Psicoterapia: Presentazione del libro “Il Corpo e le Psicoterapie”.

Luciano Rispoli, 1986.

II “Sé” corporeo definisce e scandisce le forme e i limiti della relazione: relazione intesa come scambio di flussi tra ambiente interno ed esterno; in cui esso si pone come concetto di confine, di intercapedine tra tutto ciò che ci si dice o si pensa o si sente o si avverte inconsapevolmente, e ciò che si manifesta all’esterno, si comunica, si esprime. Corpo, dunque, come sistema in scambio e comunicazione.


E’ passato molto tempo dai primi inizi del Centro Reich, nel 1968, dalla venuta di Ola Raknes e di A. Lowen, dal primo gruppo a Napoli che si occupava di questo tipo di studi. Molte divisioni sono intercorse e molti movimenti espansivi. Ma a parte alcuni libri di Lowen poco si è scritto e si è elaborato; molto si è fatto, spesso però in modo confuso e abborracciato.

Il libro non pretende certo di colmare tutto questo spazio lasciato forse troppo vuoto o riempito di pratiche e tecniche spesso di dubbia validità scientifica. Non pretende di essere una trattazione organica. Ma almeno pone alcuni punti fermi su determinate questioni, e apre in senso problematico un confronto con altre scuole psicoterapeutiche, all’interno di questa disciplina giovane e controversa quale è la psicologia clinica.       

Tra le spinte che lo hanno prodotto:

         – La necessità di definire e precisare un modello teorico anche nel campo della Psicoterapia di Integrazione, qual è la Vegetoterapia Carattero-Analitica;

         – Il desiderio di sgomberare il campo da un uso improprio, stravolgente o meccanicistico del termine CORPO.. Esso non può limitarsi a rappresentare, infatti, la “fisicità”, la sola “materialità”, quanto la struttura che collega i vari piani di funzionamento dell’essere umano.

“Body-therapies” invece ha assunto sempre più il significato non di un modello articolato, ma di un coacervo di tecniche terapeutica nel quale il corpo è coinvolto appunto come fisicità, come struttura muscolare a sé stante. Questo corpo così è stato troppo spesso considerato come la sede del solo principio del piacere, come organo adibito esclusivamente ad ospitare e produrre scariche energetiche, secondo un nodello idraulico-meccanico ottocentesco, che non collima certo con le acquisizioni scientifiche più recenti, né col modello attuale della Vegetoterapia Carattero-Analitica. O tutt’al più, romanticamente, lo si è voluto vedere negli anni ’50 come strumento di una “liberazione” altrimenti non meglio definita. Partendo dall’esperienza clinica e dalla ricerca in questo campo, se ci limitiamo almeno alla relazione terapeutica, non solo nel senso stretto, ma intesa come rapporto che produce cambiamenti, in situazioni individuali o di gruppo o istituzionali, io credo che vada restituito al termine “corpo” il suo senso più profondo e più ampio. Nel “corpo” allora troveremo l’intera storia dello sviluppo del sé, di un sé corporeo che non si limiterà ad essere quell’unica struttura rudimentale di vita funzionale del neonato con la madre, in senso winnicottiano; oppure solo l’esperienza psicomotoria di Piaget.

Il Sé potrà allora essere visto come quell’insieme di processi che rendono possibili sviluppo ed espansione di cui solo una parte è costituita dalla funzione difensiva dell’Io. Perché Sé corporeo, dire Sé, usare la terza persona in frasi come “Mamma ti dà la pappa”, “Gaia si lava le mani”, ha forse il senso di un potersi vedere unitariamente, come capacità già esistente nel bambino di distacco e di contatto al contempo, come possibilità di pensarsi persona, unitaria e separata, e con tutti i piani funzionali inclusi; con le emozioni, il pensiero, i funzionamenti corporei, strettamente interconnessi ed esistenti, anche se in forma rudimentale, sin dall’inizio. E’ un po’ come potersi guardare da parte del bambino  mentre egli vive, ed esprime; come egli fosse trasparente a sé e agli altri, poiché non esiste differenza tra ciò che sente di essere e ciò che gli altri percepiscono di lui. II Sé, i verbi alla 3° persona, sono del linguaggio del bambino al di là delle difficoltà concettuali di apprendere i pronomi Io, Tu; sono nel parlare regressivo e affettuoso dei genitori; sono infine in quel linguaggio intimo e solipsistico, quando si parla soli con sé stessi. II “Sé” corporeo dunque definisce e scandisce le forme e i limiti della relazione: relazione intesa come scambio di flussi tra ambiente interno ed esterno; in cui esso si pone come concetto di confine, di intercapedine tra tutto ciò che ci si dice o si pensa o si sente o si avverte inconsapevolmente, e ciò che si manifesta all’esterno, si comunica, si esprime. Corpo dunque come sistema in scambio e comunicazione.

