Simposio internazionale, Palazzo Serra di Cassano, 1997.
Siamo in una condizione di equilibrio, molto delicato ma estremamente significativo, tra il superare, da una parte, un determinismo ottuso (riduzionismo eccessivo, causa-effetto di tipo lineare, leggi solo quantitative, semplificazione banalizzante), e dall’altra parte una concezione puramente caotica della realtà, vista come irripetibile, impossibile a studiare, comprendere, prevedere.
La scienza della complessità
Prigogine ha sempre sostenuto, da grande studioso quale egli è, la necessità che la scienza moderna fosse una scienza veramente olistica; una scienza che non si arroccasse negli specialismi, non si frammentasse nei particolari, ma cercasse di ricomporre i saperi tra di loro. Questo è un tipo di scienza che cerca di creare un ponte tra l’essere e il divenire della natura, poiché guarda all’universo come una realtà in evoluzione, non statica. Ma cerca di creare anche un ponte tra i differenti aspetti della natura con i quali noi veniamo in contatto (in particolare gli esseri umani e le loro relazioni), e i differenti modi in cui cerchiamo di interpretarne il funzionamento. Recenti studi sulla mente ci hanno dimostrato che le varie parti del cervello e i suoi neuroni sono meno specializzati di quanto si pensasse, e sono comunque in grado di modificare abbastanza facilmente, se necessario, le loro mansioni. Dunque il cervello stesso presenta, al di là delle differenti funzioni a cui è preposto, una sua unitarietà di fondo. La scienza a cui fa riferimento Prigogine è una scienza di un universo in cambiamento, è una scienza che accetta la complessità, ma che non rinuncia a cercare di comprenderla e spiegarla; una scienza che tenta di dare comunque una forma matematica (e quindi rigorosa) alle leggi del caos.
Siamo dunque in una condizione di equilibrio, molto delicato ma estremamente significativo, tra il superare, da una parte, un determinismo ottuso (riduzionismo eccessivo, causa-effetto di tipo lineare, leggi solo quantitative, semplificazione banalizzante), e dall’altra parte una concezione puramente caotica della realtà, vista come irripetibile, impossibile a studiare, comprendere, prevedere.
Wilhelm Reich e la rivoluzione metodologica
Erano gli anni ’20 quando Wilhelm Reich proponeva le prime ipotesi sull’esistenza di interconnessioni profonde e complesse tra lo psichico e il somatico e sulla necessità in psicoterapia di intervenire anche sul versante corporeo. Reich fu tra coloro che posero le basi di una nuova teoria corpo-mente. Il suo concetto di identità funzionale tra psiche e soma apre alla grande scoperta che nel corpo è scritta tutta la storia delle nostre emozioni e dello sviluppo della nostra vita, sin da quando nasciamo. Da lì si è sviluppato tutto il grande filone della psicoterapia corporea, delle sue tecniche e delle sue metodologie, di interventi che non fossero solo psicologici, solo verbali.
Il pensiero funzionale
Molta strada è stata percorsa da allora. All’interno di questo vasto fermento di ricerche e sperimentazioni si è andato man mano delineando ed evidenziando un altro nuovo filone, una nuova frontiera della scienza, un modo complesso di leggere il funzionamento degli esseri umani e della loro interazione. La psicologia funzionale, muovendosi in questa direzione, si è man mano sviluppata tentando di affrontare il paradigma della complessità e di andare oltre le formulazioni e le ottiche tradizionali. Si trattava in effetti di una ipotesi iniziale di teoria complessiva del Sé, un primo tentativo di superare le limitazioni dei vari approcci clinici verso la costruzione di una teoria integrata ed unitaria (ma non semplice) della personalità e della psicoterapia. Si è iniziato con il superare concetti troppo generici e vaghi, come quelli di corpo e di mente, per arrivare a parlare, all’interno della ipotizzata unitarietà corpo-mente, di processi psicocorporei, scendendo dettagliatamente su tutte le funzioni che costituiscono il Sé: dai ricordi alla razionalità, dal simbolico alle fantasie, dalle posture ai movimenti, dalle emozioni alle forme del corpo, dal sistema neurovegetativo alle percezioni.
La psicologia funzionale ritiene importante guardare alla persona nella sua unitarietà, e nello stesso tempo nella sua complessità, concretezza e pluralità di piani e livelli su cui operare. Si tratta di sviluppare un concetto di “olismo” che non sia vago ma estremamente ricco e circostanziato. Il Sé può essere definito funzionalmente come l’organizzazione che permette all’organismo di creare schemi e rappresentazioni su tutti i piani psicocorporei, come l’insieme stesso di questi piani e dei processi che li caratterizzano, come l’insieme delle leggi che regolano l’interazione tra tutti i processi e i piani dell’organismo visto nella sua interezza e globalità. Ma il punto di vista funzionale (che in fondo si ricollega per certi aspetti al primo funzionalismo di Dewey e di James ancora sorprendentemente attuale) ha scoperto anche la ricchezza delle sue potenzialità nel potersi applicare con successo a molti altri ambiti, a tutti gli insiemi complessi e dinamici che costituiscono la realtà sociale: famiglie, gruppi, équipe, sistemi, e persino città.
