Luciano Rispoli psicologo: La vegetoterapia carattero-analitica e il caso di Emma.

 in Psicoterapia e Scienze Umane” Vol. IV – Milano, 1987.

di Luciano Rispoli* S.I.V. Salita San Filippo 1/C, 80122 Napoli.

Non è certo facile commentare sinteticamente il caso di Emma dal punto di vista della «Vegetoterapia carattero-analitica»e, più in generale, del modello e (che oggi va aggiungendo basi teoriche ed epistemiche nuove e scientificamente fondate) della psicoterapia corporea o del Sé corporeo.


 

Più semplice sarebbe illustrare il procedere di una relazione terapeutica tutta interna a questa teoria. Ma questa esperienza offre comunque spunti di discussione molto interessanti, concernenti tra l’altro questioni che trascendono il singolo approccio terapeutico, poiché emergono sia quelle aree di confine, di «interfaccia» tra tecniche e tecniche, sia tra teorie diverse, spesso matrici di nuove intuizioni, di aperture e di feconde teorizzazioni. Analizzando questo caso considereremo come assunto di fondo la «Vegetoterapia carattero-analitica» nelle sue più recenti formulazioni (analizzate ed esplorate in altre pubblicazioni) (1), anche se la conoscenza profonda di tale teoria spesso non è né scontata né diffusa. I temi generali entro i quali possiamo subito incentrare e inquadrare l’intera discussione riguardano:

  1. I campi di applicazione e di utilizzazione della psicoterapia corporea;
  2. Le connessioni esistenti tra modello psicoanalitico e modello del Sé corporeo;
  3. I processi relazionali e psichici messi in atto da un rapporto fisico tra paziente e terapeuta;
  4. Gli obiettivi (in termini di sintomi, di conflitti, di modificazione di strutture) di un processo terapeutico in generale e di quello psicocorporeo in particolare;
  5. I modi, i tempi, i significati dei movimenti del paziente, intesi in senso ampio e complessivo;
  6. Le modalità del contatto fisico: zone su cui intervenire, sequenza degli interventi, tipo di tocco, relazione con le altre maniere di omunicare. ecc.: vale a dire aspetti e processualita in psicoterapia Corporea.
  7. La lettura e l’uso della globalità  dei movimenti controtransferali dell’analista (fisici e psichici al contempo).

