Psicoterapia: Processi di sviluppo della psicologia clinica.

SIPPSI (SOCIETA‘ ITALIANA DI PSICOLOGIA CLINICA E PSICOTERAPIA)       

Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna, 1994.                                                   

Oggi il problema della valutazione degli effetti e del processo in psicoterapia non si può più ignorare o aggirare, poiché è chiaro che deve diventare un elemento fondante, un impulso indispensabile alla ricerca, per poter arrivare a nuove conoscenze e chiarezze nell’analisi del processo terapeutico stesso.


I rapporti tra teoria e tecnica

Se noi guardiamo alla storia della psicologia clinica, a come si sono man mano sviluppati i differenti approcci al suo interno, e alle profonde trasformazioni che si sono avute nel corso del tempo in ciascuno di essi, ci possiamo accorgere di quanto sia stata e sia tuttora in movimento questa disciplina. Eppure, nonostante nella pratica terapeutica le cose cambiassero notevolmente, nonostante molte trasformazioni venissero man mano messe in atto, non solo i modelli più affermati, ma anche quelli meno forti istituzionalmente, hanno sempre mostrato una certa tendenza al “conservatorismo”, insistendo a mantenere in modo acritico i riferimenti teorici di partenza. In realtà troppo poca attenzione è stata data al collegamento tra pratica, tecnica e teoria, così come non sono mai state chiarite fino in fondo tutte le implicazioni che i cambiamenti apportati comportavano da un versante sull’altro, specie da quello della tecnica sulla teoria. Per poter procedere nella riflessione sui rapporti tra teoria e pratica occorre riprendere le definizioni dei termini in questione. Per teoria si intende “la formulazione e la sistemazione di principi generali di una scienza o di una sua parte”. Per quanto riguarda la psicologia si può affermare che essa è “la scienza che ha come oggetto di studio l’essere umano, i suoi processi psicofisici, le sue relazioni”, attraverso determinate concezioni. La psicologia clinica si evolve e si distingue dalla psicologia generale per l’uso del metodo clinico, basato su uno studio dettagliato e profondo del singolo caso e della sua storia, dell’osservazione diretta, e soprattutto della relazione come strumento fondamentale. Il metodo clinico ha fondamentalmente obiettivi pratici e si caratterizza per il contatto diretto e personale del ricercatore-terapeuta con la persona studiata ed il suo ambiente. La psicologia clinica dunque non delimita campi (ospedale, fabbrica, clinica, ecc.) ma metodi di lavoro. La tecnica è l’insieme di procedimenti e norme che regolano il concreto svolgimento di un’attività. All’interno della psicologia clinica, tutti i processi che vi sono inclusi, a partire dai principi generali teorici e dal metodo clinico impiegato, costituiscono la tecnica, cioè l’esercizio concreto di un’attività. Nella psicoterapia, ad esempio, l’interpretazione pulsionale o del transfert, l’uso dei ricordi, le fantasie guidate, il contatto, le prescrizioni, sono altrettanti aspetti della tecnica. Tutte queste indicazioni trovano, a seconda dei vari approcci teorici, una loro collocazione nel dispositivo terapeutico complessivo, nel setting della terapia, nel contratto specifico (tempi, spazi, modalità). La tecnica comporta sempre la necessità di una riflessione scientifica sul proprio dispiegarsi, sia per il grado di raffinatezza che man mano va aumentando, sia per il livello di problematicità che si raggiunge lavorando. Si suole indicare nella nozione di teoria de/la tecnica questo continuo rapporto scambievole tra riflessione teorica e l’operare con una tecnica precisa. La pratica psicoterapeutica e l’abilità ad essa connessa debbono integrarsi con la teoria che le sostiene, e questa integrazione non si realizza se non attraverso una vera e propria ricerca su ciò che si fa, sul come lo si fa, mentre lo si sta facendo. In altre parole, diremo con Bieger, lo psicologo “non solo deve avere un campo di lavoro, ma deve anche