L’evoluzione epistemologica
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a trasformazioni significative all’interno del mondo della scienza, al modo di affrontare i problemi, alle metodologie con cui si andavano studiando sistemi via via più complessi. Anche il mondo del vivere comune non è stato esente da tali trasformazioni. E’ raro che oggi si pretendano assunti di verità; si comincia a capire meglio che le cose si devono guardare con ottiche relativistiche, e i modelli come ipotesi piuttosto che come realtà. Nelle scienze umane le cose sono ancora più delicate. Una conoscenza complessa e complessiva delle leggi che regolano il funzionamento psichico e fisico dell’uomo è ancora molto lontana dall’essere raggiunta: abbiamo invece all’attuale una serie di modelli differenti sia in medicina che in psicologia. Certamente il modo di vedere e leggere il funzionamento della persona si è anch’esso andato modificando nel tempo, sotto l’influenza dei cambiamenti epistemologici della scienza. Il positivismo settecentesco ha ceduto il passo a un’ottica relativistica, anche se successivamente il neopositivismo si è riaffacciato prepotentemente sulla scena. Per reazione gran parte della psicologia è stata tutta tesa a separarsi dal modello medico puntando in modo esclusivo sulle sensazioni individuali, sui vissuti, sul soggettivismo. Le neuroscienze e la psicofarmacologia, per contro, hanno continuato a puntare su di un oggettivismo esasperato. La stessa contrapposizione è andata creandosi tra l’atteggiamento dei clinici rispetto a quello degli sperimentalisti all’interno della psicologia stessa.
L’ottica epistemologica si è andata notevolmente evolvendo da quella puramente strutturalista, che guarda alle entità e ai contenuti piuttosto che alle modalità e all’organizzazione. Pensare in termini di strutture significava voler “reificare” elementi che spesso non sono materiali; voleva dire continuare a spingere nella direzione dell’organicismo, anche se “psichico”; e infine giustificava la parcellizzazione dell’oggetto di studio prendendone in considerazione le singole parti. Il concetto di olismo si sta invece facendo strada sostenuto dal bisogno di non tralasciare l’unitarietà del soggetto, di superare la frammentazione e le specializzazioni che finiscono con il perdere di vista gli elementi centrali del funzionamento degli esseri umani, della vita, della salute e del benessere. Ma era necessario poter arrivare ad un olismo che non restasse troppo sul vago e sul generico, e che avesse quindi delle capacità di scendere nei dettagli profondi per poter avere capacità operative.
Dunque, come tenere conto dell’unitarietà e al contempo non sfuggire allo studio della complessità? Come superare la dicotomia tra soggettivismo e oggettivismo? Come andare al di là del neopositivismo e non cadere però nell’irrazionalismo deleterio per il quale alla fine niente si può studiare, capire e riprodurre?
Verso una nuova epistemologia
Anche i modelli basati sulla divisione in parti, nonostante siano più avanzati, oggi mostrano di non essere più completamente sufficienti per affrontare i nodi della dinamicità e della complessità. Una struttura complessa non può essere considerata come somma di parti definite: le parti rimandano a una suddivisione spaziale, territoriale, che non permette di capire il funzionamento dell’insieme. Le parti devono essere invece sostituite da quel qualcosa che le collega, altrimenti si corre il rischio di perdere l’insieme e di cadere appunto nella parcellizzazione che è uno dei mali della scienza passata. Una logica delle parti non riesce a includere al suo interno la visione dell’organizzazione del sistema e le parti finiscono per venire considerate l’una in alternativa o addirittura in contrapposizione alle altre. E allora siamo in pieno cammino verso nuove ottiche che devono essere di tipo multidimensionale, verso modalità differenti di guardare la realtà complessa dell’uomo e delle sue interazioni sociali.
