Luciano Rispoli psicologo: Verifica dei risultati e responsabilità terapeutica.

in “Malattia e psicoterapia” – Ed. Bulzoni, Roma, 1989.

Nel corso della formazione clinica diviene fondamentale porre particolare attenzione alla verifica dei risultati, nonchè al ruolo dello psicoterapeuta e alla sua responsabilità nei confronti del paziente.


 

Il concetto di responsabilità

Il concetto di responsabilità è stato sino ad oggi troppo spesso racchiuso in un’accezione fondamentalmente di tipo etico: lo dimostra in maniera evidente l’esempio dell’esistenza dal tempo di Ippocrate di un codice deontologico mai cambiato in medicina. Questo modo di vedere ha come base di partenza ciò che aprioristicamente non deve essere fatto dal professionista, piuttosto che quanto egli sta man mano realizzando. Al di la dei contenuto giuridico del concetto di Responsabilità (importante perché regola attraverso le leggi vigenti il rapporto con l’utente), sembra che finora non si sia potuti uscire da una visione in certo senso moralistica, che impone al professionista, cioé, di assumere dall’esterno un insieme di regole da rispettare, tutto sommato abbastanza scollegate al tipo di intervento che egli  sta realizzando (medico, psicologico, didattico, ecc.). Io vorrei esaminare la responsabilità da un punto di vista della teoresi e della prassi professionale, cioé ricollegandola ad un ambito e ad un’interpretazione di tipo prevalentemente scientfico. In tal senso la responsabilità riporta l’operatore nel campo di ciò che il  suo intervento ha realmente apportato, dei cambiamenti e delle modifiche prodotte, della direzione e del modo con cui si svolgono i processi. Lo psicologo clinico è dunque richiamato da questa accezione di responsabilità ad essere consapevole il più possibile di tutto ciò, ad essere in contatto con quanto avviene nel campo relazionale, a capire e controllare i percorsi e le metodologie impiegate. Non si tratta solo di garantire l’utenza da azioni lesive e dannose; è necessario che questa visione scientifica della responsabilità costituisca un valido sostegno «interno-esterno» (relativamente alla relazione) per lo stesso operatore, come cornice in cui si iscriva la sua identità di psicologo clinico, come «frame» dell’intero processo. E questo tanto più in un settore nel quale non ci sono elementi totalmente oggettivabili come prove dell’aver ben operato, visto clic l’operare è prorondamente calato proprio all’interno della relazione stessa. La responsabilità non può essere vista, allora disgiunta nè dalle tematiche della formazione né dall’area scientifica dei risultati.

La formazione

 Ho avuto modo, in questi ultimi anni, di interessarmi ed esprimermi spesso sulle tematiche di fondo della formazione, specie nel settore della Psicologia clinica. Vorrei qui pertanto richiamare brevemente solo alcuni punti per una migliore comprensione del discorso in atto. Se partiamo dal presupposto teorico-metodologico che in Psicologia clinica la formazione non può configurarsi come somma di esperienze né come giustapposizione slegata di più momenti e di più unità, allora ne consegue che dobbiamo guardare ad un iter progettuale e processuale che deve rispondere in modo scientificamente rigoroso ed epistemicamente corretto agli obbiettivi propri dell’area psicologico-clinica. La formazione non si può arrestare all’apprendimento di conoscenze, né all’acquisizione di capacità, ma va inquadrata in una trasformazione complessiva del sistema-persona, tesa ad allargare l’area delle consapevolezze e quella dell’integrazione profonda tra funzioni , saperi, interiorizzazioni, capacità. E dunque questo un settore in cui l’intreccio tra processi formativi e prassi operative (cambiamenti individuali o gruppali) è ancora più profondo, ma proprio perciò da non essere confuso con la concezione superficiale e limitata di mera applicazione di tecniche. Da quanto detto si possono dedurre tre osservazioni.
1) E’ necessario accelerare una linea di tendenza, peraltro già iniziata in più settori, che permetta alle miriadi di tecniche formative e operative oggi esistenti di aggregarsi fino a delineare e a riconoscere come proprie matrici generali soltanto poche grandi aree teoretiche.