svolgere un lavoro di campo”. A proposito di questo scambio continuo tra teoria e tecnica, possiamo oggi con tutta certezza affermare che alcuni autori, nel processo di revisione continua della loro pratica terapeutica, hanno introdotto tante e tali modificazioni da finire paradossalmente più vicini ad altri indirizzi clinici piuttosto che all’area teorica di cui ritengono ancora di far parte. Sebbene a volte le trasformazioni introdotte nella pratica inducessero a riflessioni profonde le quali iniziavano a coinvolgere anche i principi teorici più generali, troppo spesso le revisioni teoriche avviate venivano poi interrotte quando ci si avvicinava ad alcuni nodi centrali che non si volevano mettere in discussione, a determinate questioni che apparivano “scottanti” e quasi “intoccabili”. Quello che non viene sufficientemente messo in chiaro, in questi casi, è che i cambiamenti introdotti nelle pratiche e nelle tecniche (spesso anche non ufficialmente) non possono restare senza un’adeguata elaborazione all’interno della teoria della tecnica (dal momento che non sono elementi isolati dall’intero contesto del modello), nè essere considerati solo come punti marginali di un insieme che finirebbe così per apparire parziale, frammentario e ingiustificamente immutabile. Bisogna invece rendersi conto che in realtà si stanno apportando altrettante modificazioni alle stesse ipotesi di base del modello teorico, cioè a ipotesi che, attraverso un dato modello scientifico, tentano di dare un’interpretazione del funzionamento della mente umana, delle relazioni interpersonali, dei processi gruppali, del rapporto mente-corpo: insomma dell’intera teoria di personalità. E se questa si modifica, cambiano di conseguenza anche gli obiettivi della terapia, le tecniche, le ipotesi sui fattori di cambiamento. E al contempo si modificano profondamente tutte le concezioni appartenenti a quel determinato approccio terapeutico.
Storicamente, ad esempio, il passaggio dalla teoria del trauma alla fantasia di seduzione ha comportato in Freud un notevole viraggio di prospettiva teorica e tecnica; così il riconoscimento “in positivo” del controtransfert nel terapeuta ha permesso l’affermazione del concetto di “campo bipolare/bipersonale” (ModelI). Su un altro versante, le peculiari caratteristiche della patologia narcisistica hanno costretto a leggere le resistenze in altro modo (Casement), così come le necessità emergenti nella prassi terapeutica hanno portato a notevoli modificazioni dei parametri dell’analisi-tipo (GilI). Lo spostamento dell’attenzione dai desideri ai bisogni (portato avanti anche da Eagle), oppure l’enfasi che oggi si tende a porre sul “contenimento” (a volte anche non verbale) del paziente, costituiscono dei cambiamenti profondi che portano decisamente fuori dal modello classico della psicoanalisi, fondato sulla interpretazione e sull’astinenza. In un’altra area teorica, l’utilizzazione di nuove tecniche, quali la “scultura della famiglia”. introduce l’uso diretto del corporeo nella terapia sistemica, con tutte le problematiche che tali modalità di relazione comportano, e che sono state invece oggetto di studio dell’area psicocorporea. Sono ancora molti gli esempi di sostanziali cambiamenti di prospettiva e di innovazioni teorico-tecniche introdotti nei differenti modelli della psicologia clinica. In tempi recenti alcuni autori hanno cominciato ad affrontare questo tipo di problemi, cercando di far chiarezza sugli attuali sviluppi sia della tecnica che della teoria, sui loro intrecci, sulle innovazioni attivate all’interno della psicoterapia. (ma prima considerazione di fondo che sembra emergere da tali studi riguarda la consapevolezza di poter usare positivimamente il bagaglio tecnico e teorico di tutte le aree della psicoterapia, di tutti i più consistenti indirizzi clinici, poiché ciascuno di essi ha portato contributi significativi nell’ambito di quel particolare aspetto della psicologia clinica di cui si è a lungo occupato.

