Luciano Rispoli psicoterapeuta: Stress da dominio e da alterità

in “Atti del Convegno: Sull’identità lucana” – Ed. Terzo Millennio, Lavello (PZ) 1997.

Luciano Rispoli, Presidente Società Italiana Psicoterapia Funzionale Corporea (S.I.F) e Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia, autore di ricerche in psicologia clinica ed evolutiva, di ricerche psicosociali sui tessuti urbani e di ricerche sullo stress, in questo articolo offre una panoramica della società post-moderna, mettendo in evidenza i diversi fattori che si intersecano creando situazioni di stress cronico.


 

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La società postmoderna e il villaggio globale

Nella società post-moderna assistiamo ad un fenomeno che in parte era stato ipotizzato (da studiosi come Bodrillard, ad esempio, che preconizzavano gli effetti della “comunicazione globale”), ma in parte sta assumendo caratteristiche specifiche e inaspettate.

Si sta infatti discutendo molto oggi sulla “globalizzazione della cultura”, sul cosiddetto “villaggio globale” che caratterizza oramai la vita sul nostro pianeta. E’ vero, i mezzi di comunicazione di massa stanno portando ad un conformismo della cultura internazionale: gli identici serial TV, gli stessi cartoni animati, i medesimi eroi, gli stessi protagonisti; per non parlare della musica moderna, dei gruppi, dei cantanti. E’ anche vero che le notizie oggi non hanno più frontiere e oltrepassano rapidamente i continenti, toccando tutti i paesi, anche quelli apparentemente più sperduti e remoti.

Non possiamo ancora dire che questi fenomeni siano totalizzanti dal momento che non in tutti i paesi si è sviluppata con la stessa intensità la supremazia della cultura televisiva, ma sicuramente questo è il trend in atto.

Ci sono comunque altri fenomeni connessi con questi cambiamenti che potremmo definire “epocali”: uno è internet, l’altro è la facilità con cui la gente si sposta (e si sposta in modo massiccio) sul pianeta, sia per turismo che per necessità di vita.

Questi fenomeni sono ben conosciuti e non vi è perciò bisogno di soffermarvisi ulteriormente. Più interessante, piuttosto, è andare a guardare cosa comporti tutto questo. Quali sono gli effetti di questa globalizzazione? Certamente tutto ciò comporta un notevole aumento della conoscenza di quanto accade anche nei paesi più lontani, nonostante i filtri voluti dalle proprietà delle reti televisive più grosse per far passare solo certi tipi di notizie. Ciò che accade d’importante in qualsiasi luogo viene saputo in tempo reale dappertutto. In più si comincia ad affermare l’idea che qualunque cosa accada in un posto del mondo in fondo ha ripercussioni importanti su tutti gli altri paesi. Aumenta la consapevolezza che nessuno è veramente isolato e che tutto è in realtà in una interconnessione profonda.

L’interconnessione delle economie

Non è dunque più vero (se mai prima lo fosse stato) che i paesi più ricchi possono sfruttare impunemente le risorse di un paese più povero, perché questo avrà gravi ripercussioni anche sulle nazioni sfruttatrici, e sotto molteplici aspetti: sotto forma di contrazione dei mercati di consumo, di squilibri economici paradossali, di peggioramento delle risorse naturali di tutto il pianeta, di flussi migratori massicci, di nascita di movimenti rivoluzionari contrappositivi, di rafforzamento di culture dell’odio reciproco, di instabilità della pace.

Non è più pensabile per nessun gruppo etnico, culturale, o economico, di poter fare i propri interessi a scapito di quelli degli altri, illudendosi di operare in una propria sfera privata, separatamente dalle vicende del mondo intero.