2) Tali grandi aree devono risultare legate  ad altrettante ipotesi, ben precisate, sulla strutturazione della personalità e sullo sviluppo della  Vita psichica dell’essere umano. Tali ipotesi complesse e sistematiche, dunque, devono inquadrare sia l’instaurarsi dei processi di relazione (con se stessi, con l’altro, con i gruppi e con le organizzazioni) sia l’alterarsi degli equilibri e l’evolversi del disagio e della malattia.

3) I differenti approcci teorici, proprio perché connessi all’area comune della personalità e della relazionalità, non possono risultare né slegati totalmente tra di loro nè sconnessi con i dati e i risultati che provengono, sempre più consistenti, dalle altre discipline scientifiche, in particolare quelle «contigue» e quelle che studiano l’infanzia. La formazione in Psicologia clinica deve risentire allora al contempo:

1) Della ricerca scientifica, in generale (il modo di indagare e di formulare proposizioni);

2) di quella nel campo della psicologia generale di base;

3) delle acquisizioni derivate dalle altre discipline scientifiche;

4) delle preesistenze e delle trasformazioni personologiche (retroterra culturale. emozionale, psicofisiologico delle persone in training);

5) del corpus teorico della Psicologia clinica con particolare riferimento alla determinata area teoretica. Nella figura i è rappresentata l’ipotesi di un possibile schema generale relativo alla formazione in questione.

Ci interessa qui evidenziare le due «funzioni—filtro», svolte dalla ricerca nel settore e da quella cosiddetta di confine, nei confronti di un corpus teorico clinico che va sempre più prendendo consistenza e definendosi al di la delle singole teorie di personalità.

 Le teorie di personalità

Qual è allora il ruolo che giocano attualmente e giocheranno nel futuro i vari indirizzi di psicoterapia? Qual’è la possibile interconnessione tra le singole teorie di personalità e la teoria generale della Psicologia clinica?