Naturalmente non possiamo qui andare a fondo su tutti questi punti, che potranno essere considerati sempre però come confini di un confronto e un dibattito possibili. Nel leggere le vicende di quest’analisi, i commenti che ne scaturiscono non vanno intesi come «giudizi» sul comportamento dell’analista, o sulla correttezza <<nell’ibridare>> teniche diverse. Anche se di fondo resta la considerazione che non si possano «riinventare» un modello psicologico e una teoria complessa e globale, che hanno oramai una vita di 60 anni (necessità del rispetto reciproco di competenze, conoscenze e appartenenze) qui si cercherà solo di accennare come in alcune situazioni avrebbe interpretato e agito l’analista corporeo-caratteriale.Quello che colpisce inizialmente è che la prima manifestazione di emozioni negative risulti evidente solo dopo 9 mesi dall’inizio del trattamento. Secondo la vegetoterapia, invece, sono molteplici i canali attraverso cui questa emozione ha modo di affiorare, soprattutto se si considerano tutte le aree nelle quali si articolano i processi funzionali dell’intero organismo umano. Il piano posturale, somatico strutturale; quello dei sistemi e degli apparati fisiologici; quello dell’ideazione, dei ricordi, del pensiero logico e cognitivo; e infine l’area della funzione emozionale ed affettiva. Anche se le osservazioni dell’analista freudiano non sono allenate a cogliere quello che accade in queste aree (dove probabilmente si sarebbero potuti evidenziare numerosi aspetti del tratto caratteriale ed emozionale dominanti della paziente), pure si possono rilevare nella trascrizione del caso numerosi segnali di una rabbia presente ma complessa e inconsapevole. Ad esempio il suo «non muoversi» per non offendere e ferire l’analista; il lungo periodo intercorso tra il primo colloquio e l’inizio della terapia; la mascella evidentemente contratta e serrata. L’aggressività profondamente mescolata alla paura (sostenuta da una molto probabile costellazione di atteggiamenti posturali, alterazioni muscolari, disfunzionalità fisiologiche) è centrale nella struttura caratteriale di Emma che sembra esprimere un coattivo e ripetitivo messaggio ai mondo, del tipo: «Ma non capite che non ce la faccio, che assolutamente non cela faccio?»;oppure: “devo essere riconoscente! Devo trattenermi! devo sentire qualcosa!”. Una conferma di queste ipotesi la si può cogliere dal suo irrigidirsi e richiudersi per non aver sentita accolta la propria «rabbia dirompente» all’interno della relazione terapeutica. Il terapeuta sposta l’accento su altri sentimenti a suo parere molto più importanti e più temibili della rabbia, non permettendole di cominciare (anche se con difficoltà) a sperimentare e ad avvicinarsi in modo via via più diretto e concreto a questa delicata zona emozionale, per poterla poi districare da arcaiche fantasie e da percezioni angosciose di abbandono e di distruzione totale. In Emma si acuisce la sensazione di essere giudicata più che accolta, e si intensifica così in modo esasperante l’attenzione vigile ai «minimi segni che giungano dall’analista.  E’questo un atteggiamento abbastanza tipico e presente nelle fasi iniziali della relazione terapeutica oltre che in determinati momenti di passaggio da una fase ad un’altra), ma abbastanza inusuale in vegetoterapia quando  la “regressione psicosomatica” è gia profondamente in atto (come lo è dopo 9 mesi di sedute). Le percezioni sensoriali e il cammino del pensiero hanno infatti già profondamente caricato di intensità e intenzionalità emotive (quasi sempre poco consapevoli nella loro pin profonda connotazione) il rapporto terapeutico, facendo diminuire la condizione più esterna di vigilanza, di controllo esasperato, di sfiducia e paura ad abbandonarsi nelle mani dell’altro. Ciò corrisponde ad un lavoro accurato e profondo, prioritario, sul transfert negativo, e su di un primo rafforzamento di quello positivo. Tradotto in termini del nostro modello attuale, ciò significa che ampio spazio viene dato subito all’accoglimento del tratto caratteriale prevalente e più diffuso nel comportamento e nel corpo della persona e alla ricucitura delle scissioni (almeno le più superficiali) tra gli elementi posturali e mnestici che lo compongono. Questo permette di rafforzare un primo nucleo di sentimenti positivi e autopercettivi per riuscire ad affacciarsi e ad esplorare più profondamente e insistentemente la sfera delle ostilità e delle oppositività. L’alleanza del terapeuta è in questa fase con quei movimenti, espressioni e strutture del Sé che alimentano il messaggio ripetitivo e stereotipato che il paziente rimanda al mondo, con il suo tratto caratteriale. Winnicott esprime qualcosa di abbastanza simile quando insiste sulla necessità di accogliere e vedere innanzitutto il falso é che si è strutturato nei paziente, dandogli proprio così un primo segnale molto forte di comprensione ed accettazione delle sue difficoltà ad esistere. Naturalmente una continua attività di lettura delle sconnessioni esistenti tra un tipo di modulo espressivo ed un altro (verbale e non verbale), permette in vegetoterapia di verificare dove (in quali processi funzionali) è più ispessito il falso Sé. Attraverso un contatto fisico, che è caratteristico sin dall’inizio, il terapeuta può non scontrarsi con il tratto caratteriale e la relativa resistenza, ma penetrarvi più  profondamente al di