Luciano Rispoli psicologo: La psicoterapia Funzionale in un servizio materno infantile.

 in “Psicologia e Società n . unico 1991” – E.T.S. (Edit. Tirrenia Stampatori), Torino.

Gli autori analizzano le prospettive e gli stru­menti della psicoterapia funzionale all’interno di contesti istituzionali, in particolare in un servizio materno-infantile. Il lavoro illustra i metodi diagnostici e di intervento multidimensionali della terapia funzionale. L’analisi della configurazione complessiva fun­zionale del bambino viene messa in relazione alle caratteristiche della famiglia e agli squilibri esistenti sui vari piani del Sé: dal cognitivo-simbolico al posturale-motono, dall’emotivo ai complessi sistemi e apparati che costituiscono il piano fisiologico. Questa visione considera anche il servizio come insieme di più funzioni che devono essere armonizza­te tra loro per intervenire efficacemente e riequilibrare scissioni e alterazioni nel sé del bambino visto al­l’interno della sua rete affettiva e relazionale.


Con questo lavoro intendiamo offrire alcuni spunti di riflessione sulle possibilità di utilizzo del modello della psicoterapia funzionale in un contesto istituzionale (USSL), più precisamente, in un servizio materno-infantile. Le nostre considerazioni investono il modello da due punti di vista, tra loro strettamente connessi:

  1. a) come modello di psicologia evolutiva che guarda al soggetto ponendo particolare attenzione alla strutturazione del Sé e alle modalità caratte­riali di difesa;
  2. b) come metodologia di intervento clinico.

Non intendiamo qui riprendere in tutti i dettagli la concezione teorica della psicoterapia funzionale (per la quale si rimanda alla letteratura), ma ne richia­meremo alcuni punti tentando di definire alcune linee di una metodologia che trova una sua collocazione in un setting ed in una realtà operativa ben precise e particolari, quale quelle di un servizio pubblico. Avremo così modo di osservare l’elevato grado di adattabilità e di operatività del modello funzionale anche nelle istituzioni.

