenti di allentamento meglio si riesce a concentrarsi quando occorre.  Se si è sempre concentrati la concentrazione si rivela fasulla e inefficace.  Se si è sempre allentati in realtà non si è serenamente rilassati ma immobili e impotenti.  I due poli, in altri termini, sono solo “falsamente antitetici”. Analoghi ragionamenti li possiamo fare per tutte le polarità presentate nello schema. Alcune dimensioni sono da riferirsi solo allo studente, altre solo all’insegnante, altre ancora ad entrambi. Ora, se noi ci poniamo come obiettivo l’apertura delle polarità, la riacquisizione dell’intera gamma, possiamo trovare altrettante fertili metodologie da appliacre a livello scolastico.  Dalle polarità agli strumenti didattici operativi veri e propri il passo è breve.

Conclusioni

La Scuola rappresenta una importante “seconda possibilità”, nella vita dei giovani, di riparare ferite e lacerazioni dell’infanzia.  Non è vero che i ragazzi nell’età adolescenziale non abbiano più bisogno di appoggio, di fiducia, di guida, di incoraggiamento.  E’ vero che spesso rifiutano tutto questo perchè imprigionati e incapsulati in esperienze passate frustranti e negative. I ragazzi hanno ancora bisogno di tenerezza, hanno bisogno di essere visti, di essere aiutati, di gratificazioni, anche se con modalità consone all’età. D’altra parte se guardiamo al complesso di livelli che costituiscono il Sé ci possiamo rendere conto pienamente che la parte “cognitiva” è veramente solo una piccola parte della nostra complessa personalità.  E dunque è assurdo che la Scuola continui a far leva solo su questo livello funzionale.  Dobbiamo chiaramente essere coscienti che questo è un livello che, per quanto enfatizzato nella nostra società e nei nostri tradizionali sistemi scolastici, non riesce a raggiungere da solo i nuclei profondi della persona, e a realizzare vera conoscenza. Dunque riprendere le esperienze basilari del Sé è di importanza fondamentale nella battaglia all’insuccesso scolastico, all’emarginazione, all’abbandono agli studi.  Ma è anche qualcosa di più: è una prospettiva positiva e concreta di un progetto di prevenzione al disagio degli adolescenti e dei giovani più in generale.  E’ davvero offrire un’altra possibilità a tutti i ragazzi che hanno vissuto in modo problematico le esperienze più antiche di relazione formativa e che ne portano con sé, pericolosamente, le tracce. Aprire la Scuola su queste prospettive rappresenta anche una buona possibilità di far ritornare l’apprendimento e lo studio nel loro alveo naturale: e cioè al livello dell’attenzione giocosa (anche se seria) che il bambino piccolo mette nello studiare il mondo.  Dobbiamo recuperare in pieno ciò che è profondo e naturale in ognuno di noi: il bisogno della conoscenza, il piacere di imparare, il gusto della curiosità per il nuovo, la voglia di aperture intellettive.