Luciano Rispoli psicologo: Le storie che vogliamo ascoltare.

in “Forse Napoli”- Pironti, Napoli, 1994.

Luciano Rispoli, nel seguente articolo, si interroga sull’infantilismo teatrale della Napoli post-moderna ed esorta il lettore a tornare bambino e a non perdere quello stupore proprio dell’età infantile che permette di voltare lo sguardo su una scena sempre nuova e rinnovata.


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Napoli non può essere compressa nelle linee fredde e scarnite delle mode del post-moderno, né può essere sempre racchiusa in un testo scritto sopra le righe, in un recitato di forzata drammaticità e di urlanti parole incancrenite.

Chi ci racconterà finalmente le storie che vogliamo ascoltare; chi ci racconterà le storie della tenerezza, del bisogno che esplode in una struggente dolcezza nelle nostre viscere? Chi ci darà morbide carezze per lenire i bruciori della pelle lesa dalle brutte insegne al neon e dalle mura sbreccate di magnifici palazzi mai restaurati?

Noi ritorniamo da sempre, come cani impazziti, sulle orme delle nostre origini; ma le origini non sono solo marciume e sporcizia, nobiltà violenta e putridume maleodorante, lazzaroni e capipopolo, riti magici, pupate e femminielli. Anche questa Napoli è oleografica e stantia, è la Napoli di un immaginario delirante che ha creduto di essere un grande attore, ma che spesso era solo, sul palcoscenico, in un teatro vuoto.

Le nostre origini non sono un ventre sotterraneo; luoghi bui e cavernosi, dove nel nome del mistero e di una idolatrata magia si ricompongono tutte le contraddizioni; dove tutto viene lacerato e oscenamente messo in mostra, perché poi tutto in fondo riacquista senso e valore, nel nome di un significato arcano, che nemmeno l’inconscio popolare forse ha mai veramente conosciuto; dove tutto viene giustificato senza spiegare nulla.

Chi ci canterà i nuovi poemi, i canti della nostra vita di uomini e donne, di bambini alle prese con un sogno che rischia di morire come muore l’amore? La violenza ci ferisce, il brutto ci offende, e la scontentezza è sui selciati di pietra vesuviana nera di passi per troppi anni pazienti e rassegnati.

Storie di verità ora possiamo narrarcele; l’infantilismo teatrale è un malanno che rischia di divenire un lusso che oggi non possiamo più permetterci.

Chi ci racconterà delle nostre antiche solarità, della suggestione delle isole, dei sentimenti di Arturo, della forza e della curiosità di ragazzi che scoprivamo la vita, delle notti con gli amici a ricordarci del futuro, delle strade di una città che andavamo conquistando con fierezza? Dove sono le poesie di gioia, quelle che toccano sin nel profondo quel nucleo che ciascuno conserva troppo gelosamente nascosto? La psicologia delle funzioni di vita, l’identità tra mente e corpo di Reich nel profondo di ognuno, ci riportano all’apertura di questo santuario, perché le menzogne non hanno più un pubblico e la teatralità a sipari chiusi non ci è più concessa.

Tornare bambini, sì, ma nel senso dello stupore: ritrovare la meraviglia nell’aprire gli occhi e i sensi su di una scena che è sempre nuova. Chi ci racconterà dell’amore e della voglia di amare che ci siamo troppo spesso negati, in una città dove non potevi che odiare l’altro e distruggerlo se volevi sopravvivere?

Chi ci restituirà la dolce tristezza del desiderio, e la violenza della passione, nei colori e negli odori, nei sensi, ritornati a cantare sui teatri delle strade, come Julian Beck ci aveva insegnato?