Dalla diagnosi all’intervento integrato

La diagnosi nella sua essenza è una mappa di orientamento tracciata uti­lizzando i molteplici dati dell’osservazione; come tale essa è strettamente connessa con il modello di riferimento, sia esso più o meno esplicitato e più o meno consapevole. Al tempo stesso la diagnosi è finalizzata ad un intervento, e quindi risente anche della metodologia operativa di chi la esegue in quanto ognuno interviene sulla base di quegli indici che ritiene importanti e determi­nanti (cfr. Rapaport, Gill e Shafer, 1968). In base a questi presupposti teorico-clinici diventa allora fondamentale giungere ad una operatività che non separi i due momenti (diagnostico e terapeutico) e che non li concepisca come strettamente appartenenti a professio­nalità diverse. Operando in equipe multiprofessionale sull’infanzia vi è ancor maggiore necessità di integrare l’apporto delle varie figure; non nel senso di una mera sovrapposizione di parti, ma in un’ottica unitaria ed allargata. Il rischio è infatti che le varie figure si occupino ognuna di un solo aspetto del bambino in modo separato l’una dall’altra. Questo atteggiamento viene spesso favorito anche dal curriculum formativo quando è settorialmente troppo “specialistico”. Le possibilità, per una equipe che intenda operare con un approccio di tipo integrato, sono di due tipi. L’uno è di giungere ad un quadro diagnostico composito, come un puzzle i cui vari settori si uniscono ad incastro; in questo senso ogni operatore si occupa di un pezzo dell’incastro, nel tentativo di comporre un quadro d’insieme che porti ad una evoluzione e ad un miglioramento del disagio. L’altra, invece, partendo dal puzzle, tenta di elaborare un modello complesso della personalità e delle patologie, un modello di integrazione, in cui le varie aree del Sé, le funzioni psicofisiche, i vari sintomi e gli indici della diagnosi, trovino un loro significato funzionale all’interno dell’organismo-persona; un modello cioè che consideri il soggetto con il suo processo evolutivo nella sua globalità. Da un altro punto di vista potremmo dire che qualora l’equipe fosse conce­pita come un gruppo-organismo (come un insieme che è diverso o di più della semplice sommatoria dei singoli elementi), anche il prodotto del suo lavoro dovrebbe risentire ditale integrazione e complessità. Infatti il funzionamento dell’equipe, la sua storia e le modalità con cui le varie figure professionali interagiscono, determinano anche la metodologia operativa e quindi il modello di riferimento (spesso non analizzato ed esplicitato), e con esso il “tipo” di bambino e di situazione che si osserva. L’ipotesi operativa che qui si intende analizzare prevede di porre attenzione, tra i molti elementi ed indici che si presentano relativi al bambino ed al suo contesto, soprattutto (non solamente) agli aspetti formali, alle modalità di espressione e di relazione con l’esterno, Leggere ed affrontare una situazione di disagio evidenziando le modalità caratteriali permette di cogliere elementi di connessione tra i vari piani di funzionamento dell’organismo. Infatti le modalità ripetitive (caratteriali) si presentano come invarianti che attraversano le varie aree del Sé, e quindi permettono di elaborare un intervento attento alla globalità del soggetto ed alla sua struttura relazionale (invarianti nella rete sociale del bambino). Il bambino che presenta una situazione di disagio vive spesso una condizione di scissione o frammentazione tra i propri piani di funzionamento; scissioni e sconnessioni che si ripercuotono inevitabilmente sul senso d’identità e di autostima. Tali alterazioni del Sé, se per un verso sono all’origine (storicamente) del disagio manifestato, per l’altro spesso trovano una risposta da parte del­l’ambiente che tende a perpetuarle acuendo la conflittualità. Ad esempio un bambino che esprime il proprio disagio con una sintomatologia dell’asse somatico trova spesso risposte di tipo medicalistico; in tal modo ci si prende cura di un corpo “fisico” trascurando e perpetuando la Connessione con la componente psico-emotiva strettamente interrelata. Oppure un disagio espresso sull’asse cognitivo, con i conseguenti ritardi di apprendimento, trova frequen­temente una risposta di tipo pedagogico o riabilitativo, settoriale e tecnicistica (psicomotricità, logopedia, etc.). La possibilità di concepire i vari piani del Sé psico-corporeo tra loro separati è data dal fatto che nel processo evolutivo e di continua specializzazione “le differenti funzioni cominciano a diventare, anche se non del tutto, nuclei a sé stanti e parzialmente separati dalla struttura unitaria del Sé” (Rispoli, Andriello, p. 77). Nelle situazioni in cui c’è un disagio conclamato assistiamo ad una eccessiva separazione per cui diviene necessaria un’ottica che si sforzi di andare maggiormente dentro la profondità della stratificazione emozionale, oltre il dato superficialmente presentato. Questo è possibile attuando un’analisi della situazione che si avvalga proprio dell’individuazione delle modalità di funzionamento e di relazione; in quanto lo spostare l’accento sul modo anziché sul contenuto permette di cogliere i tratti caratteriali cioè la struttura caratteristica del Sé in modo intero, i messaggi e gli atteggiamenti verso il mondo che la persona esprime unitariamente (anche se in una condizione di rigidità) attraverso più piani: cognitivo-simbolico, somatico, emotivo e relazionale. Individuare i tratti caratteriali significa come prima cosa dare unità, mettere insieme tra loro aree apparentemente separate. Ritrovare e rimandare una unità permette anche di ricostruire una identità, se pur relativa in un primo momento solo ai meccanismi difensivi, spesso messa in crisi dalla condizione di sofferen­za. Riconoscere ed accogliere queste modalità di relazione, rispettandole in quanto difese necessarie di quel particolare momento evolutivo, è il primo passo per un approccio clinico che consideri il bambino nella sua globalità. Ritrovare fili e connessioni anche nella situazione di disagio e di patologia è già in se stesso un fattore di contenimento e un fattore che favorisce l’alleanza terapeutica con il bambino e l’ambiente sociale che con lui interagisce. Un altro momento importante del bilancio diagnostico è la individuazione delle emozioni e della loro modalità di espressione o di non espressione. Molte disarmonie evolutive, blocchi di apprendimento ed altre forme di sintomatologia,sono spesso tentativi di strutturare difese nei confronti della percezione o della espressione di emozioni non accettate e vissute come perico­lose. Di queste, l’aggressività, nelle sue forme, sfumature e significati diversi a seconda del momento evolutivo, è di gran lunga quella più rimossa, più difesa, più difficilmente esprimibile. Affinché si possa elaborare un intervento che favorisca la diminuzione di sconnessioni all’interno del bambino è necessario formulare un quadro diagno­stico che prenda in esame:

  1. a) qualità e grado di sviluppo dei piani del Sé corporeo:

Cognitivo (simbolico, ricordi, razionalità, immaginativo); Emotivo; Fi­siologico (apparati e sistemi); Posturale (struttura muscolare, morfologia, movimenti, posture); fase evolutiva raggiunta in ognuno in relazione all’età ed al processo di strutturazione del Sé.

  1. b) rapporto tra i vari piani, maggiore o minore estensione e sviluppo dell’uno rispetto agli altri, livelli di interazione e connessione attualmente attivi, qualità e grado delle sconnessioni;
  2. c) connotazione del falso-sé;
  3. d) principali modalità caratteriali di difesa e di rapporto con l’esterno, intendendo ovviamente il carattere come la struttura difensiva “che informa di sé tutti i piani funzionali del Sé corporeo” (Rispoli, Andriello, p.96);
  4. e) caratteristiche delle modalità relazionali in famiglia e nella rete sociale. L’intervento allora è mirato sì alla rimozione della condizione di disagio o

del sintomo manifesto e motivo della richiesta, ma prendendo in esame l’intero Sé del bambino. Una volta individuati i principali tratti caratteriali (che riman­dano ai punti di sconnessione tra i piani) l’intervento è teso a favorire una loro mobilizzazione modificando da un lato le situazioni ambientali che li perpetua-no (modalità di rapporto dei genitori il cui peso è maggiore o minore a seconda dell’età del soggetto) e dall’altro suggerendo risposte ai bisogni sottostanti, che spesso il bambino esprime o sotto forma di sintomi che investono il fisiologico, o con comportamenti chiaramente regressivi, etc. L’accettazione da parte dei familiari di questi movimenti regressivi, e la loro risposta ai bisogni affettivi che emergono, permette spesso al bambino di riprendere un processo evolutivo e di individuazione, poggiando su aree di connessione e di integrazione sempre più ampie, anziché essere spinto ad ipersviluppare un piano, o alcuni aspetti di un piano, a scapito ed in contrapposizione con altri. L’intervento clinico territoriale può inoltre essere caratterizzato dalla pos­sibilità di considerare, in chiave di bilancio diagnostico e di intervento, più “fuochi” quali ad esempio il singolo individuo, la famiglia o l’intera rete di relazioni in cui è inserito. Ciò permette di ampliare la portata del modello funzionale ai livelli istituzionali.

Strategie di intervento: dal soggetto alla rete sociale

Per quanto l’intervento multifocale agisca su più livelli e consideri l’intera rete (e di volta in volta i punti di essa significativi e possibili di modificazioni) in cui il bambino è inserito, esso ha comunque come obiettivo e come focus centrale di giungere ad un cambiamento della situazione di disagio del bambino stesso (cfr. Fava Vizziello, 1981. 1983). Pertanto, in ultima istanza, rimanda al modello teorico-clinico di riferimento, vale a dire al modo in cui è concepito e visto l’organismo umano ed il suo funzionamento. Riprendiamo alcuni degli elementi che caratterizzano il modello funzionale e ne evidenziano la specificità all’interno del panorama della psicologia clinica; essi sono:

  1. a) l’ipotesi di una integrazione originaria tra i nuclei del Sé;
  2. b) la concezione del Sé come insieme dei piani cognitivo, emotivo, fisiolo­gico e posturale;
  3. c) la concezione del carattere come configurazione e costellazione com­plessiva della struttura del Sé.