 Le “aree teoriche”

Nonostante le innumerevoli tecniche terapeutiche e la quantità di denominazioni che assumono i vari indirizzi di psicoterapia, nonostante il fiorire di centri, istituti e scuole con le impostazioni più disparate, a ben vedere si possono individuare non più di una mezza dozzina di teorie generali (o aree teoriche) complessive e distinte, in grado di inquadrare scientificamente l’organizzazione psichica, il comportamento umano, i fenomeni di relazione, la patologia e la cura. Queste aree teoriche sono caratterizzate da un insieme di teorie, modelli e tecniche che, al di là delle differenze interne di correnti, stili personali, paradigmi secondari, si raggruppano intorno a una determinata concezione di base concernente il funzionamento dell’essere umano. Una riflessione approfondita sulla nascita e l’evoluzione dei grandi modelli della psicoterapia ci può fare scoprire come in fondo essi si siano sviluppati l’uno dall’altro, a volte in stretta connessione, a volte in un percorso irto di fratture e discontinuità. Nessuno di essi può essere considerato come un impianto teorico totalmente separato dagli altri, nè completamente esaustivo della materia. Possiamo piuttosto dire che ogni modello ha illuminato aspetti differenti della struttura della personalità e della relazione terapeutica, mettendo prevalentemente a fuoco parti dell’intero campo d’indagine. Man mano che i terapeuti e i ricercatori si imbattevano in nuovi fenomeni (spesso uscendo dalle ortodossie di partenza), o prendevano in considerazione nuovi risultati della scienza del loro tempo, facevano nascere di pari passo nuovi impianti tecnici e teorici anche all’interno del campo della psicoterapia. Si scoprivano di volta in volta la forza del simbolico e delle fantasie, la capacità dell’organismo di apprendere o modificare schemi comportamentali, gli esiti dei meccanismi di potere all’interno dei gruppi familiari, le matrici gruppali, l’importanza di cambiare strategie e punti di vista, la necessità di modificare vecchi copioni e vecchi cicli di feedback, la possibilità di ritrovare antichi vissuti sepolti nei fhnzionamenti corporei. A ben vedere nessuno di questi punti di vista è in reale alternativa agli altri, perché ciascuno si è occupato di particolari aspetti del funzionamento intra e inter-relazionale, mettendo a punto tecniche sostanzialmente utili se messe in correlazione alle caratteristiche appunto di quegli aspetti. E’ dunque un grave errore concettuale (nel quale non bisogna più ricadere) la pretesa che ciascuna teoria ha avanzato di fare di ogni scoperta o innovazione un “sistema globale” con cui spiegare la totalità: pretesa sulla quale le varie scuole hanno appoggiato le proprie rigidità dogmatiche, senza tenere in conto la frammentazione dell’oggetto di ricerca. Possiamo invece sostenere con Lefevre che “vi è qualcosa di vero in tutte le idee. Nulla è interamente e indiscutibilmente veritiero; niente è assolutamente assurdo e falso. Confrontando le tesi, il pensiero si indirizza spontaneamente verso una unità superiore. Ogni tesi è falsa per ciò che afferma in forma assoluta, ma veritiera per ciò che afferma relativamente (il suo contenuto); ed è vera per ciò che afferma relativamente e falsa per ciò che nega assolutamente (il suo dogmatismo)”. In tal senso bisogna riconoscere evidentemente a gran parte delle scoperte, delle formulazioni e delle prassi terapeutiche, messe a punto da ciascun modello psicoterapeutico, una specifica e al contempo insostituibile validità. Quello che però è purtroppo accaduto, è che i singoli modelli si sono poi spesso “persi” in una necessità, miope seppur comprensibile, di difendere se stessi, sovente in contrapposizione con gli altri, alla ricerca di un sostegno forte di identità solo al proprio interno. Ed è stato così che si sono commessi alcuni fondamentali errori.

1) Il primo è stato quello di non sottoporre a costante verifica le proprie formulazioni teoriche, con la conseguenza che a volte sono state conservate e difese anche quelle proposizioni che venivano invece smentite dalla pratica clinica stessa, oppure dai dati provenienti dalla ricerca più avanzata, sia nello stesso campo psicologico-clinico, sia nelle altre discipline contigue, concernenti il funzionamento dell’essere umano a vari livelli.

2) Il secondo errore è consistito nel fatto che ciascun modello. assolutizzandosi. ha finito per credere di ricoprire tutto il campo esistente d’indagine, e non più solo quella parte di esso (il simbolico, le relazioni familiari, le strutture cognitive, le matrici gruppali, il corporeo, ecc.) che aveva studiato e contribuito a illuminare. Ogni modello, pertanto, si è posto come in alternativa all’altro, facendo fatica a farsi strada l’idea che in questa scienza (relativamente giovane) si stavano come producendo in contemporanea vari pezzi di un mosaico più ampio, il quale prima o poi andava ricomposto. Oggi sembra che tale ricomposizione possa cominciare ad avvenire: ad esempio trasferendo nozioni e concetti del medesimo oggetto di studio da un modello teorico ad un altro; oppure seguendo i cambiamenti e i destini delle nozioni che transitano nei vari modelli; o ancora costruendo un’epistemologia interna che tenga metodologicamente conto della specificità di ogni modello teorico ma si preoccupi della estensibilità delle nozioni in comune tra vari modelli.

3) Il terzo errore, infine, è stato quello di accogliere cambiamenti nella prassi terapeutica (dettati da pressioni culturali e sociali, da esigenze o ansie di efficienza) senza coniugarli con il modello teorico di base, in un necessario intergioco tra teoria e prassi.