Bisogna anzitutto sgombrare il campo dalla falsa concezione della separatezza e incomunicabilità tra i differenti modelli esistenti; e di conseguenza è necessario mettere immediatamente da parte l’idea, pur così frequente, che ogni modello debba avere un iter formativo suo proprio, del tutto particolare e completamente indipendente dall’intero contesto della Psicologia clinica. In altri miei scritti ho già avuto modo di analizzare come in ogni processo terapeutico, di qualunque indirizzo esso sia, sì possano riscontrare numerosi elementi comuni, già oggi abbastanza ben individuati. E lecito pensare, sulla scorta di quanto è avvenuto in questi ultimi anni, che l’area condivisa delle formulazioni teoriche si allargherà ancor di più nel prossimo futuro. Questa dinamica di interazione tra indirizzi terapeutici, tradizionalmente più o meno lontani, separati e spesso coinvolti in annose polemiche, non deve essere assolutamente scambiata con una ipotesi di agglomerazione eclettica, con un giustapporre confuso, inutile e scientificamente privo di significato. Essa è invece definita da due concetti-base: l’osmosi e l’integrazione multidimensionale. Per osmosi intendiamo quel lungo e complesso intersecarsi di pro-posizioni teoretiche tra differenti aree, soprattutto quelle più vicine per concezione generale e per teoria di personalità. E un lungo e lento penetrare di esperienze oltre i confini del modello, possibile solo se questo è ben definito e delineato nelle sue varie parti (pena il rischio di confusi «doppioni» e di tecniche incomprensibilmente «uguali»). L’integrazione multidimensionale si basa sull’ipotesi di fondo che ogni teoria è diversa dalle altre non il fatto che usa tecniche dissimili  o perché viene applicata ad un differente settore di intervento della clinica  (gruppi, individui, istituzioni, nevrosi, patologie gravi, ecc). La differenziazione non è neppure  basata sul fatto che ogni approccio terapeutico si rivolge a momenti della vita umana separati (gruppo, famiglia, lavoro, sessualità ecc.) Ogni modello, invece, è una costruzione teorica complessa, strutturatasi intorno ad un  nucleo di studi, esperienze ed elaborazioni che riguardano una certa tematica della struttura di personalità. Ogni indirizzo è partito da alcuni o da altri aspetti che emergevano nella relazione terapeutica, danno ad essi maggior spazio e maggior attenzione, e studiando quei fenomeni che a quegli aspetti sono legati. In un certo senso si può dire che ciascuna di queste costruzioni esplora ed illumina determinate parti e zone della disciplina (spesso al confine con altre discipline contigue). Naturalmente in questa questa accezione i contributi che ogni ricerca porta non sono legati esclusivamente alla particolare teoria, ma pongono nuovi problemi solo all’interno dell’approccio particolare, ma rappresentano contributi e stimoli a tutta l’area disciplinare. A titolo esemplificativo riportiamo uno schema che possa raffigurare visivamente quanto detto. Non soffermiamoci e non sottilizziamo su quanti e quali indirizzi teorici siano qui rappresentati, e sulla definizione con cui ciascuno è riportato (poiché sono puramente e sommariamente indicativi). L’idea significativa che vuole essere qui mostrata, invece, è che ciascuna teoria ruota intorno ad una certa fenomenologia, intorno a un aspetto particolare della struttura di personalità, ben definiti piani della relazione e della comunicazione; ciascuna in definitiva vede ritagliarsi un suo oggetto di studio e di osservazione. Dallo schema risulta chiaro anche come ciascun campo abbia una parte che si interseca con gli altri e una parte che deborda dalla stessa area della Psicologia affacciandosi su altre discipline contigue. Il cerchio interno sta a rappresentare lo strutturarsi di una teoria generale in Psicologia clinica, di un corpus clinico specifico, che non è meccanicamente somma delle singole teorie o di loro parti più o meno ampie. Per essere più precisi il cerchio interno può essere letto in due accezioni più diverse. Nella prima esso coincide con le concezioni generalmente più accettate e condivise; nella seconda con quelle dimostratesi epistemologicamente più corrette, scientificamente validate e operativamente più utili e produttive. Naturalmente questi due cerchi non sempre hanno coinciso tra di loro e non sempre si collocano in posizioni “centrale» rispetto a tutte le aree teoretiche; ma nel corso del tempo sono stati eccentricamente più vicini ad una teoria o ad un’altra, cosi come alcune teorie stesse risultavano più o meno sviluppate di altre.   

Appare però chiaro come le grandi aree teoretiche non siano dimensioni parallele e alternative tra di loro, quali cerchi sovrapposti che insistano sullo stesso campo. Ciò ribadisce il concetto che la varie teorie di personalità non siano tanto collegate a ipotesi di base in contrasto tra loro, quanto a differenti livelli del complesso sistema bio-psico-sociale che è l’uomo in interazione con l’ambiente, e ai relativi  piani su cui si strutturano e si estrinsecano processi di relazione e di comunicazione. Perciò ogni teoria-prassi nelle sue esperienze cliniche (purché validate da una corretta impostazione scientifica e una significativa verifica dei risultati) pone stimoli nuovi nel campo comune, che richiedono l’attivarsi di tutti gli indirizzi clinici affinché tali novità  siano spiegate, comprese ed elaborate a livello generale.

Come appare dallo schema di fig. 3, dati, risultati e scoperte che man mano sopraggiungono dai vari approcci richiedono un riassestamento di tutto il sistema teorico. Si rende cioè necessario ridefinire concetti già esistenti (ampliandoli o modificandoli); acquisire nuove formulazioni e nuove proposizioni scientifiche; eliminare parti obsolete, inutili, spesso sorte come spiegazione provvisoria o difensiva o che comunque risultino separate e in contrasto con l’intera disciplina  e deboli dal punto di vista scientifico. La teoria della complessità ci fa capire come i fenomeni non abbiano una spiegazione  causalistica e univoca, il modo di cambiare ottica e piano visuale nell’analizzarli, la possibile conseguente presenza di elementi contraddittori. Ma non deve essere utilizzata come alibi per un’accettazione acritica di qualunque idea e Supposizione, come pretesto per una tuttologia» non scientifica. Gli elementi che non appartengono al cerchio centrale del corpus clinico possono essere dunque considerati come parti non ancora passate al vaglio scientifico di tutta la disciplina, non  ancora elaborate a livello teorico generale. Questi elementi non comuni sono interessanti perché rappresentano  uno stimolo alla ridefinizione dell’intero sistema e non perché costituiscono un sapere esclusivo di ogni Singolo approccio, non condivisibile con gli altri, e da mantenere isolato a tutti i costi, quasi fosse un tesoro segreto o una chiave misterica ed esoterica. E utile ancora una volta ribadire qui che non esistono tante Psicologie cliniche che si interessano all’uomo e al suo relazionarsi, tante teorie della personalità, separate da ipotesi totalmente contrastanti.