L’intervento terapeutico, o più generalmente “clinico”, è di conseguenza centrato sulla mobilizzazione degli aspetti caratteriali e sulla reintegrazione dei piani del Sé. I punti di sconnessione (con la molteplicità di forme in cui questa si presenta) tra i piani funzionali del Sé trovano una loro organizzazione nella struttura caratteriale; questa ultima si costituisce infatti come tentativo di risolvere la conflittualità tra bisogni espansivi del bambino e frustrazioni dell’ambiente; gli uni (i punti di sconnessione) rimandano pertanto all’altra (la struttura caratteriale), la quale, una volta costituitasi, tende a perpetuare le sconnessioni stesse. Conseguentemente vi è uno stretto rapporto tra mobilità e reintegrazione, l’una essendo il presupposto per l’instaurarsi dell’altra: infatti la mobilizzazione degli aspetti caratteriali è la condizione necessaria perché si riattivino i processi di reintegrazione. In questa ottica anche un intervento territoriale va sviluppato a partire dall’analisi di questi elementi diagnostici e terapeutici. Essi possono venire utilizzati, pur con le necessarie correzioni e regolazioni, per un intervento che consideri sia il minore che la rete sociale in cui egli è inserito. Se consideriamo focus prioritario dell’intervento il minore (bambino, ragazzo, adolescente), la prima cosa da farsi è allora un quadro diagnostico dello stesso, nei termini di cui sopra, individuando la struttura del Sé e i punti di maggiore e minore mobilità. Infatti affronteremo diversamente i punti di sconnessione e di rigidità da quelli integrati e mobili. La seconda cosa, o meglio, quella da farsi in parallelo, è un’analisi della dinamica familiare, anch’essa alla luce delle considerazioni di cui sopra. A questo punto dovremmo essere in grado di individuare anche gli elementi di forza, presenti sia nel bambino che nella famiglia, quelli cioè su cui far leva per rimettere in moto funzioni che si sono arrestate nel processo evolutivo. L’intervento dello psicologo è per certi versi l’elemento catalizzatore che rimette in moto, riattiva una serie di processi potenzialmente presenti nel campo psico-affettivo. Le modalità in cui questa operatività si esplica, le forme che essa assume, possono essere molto diversificate tra di loro, a seconda della fase evolutiva del minore, delle caratteristiche strutturali, di quelle familiari, etc. Si può spaziare da un intervento rivolto solo ai genitori, con colloqui periodici, a interventi più diretti anche con il bambino: psicoterapia, interventi di riabilitazione, etc. Ciò che caratterizza l’operatività non è quindi solo il cosa viene fatto, che è in re­lazione sia alla tipologia del disagio che alle possibilità concrete di attuazione del progetto terapeutico, ma anche e soprattutto il come e il modello di riferi­mento che ad esso è strettamente connesso. A seconda delle Situazioni l’intervento può implicare e coinvolgere non solo il nucleo familiare, ma anche antri punti della rete relazionale e sociale del soggetto, quali ad esempio la scuola, momenti aggregativi sociali territoriali, etc. L’elemento informatore dei vari interventi (svolti anche da operatori diversi, quali ad es. psicologo, assistente sociale, psicomotricista, logopedista, fisioterapista, educatore domiciliare) è comunque il modello funzionale, ed ognuno di essi va collocato all’interno di un’ottica più complessiva che valuta anche le modificazioni che in conseguenza dello stesso si hanno nell’equilibrio tra i piani del Sé.