sotto, nella zona dei bisogni più regressivi sottostanti , proprio attraverso quelle funzioni del Sé corporeo nelle quali l’integrazione è maggiormente intatta. Le condizioni di mescolanza confusa tra percezioni arcaiche e sessualità pin adulta che si presentano in modo chiaro e persistente in Emma (e in più momenti terapeutici), potrebbero venire aperte e sciolte in un  processo in cui la «regressione psicosomatica» si approfondisce ben al di la della situazione di inizio analisi, in tempi abbastanza brevi, permettendo un iniziale districarsi dalla sfera più esterna, e per il momento poco significativa, della sessualità più adulta. Non vi è cosi nemmeno ragione di postulare un ipotesi improbabile o quanto meno indimostrabile, di tentativi incestuosi del padre (o di un altro uomo) verso Emma bambina, dal momento che, come vedremo, le sue visioni hanno origine direttamente nella relazione con l’analista. Il tocco, adoperato senza una precisa teoria di riferimento, e inoltre dopo molti mesi di astinenza rigida, può certamente ingenerare fantasie sessuali che ancora una volta si mescolano in modo fuorviante con percezioni e sensazioni molto più arcaiche, sollevando errori a volte difficilmente contenibili ed elaborabili se non corrispondenti ad aree in cui l’interazione tra emotivo, cognitivo e somatico è ancora possibile. Questa sconnessione tra percezioni e vissuto emotivo può in alcuni casi essere addirittura intensificata da una modalità inadatta di contatto fisico. Ad esempio l’uso in opposizione di tocco e di parole (o l’uno o l’altro) sembra in questo caso generare fantasie angosciose che non riescono ad integrarsi e a stemperarsi con la situazione reale del momento, ma finiscono per ingigantire mostri e fantasmi non elaborabili dal soggetto. Né si può dire che il corpo è rassicurante di per sé; in esso infatti vi sono vissuti percettivi «distorti» o fantasmatici che possono assumere le stesse (o addirittura più vivide) condizioni patogene dei pensieri quando sono divenuti sconnessi dalla complessa matrice psicofisica che li ha generati. Il pericolo è allora di rafforzare una dicotomia interna allo stesso corporeo, dove il falso Sé somatico può anch’esso distaccarsi troppo pericolosamente dal suo nucleo centrale originario. Molti sono gli esempi di false percezioni o di alterazioni percettive possibili appunto in questa evenienza. Un’altra notazione da fare (connessa ai problemi dell’analisi del campo transferale) è che in questo caso il toccare si introduce improvvisamente come «trasgressione» ad un setting precedente. Si intensifica in modo eccessivo quell’investitura di onnipotenza su una figura che proprio in quel momento, invece, potrebbe cominciare ad essere percepita in una concretezza, in una presenza che controbilanciano il procedere della regressione. E proprio questo filo di riconnessione con la realtà costituita dal terapeuta che permette un immergersi non panico del paziente anche nella sua paura più antica. La paura diventa invece in Emma quasi pervasiva, invadendo oltre al pensiero e alla fantasia le sue percezioni fisiche, in particolare le sensazioni del volto. La paura vorrebbe a quel punto poter essere toccata e ridimensionata, relativizzata rispetto a movimenti fisici interni inusuali, che ritornando improvvisamente la inondano e la sommergono. E questo un fenomeno ben noto in vegetoterapia, rispetto al quale risulta necessaria una precisa modalità di intervento se non si vuole correre il pericolo di un intensificarsi del senso di disgregazione («Il pupazzo di neve» che si scioglie, il comparire di un oggetto come l’attizzatoio, segno di aggressività distruttiva inconscia). L’alleanza terapeutica si proporrebbe, a questo punto, con quella parte che è sottostante al tratto caratteriale, mai accolta del tutto, soffocata anche nei suoi corrispettivi somatici. Qui sembra invece che l’alleanza proposta («Se vivrò sensazioni così cattive e sgradevoli da non poterle sopportare, glielo dirò». La paziente si mette a sedere sul divano, guarda a lungo l’analista e allunga silenziosa la mano) possa correre il rischio di instaurarsi solo sulla trasgressione avvenuta, alimentando una situazione conflittuale profonda. Infatti il terapeuta (cioè la storia di angoscia abbandonica che egli incarna in quel momento) si trasforma in qualcosa di troppo oppressivo e terrorizzante, al quale è necessario, nel sogno, tagliare le mani (che hanno trasgredito col tocco). Oppure è «il bambino» che come tale, però, in questo momento della terapia, è un carico altrettanto doloroso, perché scarica sulle spalle di Emma la condizione pericolosa e colpevolizzante della trasgressione. Non c’è dubbio che la produzione onirica sia stata attivata, a ben 2 anni dall’inizio dell’analisi, dal contatto fisico; ed è certamente questa una «scoperta» che noi ben conosciamo e che fornisce (se ancora ce ne fosse bisogno) una riprova della profonda interconnessione dei livelli funzionali del Sé corporeo. Il punto rimane però quello di formulare un modello teorico generale (cosa che abbiamo cercato di fare in questi ultimi anni) che non guardi alla psicoterapia corporea né come a un intervento solo preparatorio ad una successiva analisi, né come ambito settorializzato e limitato ad alcune patologie o tipologie di pazienti, né come mezzo generico per smuovere e produrre materiale psichico. Se non si agisce in maniera continuativa, con un uso particolare del controtransfert ampliato alla sfera somatica, si può perdere, ad esempio, il senso che la paziente avverte di quel  sentirsi «andare in tanti pezzi» e di quell’interruzione (per fortuna breve) ieri della terapia. Si può leggere nel sogno del tagliare le mani e i piedi anche una  riprova che Emma ridireziona alla fine contro di sé una rabbia chiusa e cieca che non può essere neppure ascoltata. Il fatto che lei viva il bambino come altro da sé, è ancora una volta il segno di una necessità di vivere in terapia  una regressione psicocorporea troppo spesso interrotta, in cui livelli differenti