La psicoterapia corporea

La psicoterapia corporea, ad esempio, secondo il modello che va sempre più definendosi come grande area teoretica collegata a un vasto circuito internazionale (nella quale muovo le mie ricerche ormai da molti anni), ha incontrato nella sua esplorazione fenomeni particolarmente rilevanti e vistosi, che non possono certo essere ignorati. Il linguaggio non verbale nella relazione terapeutica ne è soltanto una piccola parte, pur essendo la più conosciuta. Ancor più significativi sono infatti i fenomeni di regressione psicosomatica profonda chiaramente visibili in seduta, la scoperta di una cosiddetta memoria decentrata corporea, le interconnessioni che con il piano dell’emotivo e del cognitivo hanno le vicende degli apparati fisiologici, interni: movimenti profondi, variazioni Vegetative sensazioni cenestesiche. Dati altrettanto interessanti sono quelli relativi alla presenza nel bambino, sin dall’origine, degli stessi piani funzionali dell’adulto (anche se in forma semplificata) con processi di tipo simbolico, ideativo, ma anche logico-cognitivo, profondamente intrecciati con quelli emotivi da un lato e posturali—fisiologici dall’altro. Questo pone sotto una luce nuova lo studio dello sviluppo della persona, delle connessioni delle varie parti del Sé, in un continuum significativo con l’alterarsi dei processi funzionali e l’insorgere delle patologie. Il concetto di scissione assume una definizione più specifica e allargata, potendosi osservare attraverso i vari piani del Sé corporeo. Ma anche la rimozione si colora di nuovi significati, poiché ciò che sembra scomparire nella persona quando si raccoglie solo il «verbale», lo si può ritrovare invece su di altri piani se si guarda complessivamente al sistema dei processi funzionali, al Sé corporeo nella sua globalità. Altri concetti ancora, investiti dai dati che emergono dalle esperienze di psicoterapia corporea con adulti, con gruppi, con bambini, presentano la necessità di essere rivisitati, discussi all’interno della Psicologia clinica e ricollocati nella teoria generale. Qui citeremo, senza affrontare nei dettagli un discorso lungo e che esula dalla presente trattazione, solo quelli di setting, di campo transferale ampliato, di acting, di distanza, di interpretazione. Ci sono poi delle formulazioni teoriche, connesse alla pratica terapeutica che necessitano di concetti praticamente nuovi. Nella teoria del Sé corporeo le quattro aree in cui vengono raggruppati i processi funzionali possono subire oltre che delle scissioni (tra l’una e l’altra o all’interno di ciascuna) anche delle alterazioni che portano a sclerotizzazioni a ripetizione attive, a variazioni di soglie d’innesco: insomma una patologia che potremmo definire mobilità. La mobilità allora può aiutarci a spiegare   fenomeni continuamente presenti in psicoterapia corporea, come l’irrompere di sensazione  che sembrano nuove, lo scoprire movimenti dimenticati da tanto tempo, il ritrovare sfumature emotive sepolte e così via. La mobilità può essere anche letta come l’ampiezza di posizioni e di strategie che la persona riesce a utilizzare, a tutti i livelli del Sé corporeo. Altrettanto interessante è la comparsa, nella nostra scena terapeutica, della concezione di modularità. Nelle particolari condizioni generate dalla regressione psicosomatica si rivela necessario assumere posizioni e distanze diverse rispetto al paziente, per evitare inutili condizioni di abbandono e di angoscia arcaica e per rendere produttiva la stessa regressione. A volte bisogna essere lontani a sufficienza e permettergli di non guardarci; altre volte è indispensabile stare molto vicini e toccarlo, e cosi via.  