Il caso

A conclusione portiamo un esempio per meglio chiarire la metodologia di intervento qui illustrata.

Francesca, 4 anni. Giunge al servizio all’età di 3,6 anni con diagnosi di “sindrome di West” e grave ritardo nello sviluppo psico-intellettivo. Le crisi epilettiche, iniziate all’età di 5 mesi, sono al momento sospese in seguito alle cure farmacologiche.

Situazione familiare: il padre è morto per tumore quando Francesca aveva 2 anni e la madre è rimasta sola con altri due figli in età scolare, dovendo inoltre portare avanti la gestione di una piccola ditta. La madre ha portato e porta la figlia presso vari ospedali e specialisti neurochirurghi, con un atteggiamento caratteriale, una maniera coattiva e ripetitiva di presentarsi al mondo, che suona come “faccio tutto io, chi siete voi per dirmi cosa devo fare con mia figlia, voi non potete capire”, che si accom­pagna a vaghe preoccupazioni che la figlia venga “manipolata” e “programmata” dagli psicologi. Il rapporto con Francesca è centrato su un iperinvestimento della dimensione organica”; la sola preoccupazione della madre (che dichiara apertamente) sono le crisi epilettiche, contro le quali sembra aver intrapreso una guerra, alla ricerca di una ghiandolina nel cervello (ipotizzata al 90% dagli esami radiologici) da asportare chirurgicamente. Il rapporto con la figlia investe principalmente il piano muscolare-posturale e fisiologico, con una modalità di controllo e un contatto “meccanico” razionalizzato e medicalizzato. Scarsa e quasi nulla attenzione è rivolta al piano emotivo ed alla figlia vengono inviati messaggi soprattutto di rifiuto, di negatività. I messaggi che investono il piano cognitivo sono essenzialmente comandi, urla di rimprovero, alternati a momenti più affettuosi, ma di una affettuosità fredda. Il principale elemento che caratterizza la relazione tra la madre e la figlia sembra essere la scarsa attenzione alla personalità di Francesca, alle sue ricerche affettive; F. inoltre è continuamente misurata con le aspettative materne (an­ch’esse poco chiare e definite) nei suoi confronti.

I dati salienti che compongono il quadro diagnostico funzionale, relativi ad osservazioni dello psicologo effettuate durante sedute di psicomotricità sono i seguenti:

In una situazione nuova Francesca piange, con un pianto misto di paura e di nervosismo che sembra essere una cosa abituale: comunque in questa fase osserva le persone presenti nella stanza. Quando la madre la sgrida alzando la voce, F. lentamente smette di piangere e risponde alle sollecitazioni della stessa e della psicomotricista, giocando con delle palline colorate. Lentamente pare tranquillizzarsi, si allontana dalla madre per giocare ed esplorare l’ambiente; frequentemente comunque volge lo sguardo verso di lei, con un atteggiamento ammiccante, ricambiata allo stesso modo dalla madre. Nel rivolgersi alla madre inoltre F. gesticola e ride esageratamente. Nel rapporto della madre verso la figlia emerge soprattutto una ambivalenza giocata su piani diversi: quando la guarda senza parlare lo sguardo è ammiccante e la mimica facciale è di seduzione; quando le parla lo fa sempre con tono di voce deciso impartendo ordini tesi a limitare i comportamenti spontanei di Francesca, quali ad es. gettare oggetti a terra, scrivere sulle mani, etc. L’interesse di Francesca è rivolto più agli oggetti che alle persone, il gioco spontaneo è limitato ad attività di riempire e svuotare, con pochi oggetti. Nello sguardo ravvicinato con gli oggetti la focalizzazione visiva è instabile, compa­iono movimenti oculari scoordinati, che si normalizzano se guarda oggetti lontani. L’espressione linguistica è limitata a vocalizzi e lallazioni, il tono di voce è espressivo ed in relazione al rapporto con l’adulto. L’atteggiamento motorio complessivo è caratterizzato da lievi tremori persistenti, l’equilibrio è instabile pur essendo presente la deambulazione. L’instabilità e il tremore variano a seconda della situazione, diminuendo nelle attività maggiormente sperimentate. L’emozione dominante sembra essere la paura, che può essere colta sia nella instabilità di cui sopra, sia nell’atteggiamento di portarsi una o entrambe le mani al viso, riparando gli occhi dilato, ogni volta che sente un rumore. Il rapporto con l’esterno è caratterizzato da un continuo alternare momenti di chiusura (gesticola vocalizzando, dondolii, giochi stereotipati) a momenti di labile apertura (imita l’adulto, partecipa a giochi di relazione quale lanciare la palla, etc.). Nelle fasi di chiusura e regressione si attenua il tremore. Sulla base del quadro diagnostico, si individua nella fragile e disomogenea integrazione tra i piani del Sé il focus privilegiato, il perno attorno al quale strutturare l’intervento. In particolare risalta l’instabilità (dovuta anche alle passate crisi epilettiche) del piano posturale, e la concomitante sconnessione fra il cognitivo e le emozioni; la perdita di contatto si presenta quindi come meccanismo difensivo di fronte all’angoscia connessa con la scarica epilettica. Si rilevano inoltre come punti di forza i momenti regressivi in cui sì Francesca si chiude, ma in questo suo chiudersi diminuisce l’angoscia e pare essere presente una maggiore integrazione e contatto. Si elabora pertanto un progetto terapeutico così strutturato: intervento di psicomotricità con F. (basato fondamentalmente sul rapporto affettivo) con l’obiettivo prioritario di raccogliere i momenti regressivi e cercare di entrare in rapporto con la bambina durante queste fasi di chiusura. Contemporaneamente si cerca di rispondere ad alcuni suoi movimenti che vanno nel senso di ricercare una figura di riferimento; questo affinché le stimolazioni di tipo conoscitivo, psicomotorie e di rapporto con gli oggetti, si collochino su un terreno di integrazione se pur a livelli precedenti di sviluppo, piuttosto che su un piano cognitivo più avanzato ma sconnesso. Valutato inoltre il rapporto con la madre e la sua impossibilità in questa fase ad avere un rapporto meno “mentalizzato” con la figlia, si individua nell’am­biente della scuola materna un ambito che può offrire contenimento alla bam­bina, e si interviene in modo che le insegnanti riducano le stimolazioni di tipo cognitivo, per cercare anziché di ipersviluppare questo piano del Sé, di proporre stimolazioni che lo tengano in connessione con i movimenti affettivi. L’intervento con la madre a sua volta è teso a ridefinire l’immagine della figlia, carica di emozioni forti ed ambivalenti, e le sue aspettative con quello che la figlia sembra essere agli occhi esterni, riducendo queste zone ipertrofiche e riaccostandole agli aspetti morfologici di postura e di movimento propri e della bambina. Ciò le permette di iniziare a guardare la figlia un po’ più obiettivamente, con occhi esterni, e a vedere più concretamente sia le sue difficoltà sia i suoi passi, i suoi movimenti evolutivi, i cambiamenti che sta facendo. A partire da questo esempio siamo in grado di sottolineare come sia possibile far leva sulla rete sociale utilizzandone i vari elementi (famiglia, scuola, psicomotricista, psicologo), a seconda del tipo di possibilità relazionali che offrono, per impostare un intervento mirato a ridurre quelle comunicazioni che concorrono a mantenere le sconnessioni tra le aree del Sé. Ciò che bisogna fare è modificare le interazioni presenti per far sì che favoriscano movimenti di integrazione, allargando quelle che sembrano essere le zone dove è ancora abbastanza intatta l’interconnessione originaria tra piani e sottopiani del Sé, anche quando queste trovano espressione in modalità di rapporto regressive rispetto all’età.