L’evoluzione delle teorie verso una reciproca interazione

Nonostante tali errori epistemologici, non possiamo comunque non ammettere che negli ultimi quarant’anni siano stati fatti notevoli passi avanti nella psicoterapia e nei campi ad essa correlati. Con Basch potremmo dire che “esiste oggi una concreta possibilità di formulare un approccio valido e utile verso l’integrazione che le varie scuole di psicoterapia offrono”. Non si vuole qui sostenere l’ipotesi di mettere insieme vari modelli in un atteggiamento pedissequamente eclettico, ma piuttosto la necessità di costruire, a partire dalle conoscenze acquisite in ogni modello, un insieme di principi che siano meno limitati alla singola determinata ottica, più capaci di estensibilità, e al contempo più specifici della psicoterapia di per sé, intesa fondamentalmente come processo di trasformazione. Si tratta di consolidare la consapevolezza che stiamo tutti osservando, studiando e intervenendo su di un oggetto unico, comune a tutte le indagini. Per poter guardare con intelligenza al futuro, pare utile affrontare una lettura della storia della psicoterapia con una duplice modalità che, da un lato, tenga presente la continuità de/lo siviluppo, e che dall’altro, come suggerisce Foucault, si occupi anche delle discontinuità e delle “notizie di secondo piano”. Non solo, quindi, la storia dei “modelli vincitori” (Kuhn) ma la possibilità di cogliere nelle differenze significative tra i modelli un ripensamento più sottile e profondo. Il processo di sistemazione dell’intero campo della psicoterapia e di creazione di un corpus teorico comune (articolato e dinamico, capace di affrontare con un’ottica multifocale la sfida della complessità) è possibile a patto che si accetti di rivisitare apertamente formulazioni superate e di affrontare con chiarezza nuovi nodi concettuali. Le pratiche cliniche ci costringono a ripensare alle tecniche impiegate e alle teorie di riferimento. Esse rappresentano senza dubbio il terreno sul quale concretamente si sono incarnati quei cambiamenti e quelle innovazioni che di recente stanno attraversando il mondo della psicoterapia. E’ su questo stesso terreno che si sono avviate esperienze di apertura dei confini tradizionali, tentativi di connessione di approcci differenti, processi di revisione. Appare allora ancor più evidente la necessità di far proseguire, in modo più diretto e consapevole, un processo che in parte si è già avviato: mettere a contatto i vari modelli offrendo uno spazio per la ricerca comune e la riflessione sulle nozioni appartenenti a ciascun campo di indagine . Se si va a fondo in un lavoro di confronto teorico-tecnico (l’attuazione, cioè, della cosiddetta commensurabilità tra modelli) si potranno superare, pur in un percorso irto di difficoltà metodologiche, le separatezze ed i monopoli interpretativi in psicologia clinica. Alla luce delle considerazioni precedenti, criteri e fasi sequenziali di un progetto di tal genere potrebbero essere, a titolo di esempio, i seguenti:

1) Un’attenta e rigorosa ricostruzione del rapporto tra teoria e tecnica;

2) Abbandonare le formulazioni teoriche (a qualunque modello esse appartengano) rivelatesi superate dalla ricerca scientifica degli ultimi trent’anni;

3) Riformulare quei concetti classici che si siano mostrati utili, ma che non sono più completamente soddisfacenti in una logica di confronto più ampio;

4) Ricercare le nozioni e i concetti che consentano di attraversare le varie aree teoriche e rivederle, tentando di comprendere gli ostacoli epistemologici che funzionano da resistenze al cambiamento;

5) Collocare all’interno di una visione complessiva e più ampia le innovazioni delle tecniche e delle pratiche cliniche;

6) Facilitare, attraverso ricerche sulla valutazione circa gli effetti in psicoterapia, lo studio trasversale del processo psicoterapeutico stesso. Si tratta di confrontarsi tutti, in modo trasversale, con il circolo costituito da: diagnosi e analisi della domanda – teoria della personalità – teoria della psicopatologia – gestione della relazione – gestione del setting – obiettivi – valutazione.