Tutto l’agire del terapeuta deve allora modificarsi continuamente durante la terapia, e non certamente a casaccio. E’ a questo punto che  interviene il concetto di modularità, che investe numerosi elementi, quali il setting, la distanza, il ruolo genitoriale, il riprodurre il vecchio, il cercare il nuovo, l’alleanza terapeutica. Tutto ciò rientra nel dibattito, oggi così acceso, sulla necessità di avere nella seduta il paziente vis à vis o sdraiato sul Lettino , di considerarlo come persona adulta o in condizione analitica, e su altri vari aspetti della relazione terapeutica. La maggior parte delle posizioni che si confrontano, però, sono tutte all’interno di un’ottica generale di fissità: una volta scelta la condizione che si ritiene migliore la si conserva fissa per tutta la seduta e per tutto il trattamento terapeutico. Il concetto di modularità invece apre prospettive nuove anche nell’analisi del processo terapeutico, che rivela chiaramente l’esistenza di fasi successive. In esse è risultato improduttivo e immobilizzante riproporre le stesse modalità di relazione, di approccio al sintomo, di lavoro caratteriale. Accanto alla modularità nasce così una prospettiva di evoluzione nella terapia, che come gli altri concetti nuovi richiede uno sforzo di elaborazione e di approfondimento da parte di tutta l’area scientifica in questione. Verifica dei risultati L’ipotesi evoluzionistica dei processo terapeutico ci dà l’accesso ad un determinato ambito di ricerca sul pro1lcana (Iella verifica de risultati: analizzare l’andamento delle fasi terapeutiche, la  costanza ai di là delle differenze dei singoli casi, i criteri con cui riconoscere (e agevolare) il passaggio da una fase all’altra. La verifica dei risultati è l’Ultimo anello per la costruzione di una interpretazione di tipo scientifico della responsabilità. Già da tempo il dibattito Si è centrato su questo delicato tema; la necessità di non scollegarsi completamente dalle ricerche e dalle metodologie proprie della psicologia di base spinge verso una definizione operativa e più concreta di «verifica» in termini di ripetibilità e generalità di fenomeni e processi, anche in Psicologia clinica. Il problema principale non è tanto nello sforzo matematico di  Individuare tutte le variabili messe in gioco in  una relazione terapeutica, né quello di appiattire a tutti i costi le peculiarità del metodo clinico sulla dimensione (a lui incommensurabile) delle misurazioni quantitative. Questione centrale diviene invece quella di individuare quali elementi, nei processi intersoggettivi essere considerati ripetibili, costanti, comunicabili scientificamente. Potremmo allora dire che l’irripetibile  è sicuramente il tessuto di ogni vicenda relazionale, ma che in tutte le vicende esistono e si ritrovano elementi costanti. Sembra dunque possibile individuare due diversi piani anche in psicologia clinica.  Il piano dell’unicità di ogni storia, di ogni paziente o gruppo, di ogni singola processualità di relazione, della differenza di esperienze di vita e di formazione da terapeuta a terapeuta, che potrebbe in certo senso essere definito quello della narrazione storica. Un criterio di verifica va invece posto sul piano della comunicabilità e della ripetibilità cogliendo nei processi quegli clementi che hanno tale caratteristica; cioé su di un piano che possiamo chiamare della narrazione scientifica. Criteri siffatti di verifica, proprio perché riescono a coniugare dimensioni come interno -esterno, soggettivo-oggettivo, possono spingere ad un’indagine estesa e sistematica sui risultati in psicoterapia, al di fuori del chiuso dei singoli modelli. Essi possono essere utilizzati non solo per uno studio orizzontale comparativo sull’efficacia della psicoterapia e per una analisi verticale sul follow-up, ma anche come strumento di discriminazione tra psicoterapia e mero movimento manipolatorio, ricoprendo quell’area all’incrocio tra la definizione dell’identità dello psicologo clinico e la precisazione operativa della responsabilità.