Pensando dunque al corpo del paziente possiamo dire che esso è certo qualcosa di ben più e di più visibile delle sole forme di pensiero e di fantasia; ma, anche se non è visto proprio in questi termini, spesso troppo facilmente viene considerato                 solo come una cosa, un oggetto, ed escluso perciò in una totalizzazione a priori che tende a confonderlo con tutti gli altri oggetti. Il corpo infatti invia continuamente messaggi – impressioni, che raccolti inconsapevolmente possono venire scambiati per dati oggettivi e reali. Il corpo del paziente viene, così, in maniera incontrollabile e sottile, espropriato. Del corpo che abbiamo di fronte noi possiamo cogliere soltanto movimenti  macroscopici e intenzionali, comprendere gesti evidenti, se non abbiano  un modello teorico che lo prevede.

In Psicoterapia il problema diventa capire quali movimenti osservo, quali utilizzo consapevolmente o inconsapevolmente nella relazione terapeutica, e quali invece influenzano i flussi comunicativi e gli accadimenti senza che io riesca a rendermene conto. In realtà molte espressioni corporee significative restano sepolte nel divano dell’analista o relegate al di là di una scrivania, confuse dietro una cortina di luce o perse tra tanti oggetti che attirano sguardo e attenzione. Ci sono movimenti, poi, che possono essere colti solo sotto il tocco della mano, attraverso il flusso del respiro, o con l’ausilio dell’udito. Altri, infine, quelli più interni, possono solo essere raccontati e riferiti dal paziente. Eppure, nel costruire anche i propri pensieri la persona si poggia inconsapevolmente proprio su questi movimenti; si lascia attraversare da sensazioni, da calore, da freddo, da tremiti, da tuffi al cuore, da brividi, da spasmi allo stomaco. Allo stesso modo, nel lasciarsi andare alla comprensione del fenomeno contro-transferenziale, il terapeuta si fonda sui propri movimenti percettivo-motori anche se non se ne accorge. Il nodo del problema è che molti sentimenti possono essere inclusi in questi movimenti, possono essere estremamente sviluppati in tutta l’espressività periferica del corpo umano, eppure non presenti e rappresentati a livello centrale, sul piano cognitivo.

Il Sé corporeo del terapeuta è quindi lo strumento principale di conoscenza nella relazione. L’ambito di ciò che può essere pensato attualmente e vuole essere detto dal paziente non può riuscire a scandagliare tutti i piani della sua percezione, dei ricordi, della memoria corporea; perché le scissioni tra le varie funzioni del Sé sono spesso intervenute in modo molto precoce nello sviluppo evolutivo a causa di un difficile e insoddisfacente rapporto con l’Ambiente. Se è vero che le aree di assenza, i buchi del pensiero pensabile sono a volte rintracciabili in quella rete di significazioni costituite dalle relazioni gruppali o familiari; se è vero che pezzi della propria memoria riflettente, volta ad organizzare l’esperienza con un senso di inclusione, sono nella storia e nella memoria anche degli altri che hanno agito e interagito con me; è pur vero che molto spesso questi fili, questi percorsi ritrovati “fuori” sono oramai scollegati dalle mie memorie emotive o dalle mie impressioni percettive. La rielaborazione, allora, intesa nel senso di dare opportunità al “non pensato” di essere finalmente ascoltato e riconosciuto, come appartenenza e continuità di vita, può avvenire solo dopo o insieme alla mobilizzazione dell’area “non vissuta”; solo dopo o insieme a tutti i movimenti espressivi, percettivi, emotivi che la riguardano e la riempiono e sono in essa sepolti. Nella Vegetoterapia Carattero-Analitica la ritrovata mobilità a tutti i livelli si ripresenta, spesso improvvisamente, a volte con un fluire così ricco di sfumature e di sensazioni da apparire sbalorditivo e capace di inebriare di vitalità: una vitalità che si colloca tra la paura e il fascino di un finalmente riconosciuto. E’ qui che possiamo intravedere quella regressione che noi definiamo “psicosomatica”; non un andare indietro nel tempo, ma sotto gli apparenti strati di assenza e di vuoto, sotto il livello dove vissuto e senso si sono separati, memoria e percezione divisi. Regressione psicosomatica è lo spazio dove è possibile riannodare movimenti da tempo non più riconosciuti o riconoscibili nel cammino del sé in espansione, ma ancora capillarmente radicati ed esistenti nel profondo. Ha così la sua possibilità di rappresentazione anche tutta quella esperienza sensomotoria che ancor oggi forma il reale substrato al modo di sentire ed esprimere di ciascuno, relativo al periodo arcaico del preverbale. Dove non c’è ancora la parola, dove il simbolo però non è assente nella sua funzione di riassumere e concentrare senso, ma è invece animato e vivente, è nel gesto, nel calore, nell’odore. E’ accudimento familiare e rassicurante della madre, del genitore, ma non è ancora astrazione di suono, parola-segno.