Lo stato della ricerca e le prospettive future
LA SFIDA DELLE NEUROSCIENZE

Oggi stiamo assistendo al fenomeno del ritorno dirompente, nel campo della salute psichica, delle neuroscienze: con la loro impostazione biologistica e organicista, e con le loro promesse miracolistiche di “sanità” attraverso interventi diretti sul cervello e sui numerosi neurotrasmettitori che l’organismo impiega nella propria complessa regolazione. Ma troppo spesso – come sostiene Rose, neuropsichiatra controcorrente del – tali atteggiamenti e tali impostazioni sconfinano in un pericoloso riduzionismo, nel momento in cui si attribuisce al determinismo genetico la causa unica del funzionamento umano, e alla biochimica o alla neurochirurgia l’unica modalità di intervento. Giustamente Rose ricorda che recenti ricerche su soggetti depressi hanno dimostrato che un riaumento della serotonina (deficitaria in questo tipo di malattia) lo si può riscontrare anche dopo un trattamento di psicoterapia, senza alcun uso di immissioni esterne (farmacologiche) di detta sostanza. Paolo Crepet, da parte sua, sostiene che il trionfalismo della biochimica è ingiustificato, perché non più di un terzo dei pazienti depressi ottiene risultati positivi con gli psicofarmaci (la cui stabilità nel tempo, poi, è ancora tutta da dimostrare). D’altronde, a proposito del trionfalismo della biochimica, molti autori ci mettono in guardia sulla presunta oggettività che le ricerche sugli psicofarmaci pretendono di avere, sottolineando invece che anche queste ricerche sono fortemente influenzate, nel loro impianto metodologico, dal soggettivismo dei ricercatori, dal loro desiderio di successo, dai fini predeterminati, quando non siano apertamente inquinate da intenzioni direttamente manipolatorie. A fianco di questo comprensibile ritorno delle neuroscienze (comprensibile per la evidente maggiore facilità con cui le persone possono accettare una pillola piuttosto che un lavoro di revisione di sé), la psicologia clinica non può non affrontare la sfida che le pone un siffatto estremo riduzionismo. Del (‘orno fa notare che tra le cause di questo “popolare” successo (al di là degli indubbi meriti che tali scienze hanno), vi sia stata anche una specifica carenza della stessa psicologia clinica, una sua certa incapacità ad affrontare con uno statuto scientificamente adeguato i problemi sempre più complessi e diffusi del disagio, della cura e della salute più in generale. Né oggi è sufficiente che gli psicologi clinici si affrettino a dichiarare che in certi casi il farmaco può essere considerato un trattamento necessario da affiancare alla psicoterapia, o da integrare nella psicoterapia (in una visione esclusivamente di “vissuti”) come un sostegno esterno che a poco a poco va “internalizzato” dal paziente. Bisogna andare oltre e riconoscere che un terreno cosiddetto biologico è in totale e stretta interrelazione con il terreno cosiddetto psicologico, e che nessuno dei due è in realtà subordinato all’altro. Si tratta di vedere, in altri termini, se la psicologia clinica è disposta ad affrontare anche ricerche come quelle citate da Rose, cioè ad interagire profondamente, nella ristrutturazione del proprio impianto scientifico, con le altre discipline, pur conservando ovviamente la propria specificità e la propria ottica. Probabilmente non si può più, oggi, non guardare al funzionamento complessivo dell’individuo (compresi i suoi processi biochimici) e cercare di comprendere come la psicologia clinica e la psicoterapia (viste nelle complessità dei vari approcci) possano interagire con tale funzionamento, e in qualche misura incidere significativamente su salute e benessere. Ma troppo spesso – come sostiene Rose, neuropsichiatra controcorrente del – tali atteggiamenti e tali impostazioni sconfinano in un pericoloso riduzionismo, nel momento in cui si attribuisce al determinismo genetico la causa unica del funzionamento umano, e alla biochimica o alla neurochirurgia l’unica modalità di intervento. Giustamente Rose ricorda che recenti ricerche su soggetti depressi hanno dimostrato che un riaumento della serotonina (deficitaria in questo tipo di malattia) lo si può riscontrare anche dopo un trattamento di psicoterapia, senza alcun uso di immissioni esterne (farmacologiche) di detta sostanza. Paolo Crepet, da parte sua, sostiene che il trionfalismo della biochimica è ingiustificato, perché non più di un terzo dei pazienti depressi ottiene risultati positivi con gli psicofarmaci (la cui stabilità nel tempo, poi, è ancora tutta da dimostrare). D’altronde, a proposito del trionfalismo della biochimica, molti autori ci mettono in guardia sulla presunta oggettività che le ricerche sugli psicofarmaci pretendono di avere, sottolineando invece che anche queste ricerche sono fortemente influenzate, nel loro impianto metodologico, dal soggettivismo dei ricercatori, dal loro desiderio di successo, dai fini predeterminati, quando non siano apertamente inquinate da intenzioni direttamente manipolatorie. A fianco di questo comprensibile ritorno delle neuroscienze (comprensibile per la evidente maggiore facilità con cui le persone possono accettare una pillola piuttosto che un lavoro di revisione di sé), la psicologia clinica non può non affrontare la sfida che le pone un siffatto estremo riduzionismo. Del (‘orno fa notare che tra le cause di questo “popolare” successo (al di là degli indubbi meriti che tali scienze hanno), vi sia stata anche una specifica carenza della stessa psicologia clinica, una sua certa incapacità ad affrontare con uno statuto scientificamente adeguato i problemi sempre più complessi e diffusi del disagio, della cura e della salute più in generale. Né oggi è sufficiente che gli psicologi clinici si affrettino a dichiarare che in certi casi il farmaco può essere considerato un trattamento necessario da affiancare alla psicoterapia, o da integrare nella psicoterapia (in una visione esclusivamente di “vissuti”) come un sostegno esterno che a poco a poco va “internalizzato” dal paziente. Bisogna andare oltre e riconoscere che un terreno cosiddetto biologico è in totale e stretta interrelazione con il terreno cosiddetto psicologico, e che nessuno dei due è in realtà subordinato all’altro. Si tratta di vedere, in altri termini, se la psicologia clinica è disposta ad affrontare anche ricerche come quelle citate da Rose, cioè ad interagire profondamente, nella ristrutturazione del proprio impianto scientifico, con le altre discipline, pur conservando ovviamente la propria specificità e la propria ottica. Probabilmente non si può più, oggi, non guardare al funzionamento complessivo dell’individuo (compresi i suoi processi biochimici) e cercare di comprendere come la psicologia clinica e la psicoterapia (viste nelle complessità dei vari approcci) possano interagire con tale funzionamento, e in qualche misura incidere significativamente su salute e benessere.