Il debito crescente dei paesi sottosviluppati nei confronti del mondo ricco più che affare loro è oramai, e pesantemente, affare nostro, del mondo industrializzato. Le conseguenze di squilibri così massicci tra differenti paesi. infatti, non possono che riversarsi drasticamente anche sul mondo ricco. Un esempio per tutti può essere quello della coltivazione di piante da droga nei paesi poveri del Sudamerica, dell’Africa e dell’Oriente, così estese e irriducibili perché non c’è altra alternativa alla grande povertà e all’impotenza di quei paesi, ingigantita dal crescere smisurato del debito pubblico e dei relativi interessi ogni anno dovuti. E le conseguenze di questa piaga mondiale non è certo necessario illustrarli qui perché sono sotto gli occhi di tutti.

La valorizzazione delle varie culture

Ma in questa globalizzazione sta emergendo prepotentemente un’esigenza che sembrava tramontata soltanto qualche decennio fa: quella di rivalorizzare la propria cultura di appartenenza, le proprie radici. Non tanto però quelle nazionali, disegnate dai confini imposti dalle grandi potenze, arbitrariamente, nei vari trattati di pace, ma quelle originarie delle varie località, quelle specifiche di alcune zone dei vari paesi, caratterizzate da usanze, linguaggi, musiche, tradizioni, abitudini.

Vi è un rinascere del desiderio di identità: identità profonde, identità antiche. A volte è un processo indolore, una consapevolezza che sfocia in una richiesta di autonomia, di indipendenza politica ed economica di intere regioni e di intere etnie, o in una rivendicazione dei propri contenuti, delle proprie risorse, delle proprie tradizioni nei confronti del paese di appartenenza. Altre volte prende la forma violenta ed atroce della guerra nel disgregarsi improvviso di antichi imperi tenuti insieme dal potere militare centrale. Altre volte ancora è una guerriglia rivoluzionaria contro la “colonizzazione” da parte di un regime, di una fetta del paese, di una maggioranza religiosa, di un establishment di potere.

Nella sua parte più profonda e positiva, la tendenza è comunque quella di rivalorizzare le microculture, quelle reali di appartenenza: con le credenze, i costumi, i riti, le feste, le musiche, i linguaggi, le cucine tipiche, l’artigianato. Più avanza il processo per cui la cultura si uniforma in tutto il mondo, più ci avviciniamo al villaggio globale, e più aumenta la ricerca dell’identità profonda, anche a livello di microbacini, e la rivendicazione delle proprie microculture.

I due fenomeni sono solo in apparenza in contraddizione perché in realtà la riscoperta delle identità e delle culture di appartenenza trae origine proprio dall’uniformarsi della cultura di massa e allo stesso tempo permette di riimmergersi in quest’ultima senza subirne gli aspetti negativi di depersonalizzazione. Viceversa, la cultura del villaggio globale evita fenomeni di chiusure isolazionistiche, modalità “provinciali” di leggere le cose, ignoranza dei fatti del mondo, grettezze tipiche di chi si riferisce solo a se stesso. L’una cultura aiuta l’altra rafforzandone gli aspetti più positivi, e le due possono convivere bene insieme.

Stress da dominio e da alterità

L’esigenza di ritrovare le proprie culture di appartenenza oggi diventa sempre più forte e non può più essere ignorata. Nel momento che risulta difficile una identificazione “nazionale”, nel momento in cui si parla sempre più insistentemente di “Europa”, il pericolo di sentirsi senza un referente vicino e reale è troppo forte. E sentirsi senza un referente significa che diventa sempre più un nonsenso produrre, creare, lavorare, in nome di una identità che è oramai lontana dalla vita quotidiana, vaga e generica, troppo allargata, e quindi inadatta per “contenere” al proprio interno sforzi e sacrifici. Se chi lavora e opera non vede riconosciuto il proprio contesto culturale, se non sente di essere in un “contenitore” valorizzato, se non vede che la propria cultura di appartenenza ha uno spazio per esprimersi in modo ufficiale, finirà per essere violentemente trascinato in un circuito di frustrazione e di “stress” senza uscita.