L’agire e l’essere del bambino non possono essere lontani dal suo modo di sentire il mondo circostante. L’agire è dunque presente come “tono di base”, come umore preesistente in qualunque condizione di rapporto. Ma l’agire non è solo il compimento finalistico che porta a collocare l’altro, l’adulto, il terapeuta in una categoria astratta. L’agire non è soltanto la reazione winnicottiana dolorosa agli urti minacciosi che possono invadere il nucleo più intimo del Sé. E’ anche l’assaporare il contatto, l’essere mossi e muoversi, scoprire con il proprio stupore l’apertura a qualcosa che è stimolo, ma anche contentezza e interesse che si rinnova. Così come è riposo, dolcezza di “stare” o come dice  Balint “tranquillo senso di benessere”. L’agire è allora l’altra funzione attraverso cui si specifica la relazione terapeutica. E naturalmente l’agire di uno non potrà essere disgiunto dall’agire dell’altro.  Non nel senso di una confusione inestricabile tra il Sé e il non Sé, ma come campo in cui l’accadere è continuamente rilevato e ricondotto alla presenza dell’altro. L’agire dunque non è cortocircuito che evita il pensiero, non è scarica indesiderata, ma il modo in cui il conflitto si esprime; è la caratteristica con cui ciascuno sente o impedisce a se stesso di sentire. Questa modalità è essa stessa setting in Vegetoterapia. La costanza della caratterialità è l’elemento invariante che permette di leggere ciò che accade sui vari piani della relazione; che sono poi i vari processi funzionali del sé corporeo: l’emotivo, l’ideativo, il fisiologico, il posturale-muscolare. Includere questi piani nel transfert e controtransfert in senso  ampliato, permette di leggere l’avvenimento dell’incontro senza correre il rischio di farsi fuorviare dalle rappresentazioni indirette di un piano sull’altro. Ciò che accade a un livello è interconnesso con ciò che accade sull’altro: gesto e parola, respiro ed emozione, atteggiamento ed elaborazione ideativa. Ma spesso la connessione è presente solo in aree molto più profonde di quelle che possono essere colte subito dal piano della consapevolezza. Lì sono le ambiguità e le contraddizioni che operano alla base della sofferenza. La costruzione del rapporto non può allora escludere nessuno di questi aspetti: scissioni antiche o recenti potrebbero essere rinforzate, miglioramenti su uno dei piani finirebbero con lo scomparire in poco tempo perché non integrati nella struttura complessa dell’intero Sé corporeo. Ma tenere in considerazione tutti questi livelli può essere qualcosa di più; può rappresentare anche un passo significativo nella ricerca e nel tentativo di affrontare l’aumento della sofferenza psichica, del dolore, delle conseguenza così ampie delle frustrazioni, e delle tante ansie del nostro vivere in questo mondo stressante.

Io credo che ci siano molte possibilità di migliorare il livello della nostra esistenza se solo riuscissimo a vincere quella grande e attuale scommessa che è il poter portare la psicoterapia al di fuori degli studi privati, nelle scuole, negli ospedali, nei servizi sociali, nella famiglia: lì proprio dove si generano o si rafforzano il disagio e la sofferenza degli uomini.