LA RELAZIONE E GLI ELEMENTI CHE LA COMPONGONO

D’altronde appare ormai chiaro come l’elemento fondante della psicologia clinica sia la relazione, e come questa si strutturi e si sviluppi su più piani, tra i quali rientra anche il corpo. come struttura di comunicazione, come luogo di stratificazioni emotive ancora attive in cui si sono “depositati” gli esiti delle relazioni passate: non solo dunque come corpo vissuto, come metafora della mente, ma come organismo che interagisce a più livelli. Così come appare oramai innegabile, alla psicologia clinica tutta, che nelle relazioni umane entrino a far parte, sin dall’inizio, i complessi rapporti familiari, i vissuti gruppali, transpersonali, transgenerazionali, un universo composto da elementi inconsapevoli e invisibili, circuiti a feedback, schemi cognitivi, e così via. Ancora una volta, ritornando attraverso questi vari assunti alle differenti aree teoriche, lo stato attuale del dibattito sembra mostrarci come determinati elementi appartenenti a ciascuna di esse siano sempre più generalmente accettati come basilari nella psicologia clinica. Non a caso, dunque, si può asserire che i modelli debbano divenire sempre più permeabili l’uno all’altro, poichè tutti si riferiscono ad un universo comune ed unitario, per quanto complesso; e – possiamo allora dire con Lo Verso – la battaglia per l’affermazione di questa unitarietà è politica ed etica, oltre che scientifica. Una volta assenta la centralità della relazione in psicologia clinica, come elemento fondante e unificante, si tratta ora di studiarla, con l’aiuto delle conoscenze acquisite dai differenti approcci, analizzando il modo in cui si struttura, come si evolve e procede in un trattamento terapeutico. indipendentemente dai modelli teorici e dalle tecniche, che cosa ne costituisce l’elemento curativo e i cosiddetti fattori di cambiamento. E bisogna studiarla non soltanto nei trattamenti di cura, ma anche a livello di diagnosi, di prevenzione, di intervento sociale

LA DIAGNOSI

La diagnosi, come altro polo caratteristico ed unificante della psicologia clinica, non può appiattirsi su una concezione di tipo nosografico, di descrizione, cioè, e classificazione dei disturbi in senso “medico”, ma deve potersi riconnettere ad uno specifico psicologico, come tale più ampio dei singoli modelli cIinici, e capace di guardare alle modalità di funzionamento della persona, alle dinamiche intra e inter-psichiche. Dunque anche per la diagnosi vale lo stesso progetto di permeabilità e confronto tra modelli e teorie, poiché un tale tipo di diagnosi – che potremmo con Lo Verso definire di lo livello – rappresenta in fondo un obiettivo, un punto di arrivo che la ricerca si propone, rispetto ad una diagnosi di 20 livello, tutta tesa alle metodologie di cura, e pertanto a tutt’oggi ancora interamente legata alle varie teorie e modelli.