Essere spogliato della propria appartenenza significa subire un processo di dominio. Vedere cancellata la ricchezza della cultura di origine significa essere schiacciati dall’alterità delle culture dominanti che sono altro.

Una delle cause più forti della cronicizzazione dello stress nel lavoro e nell’attività in genere è la frustrazione dovuta al non riconoscimento dei propri valori. L’altra è la frustrazione dovuta al produrre non si sa per chi, per cosa. Entrambe queste frustrazioni sono presenti quando non si valorizzano le culture di appartenenza, quando non si dà il giusto peso al territorio, alle risorse ivi esistenti, e a chi vi opera vivendo nella tradizione di queste culture.

Le ricerche nei Centri Storici

La ricerca di cui mi sto recentemente occupando, in collegamento con l’Università di Napoli, mette a fuoco proprio queste più recenti esigenze: ripartire dal territorio, dalle sue peculiarità, dalle risorse esistenti per costruire un indirizzo di sviluppo che non sia calato dall’alto e che valorizzi la cultura del luogo. “Leggere” il territorio è dunque, in questa visione, di importanza fondamentale.

In questa lettura abbiamo applicato un’ottica epistemologica nuova, un modo di leggere la complessità e i suoi vari livelli attraverso le funzioni, un’epistemologia “funzionale”.

Abbiamo considerato il territorio (la città, il centro storico) come un organismo vivente, con tutte le sue funzioni interagenti tra loro, con tutti i piani in cui un organismo vivente si “muove”. Questo ha significato superare l’ottica delle parti che frammenta e parcellizza l’oggetto di osservazione considerandolo inoltre come qualcosa di statico, inerte e passivo. Al contrario, l’ottica funzionale tiene sempre in considerazione da una parte la globalità e l’unitarietà dell’organismo e dall’altra la compresenza di più livelli e il loro attivarsi in un movimento complessivo ma dettagliato.

Nei centri storici, in particolare, questa tecnica ci ha permesso di recuperare livelli cosiddetti “strutturali” e livelli “sovrastrutturali”, leggendoli insieme. E’ stato così possibile analizzare il territorio con il suo contenuto di memoria storica, di patrimonio simbolico, di consapevolezza o meno dei processi di cambiamento e decisionali, di partecipazione effettiva al potere o di senso di alterità.

Ma sono stati presi in considerazione anche il tessuto emotivo, il senso di orgoglio, la speranza o la sfiducia, l’appartenenza, la conoscenza delle tradizioni.

Ulteriore spazio si è dato alla mobilità del territorio e alla sua vita fisiologica, intese come atmosfera esistente, come capacità di apertura o chiusura, come passaggio di flussi, come velocità o calma, freneticità o rilassatezza. E infine non si è trascurata la lettura in termini di morfologia, cioè di spazi per l’aggregazione sociale, di servizi, di attività per il tempo libero, di strutture scientifiche esistenti, di associazioni culturali, di spazi per anziani o per bambini.

Leggere il territorio nelle sue funzioni ha permesso di superare l’ottica delle parti, delle categorie, che, in quanto tali, erano viste sterilmente e tradizionalmente in contrapposizione le une alle altre (commercianti contro professionisti, automobilisti contro pedoni, autoctoni contro immigrati, giovani contro vecchi). Ha permesso di cogliere insieme la cultura e le strutture economiche, l’agire oppure la staticità.

E infine ha reso possibile analizzare specificamente e dettagliatamente ciò che funziona e ciò che si è alterato, in modo da poter preparare una progettualità esattamente calibrata sulla situazione, ridare mobilità proprio a quelle funzioni che si sono maggiormente sclerotizzate e atrofizzate, ridare vita a tutto l’organismo e a chi al suo interno vi opera. E ridare vita all’organismo significa ridare peso ed impulso alla cultura e alle risorse che da lungo tempo vi appartengono, riportare dignità e senso di sé, motivazione e desideri.