del Sé non riescono perciò ad integrarsi, ma continuano separatamente ad agglutinarsi. Cosi quando sperimenta stando seduta le mani dell’analista sulle spalle rimane imprigionata in un gesto falsamente adulto, non appropriato alle emozioni  che in quella fase la stanno avvolgendo, né alle posture e ai movimenti dell’area e evolutiva in quel momento sollecitata. Una conferma di questa ipotesi la si può rilevare nella sensazione di ingannare,  che ancora una volta scivola troppo in «avanti», lontano dall’area regressiva integrata, in una persistente e confusa fantasmatizzazione del vissuto sessuale legata al tocco (dove, invece, più profondamente emerge una sensazione terrificante di non «esser voluta bene» tutta vissuta in chiave proiettiva di un desiderio esasperato). L’inganno va allora “districato” nelle sue componenti, evidenziando e rendendo consapevoli gli elementi del falso Se da un lato, e le sconnessioni tra funzioni corporee dall’altro. Soltanto dopo ci si potrà finalmente soffermare su quel lungo, paziente e delicato lavoro di ricucitura, di riconnessione, di ripresa  di quei fili e collegamenti in più punti sfilacciati o spezzati. In tal senso non c’è, a nostro modo di vedere, un «dosaggio» ottimale di maternage affettuoso e premuroso, a cui va fatta seguire una sana dose di frustrazione per fornire sensi e vissuti di realtà. Esiste invece una ipotesi di un uso controtransferale differente in differenti fasi della terapia, cosi come di un modificarsi fase per fase del lavoro corporeo, in base al costrutto teorico di «stratificazione emozionale», nei vari distretti somatici, della storia del paziente. Ma va subito sgombrato il campo dall’illusione che sia possibile una reale «esperienza emozionale  correttiva», dal momento che la regressione è sempre un vissuto attuale con il terapeuta e non una riedizione del proprio passato. Ciò si traduce, in altri termini, in un abbandonare le alchimie di «giusti» dosaggi tra piacere e sofferenza,  o tra parti infantili ed adulte, o tra corporeo e psichico. Il focus si sposta, in vegetoterapia, sull’uso di un Sè ausiliario da parte del terapeuta che, mobilizzando e ampliando le gamme dei ricordi, dei movimenti interni, delle posture,  delle fantasie, delle emozioni e dei processi fisiologici, possa ridare senso a ciascuno di questi piani funzionali nell’interconnessione con gli altri. E in ogni piano, ogni singola dimensione sarà caratterizzata, in modo preciso, per quel determinato paziente, da una determinata configurazione, da una diminuzione di mobilita e di alternative possibili, a seconda degli esiti che quel movimento, emozione,  percezione hanno avuto nell’impatto con  l’ambiente. Storia, conflitti e strutture caratteriali difensive sono così conservati in ogni singola funzione e soprattutto nelle incongruenze e separatezze con le altre funzioni del Se corporeo. Così nella  pancia di Emma riaffiorano (ma quando, perchè, in che relazione con la sua vicenda terapeutica?) sensazioni fisiologiche che non sono né asettiche e prive di contenuto emotivo, nè risultano la immediata e puntuale traduzione di un’emozione, e nemmeno possono essere considerate un semplice rivivere stati infantili. La mancanza di un intervento psicocorporeo in questo senso, ad esempio, nella pancia e nella bocca della paziente, riporta a quella stessa rabbia che si era affacciata proprio prima che l’analista iniziasse a toccare Emma, ma ancora con la drammaticità di una scissione tra livello emozionale e livello delle percezioni, che minacciosamente immobilizza in meccanismi caratteriali soliti e intrappolanti. La pancia può aver dato un segnale che è stato percepito e accolto, la mascella aver rivelato emozioni profonde e inconsapevoli. Ma senza un ulteriore preciso e circostanziato intervento psicocorporeo, le acque potrebbero richiudersi riseppellendo Emma nel fondo dello stagno della immobilità caratteriale e corporea. Le considerazioni che questo caso sollecita potrebbero essere ancora molte; ma una in particolare può essere adoperata come senso conclusivo del discorso. Al di là delle critiche che si possono muovere e del dibattito sulle deviazioni e sui parametri che possono intervenire nei dispositivi di cura di ciascun approccio teorico, le aree di frontiera rappresentano sempre un’occasione di rottura di logiche che troppo spesso si racchiudono su se stesse. Rappresentano, cioè, un’occasione non solo stimolante, ma addirittura indispensabile per quelle «riconnessioni» che anche nel campo più generale della psicologia clinica e della psicoterapia possono costituire le basi per visioni, strumenti, teorie e ipotesi di lavoro più specialistiche ma allo stesso tempo più ampie e globali, nella comprensione del funzionamento psichico dell’uomo.