PROGETTO

Le recenti esperienze in psicologia clinica ci fanno prevedere che probabilmente nel futuro dovremo sempre più pensare come possibili dei trattamenti integrati e un lavoro di tipo combina/o, tra vari aspetti della relazionalità e della vita affettiva e sociale dei pazienti, nonché tra varie modalità terapeutiche. Ma queste prospettive ci riportano ad una crescente consapevolezza dell’importanza e della necessità della progettuahtà e del progetto, di un progetto terapeutico complessivo e non frammentario, preorganizzato e non casuale. E’ proprio il trattamento di pazienti gravi (uno degli scogli che la psicologia clinica non dovrà mai eludere) a porre sempre più l’accento sulla necessità di una rete di interventi a vari livelli, ma con un’ottica progettuale complessiva, pur nell’uso di molteplici metodologie.

I SERVIZI TERRITORIALI

Una delle sfide più importanti del futuro resterà dunque la capacità operativa nei servizi pubblici, dove una serie di esigenze urgenti e drammatiche ha da tempo fatto saltare dispositivi di cura e setting di tipo classico. Ma la sfida rischia di essere persa se non verrà fatta estrema chiarezza su ciò che gli psicologi cimici sono chiamati a fare nei servizi: e non soltanto nel senso già citato di confrontare su di un terreno comune vari modelli e varie teorie, ma principalmente distinguendo nettamente tra di loro vari possibili tipi di intervento (diagnosi, terapie d’appoggio, terapie brevi, psicoterapie del profondo, interventi sulla famiglia, interventi sul tessuto sociale, ecc.), differenziando le relative metodologie, chiarendo all’utenza in modo molto netto il trattamento proposto (inizio, modalità, tipo di durata, ecc.), e quindi sconfiggendo quel modo confusivo di far passare qualsiasi colloquio per psicoterapia (evidentemente così “di moda” da spingere quasi tutti gli psicologi a far domanda per entrare nell’elenco degli psicoterapeuti). La psicologia clinica deve, invece, differenziarsi in un ampio ventaglio di interventi piuttosto che appiattirsi ad un’unica metodologia.

IL PROCESSO TERAPEUTICO

E’ ancora una volta il trattamento dei pazienti gravi che può aiutarci a comprendere meglio cosa sia in realtà, nel profondo delle sue dinamiche così intensamente coinvolgenti, questa particolare relazione che prende il nome di psicoterapia. Il lavoro con loro ci ha mostrato, in modo inequivocabile, che i setting non possono essere mantenuti nei limiti rigidi in cui sono stati concepiti dai vari modelli, ma che la psicoterapia è veramente qualcosa di più di un neutrale ascoltare, di un asettico interpretare, di un semplice tollerare la distruttività dell’altro. E’ proprio nei casi gravi che si mette in evidenza come un processo terapeutico, per essere veramente efficace, ha bisogno di far “riattraversare” al paziente le fasi più arcaiche delle sue relazioni affettive, dove la presenza del terapeuta (come ha sempre sostenuto Tranchina) non può certo essere asettica e distaccata, ma al contrario è estremamente coinvolta in una forte vicinanza affettiva ed emotiva. Lo studio di questi casi-limite può dunque far emergere, in modo più evidente, gli elementi indispensabili costitutivi di ciò che potrebbe essere definito “un trattamento efficace”, i punti nodali del processo terapeutico in sé, della relazione e del suo evolversi. Le ultime indagini epidemiologiche sembrerebbero rivelare che gli esiti delle psicoterapie non cambiano in modo sensibile con il tipo di modello e di area teorica utilizzati. Ciò potrebbe far pensare alla influenza decisiva di fattori presenti in ogni seria e buona terapia, fattori specifici, costitutivi appunto del processo terapeutico (più che ad elementi “di personalità” o “carismatici” del terapeuta come alcuni hanno voluto sostenere). Alla luce di tali considerazioni si profila ancor più necessario uno studio sistematico di tale peculiare processo, del suo dispiegarsi in differenti Jàsi che si attraversano lungo il suo corso, delle regolarità che, a ben guardare, si possono riscontrare (al di là delle ovvie differenze) in tutti i casi, dei processi che si ripresentano con tutti i pazienti, insomma una ricerca sull’iter complessivo della psicoterapia. E’ solo attraverso una visione di questo genere che ha senso parlare di quello che potrebbe essere definito “un terapeuta sufficientemente buono”, al di là del modello di appartenenza, cioè un terapeuta che ha appreso a mettere in atto (anche senza averne piena consapevolezza) determinate modalità terapeutiche che favoriscono appunto l’evolversi positivamente dell’iter terapeutico, al di là delle metodologie, delle regole, delle tecniche strettamente appartenenti al proprio modello. E una volta esplicitati e resi consapevoli questi aspetti, queste modalità terapeutiche, sarà evidentemente possibile potenziarli in una maggiore consapevolezza.

LA FORMAZIONE

Qui il discorso non può non coinvolgere il tema della formazione, troppo spesso ancora insufficiente o carente, sia nelle sedi universitarie che in molte delle strutture private. Oggi, se non altro, si è abbastanza concordemente unanimi nel sostenere che la formazione, in quanto momento fondamentale per la comprensione dei processi di base dello sviluppo della persona e dei processi di base della relazione d’aiuto, debba essere sostanzialmente una formazione lunga, debba includere un importante lavoro su se stessi, debba essere fortemente centrata sulle capacità di gestire la relazione, debba portare all’acquisizione di modalità terapeutiche ben definite.

LA VERIFICA

Infine, va maturando sempre più la consapevolezza dell’importanza di una seria ricerca sulla verifica degli effetti e dei risultati in psicoterapia e in psicologia clinica, al di là di pressioni di tipo economico, oggi forti in paesi come gli Stati Uniti e la Germania.

Il problema della valutazione non si può dunque più ignorare o aggirare, poiché è chiaro che deve diventare un elemento fondante, un impulso indispensabile alla ricerca, dal momento che è superata la fase in cui si poteva dire che i risultati non contano, e perché è proprio da tale tipo di ricerca che possono arrivare nuove conoscenze e chiarezze nell’analisi del processo terapeutico stesso. Le conoscenze che abbiamo oggi ci permettono di procedere in modo netto e aperto lungo questa direzione, senza cadere in sviste riduzionistiche, ma anzi cercando di restare in linea con la teoria della complessità: attraverso concezioni nmltifocali, attraverso l’utilizzazione di una sempre maggiore ricchezza di dettagli e particolari, unitamente ad una visione più ampia del campo d’indagine, e attraverso un continuo sviluppo teorico e tecnico.

Il ruolo sociale della psicologia clinica

Viviamo oggi una fase di profonde trasformazioni, e di nuove complesse istanze sociali. La psicologia clinica dovrà saper rispondere a queste istanze, favorendo i propri processi di cambiamento, rendendoli trasparenti ed accessibili agli operatori, al resto del mondo scientifico e culturale, e soprattutto nei confronti della comunità, dell’utenza, delle più ampie esigenze sociali. E’ necessario che l’utenza possa trovare piena fiducia nei processi e nei metodi della psicologia clinica e che questa possa parlare alla comunità, esplicitando in modo limpido i propri percorsi di trasformazione e di verifica, assumendo il posto e la dignità che le competono nel consesso delle realtà scientifiche più avanzate. Bisogna che sia messo sempre di più l’accento su progetti che riguardano il vasto discorso della prevenzione primaria e secondaria, anziché solo gli interventi di cura. La psicologia clinica può e deve dire molto nel campo della psicologia della salute, dello sviluppo della qualità della vita e del potenziamento personale. Può dare un contributo essenziale alla comprensione e alla facilitazione sia dei processi evolutivi che di quelli formativi. Tutto ciò può bene interpretare i possibili nuovi scenari auspicati per la psicologia clinica, per la psicoterapia e per le scienze dell’uomo più in generale. La prospettiva che si apre è quella di un passaggio verso nuove fasi della ricerca sul funzionamento psicofisico dell’uomo; nuove sia per il tipo di conoscenze, ma anche per la possibilità più immediata di conversione in efficaci strumenti di intervento, che finalmente vadano a ricoprire il livello della prevenzione del disagio, dello sviluppo e della continuità del benessere individuale e sociale. Si ringraziano per il loro contributo di idee e suggerimenti, in particolare, Girolamo Lo Verso, Fiorenza Milano, Riccardo Telleschi, Franco Del Corno, Livia Saviane, oltre agli autori citati in bibliografia.