In questo cammino, nel quale numerosi studiosi (citiamo Merlau Ponty, Morin) hanno già iniziato a dare importanti contributi, si colloca questo Simposio: un momento di riflessione e di ripensamento ad un percorso iniziato diverso tempo fa. Oggi sono 100 anni dalla nascita di Wilhelm Reich: qualcosa di significativo ha avuto origine con il suo pensiero proprio in questa direzione. Un qualcosa che certo si è sviluppato successivamente fino ad arrivare alla nuova frontiera del pensiero funzionale, con il suo contributo epistemologico in relazione alla complessità, ma che ha pur sempre germogliato da quel primo pensiero fecondo. Ma non solo questo è stato il contributo importante di Reich. Egli aveva compreso in maniera lucida come la vita emotiva delle persone avesse un risvolto immediato e fondamentale sulle vicende della società e sui suoi aspetti politici; considerava il mondo degli affetti come una delle componenti più importanti delle forze che muovono la storia. Una società può mantenere condizioni di sofferenza emotiva per conservare un sistema di privilegi e di disparità, evitando che i cittadini lottino realmente per i loro diritti vitali e per il loro benessere. Quando si sta male nel profondo, paradossalmente si è meno disposti a lottare (a volte si esplode nella violenza che è altra cosa), a cercare la verità; si è disillusi, si perde la speranza, ci si sente impotenti, ci si accontenta di verità costruite dall’alto, si accetta tutto. Quando si sta male ci si può rassegnare a brillare di luce riflessa: la squadra che vince, un personaggio televisivo che fa furore, un altro che protesta insultando tutti, un politico che promette belle parole; si può accettare qualunque forma di governo, si può subire una personalità forte che pretende il sacrificio per un fantomatico bene della nazione, della categoria, di una regione, di un’etnìa.
Reich aveva sottolineato come distruttività e violenza non sono insiti nell’essere umano ma vengono indotti da un ambiente che non da la stessa solidarietà e protezione ai bambini come fanno tutti gli altri mammiferi, che non prende in considerazione tutti i bisogni fondamentali dell’infanzia ma che anzi troppo spesso va contro di essi.
La Clinica
La terapia è stato il primo campo di applicazione di una visione che nn poteva più escludere il corpo e l’interezza della persona. Si comunica molto più con il corpo che con le parole. Ma il punto è che il corpo comunica profondamente non solo con l’altro ma con la persona stessa, inviandole un flusso continuo di sensazioni molto spesso del tutto inconsapevoli. Questo spiega la presenza di ansia, angoscia, rabbia o melanconia anche se non vi sono elementi esterni che giustifichino tali stati d’animo negativi, né pensieri che vanno in questa direzione. Nel corpo, o meglio nelle varie funzioni psicocorporee, troviamo tracce attive di antiche vicende relazionali: desideri frustrati, slanci bloccati, paure non contenute, rabbie compresse. Tutto questo non è più un mistero. Oggi sappiamo che esiste una memoria periferica che conserva queste tracce sotto forma di alterazioni di funzioni psicocorporee: tono di base di determinati muscoli, soglie percettive, movimenti abitudinari e stereotipati, posture cristallizzate. Si spiegano così il permanere di vecchi meccanismi durante la crescita fino all’età adulta, il perché le persone finiscano per avere comportamenti ripetitivi non adeguati alla realtà esterna, come mai vecchi “fantasmi” continuino a prendere il sopravvento sulle sensazioni reali dell’oggi. Si crea come un filtro attraverso il quale la persona percepisce la realtà, un filtro che crea sempre la stessa coloritura e deforma sempre allo stesso modo. Il filtro è appunto l’organizzazione di tutte le funzioni psicocorporee, la forma che queste hanno assunto nel tempo, ciò che definiamo il “Sé”: la globalità di una persona che va molto al di là della parte cosciente e volontaria. Possiamo dunque parlare di funzioni psicocorporee: posture, modalità di movimenti, forma delle parti del corpo; ma anche attivazione fisiologica, apparati di regolazione interni (termoregolazione, neurovegetativo, via via fino ai sistemi biologici più profondi legati alle cellule), percezioni, tono muscolare di base; senza trascurare i piani simbolici, quelli cognitivi, i ricordi, l’immaginazione, la progettualità; e infine tuta la gamma delle emozioni e dei sentimenti, quelli espressi, quelli soffocati e trattenuti. Tutte queste funzioni concorrono in maniera paritetica all’organizzazione della personalità. La loro integrazione, lo sviluppo armonico delle une rispetto alle altre, la loro piena e ampia mobilità costituisce lo stato di salute e di benessere della persona. Il loro alterarsi , l’ipertrofia di alcune di esse a discapito di altre, la limitazione delle loro gamme, la mancanza di mobilità, le stereotipie costituiscono un’alterazione complessiva del Sé e uno stato di patologia che sfocia in sintomi e disturbi di vario tipo. E’ dunque l’intero organismo che si ammala. La conoscenza di tutto ciò aiuta a migliorare gli interventi curativi, permette di fare progetti calibrati esattamente sulla persona, di individuare le strade e i metodi più adatti al riequilibrio di tutte le funzioni del Sé, a riconnettere tra di loro emozioni e movimenti, con un tono di voce adeguato, espressioni del viso congruenti, attivazione fisiologica più adatta, sensazioni corrispondenti e non più in balia di vecchi vissuti. Le emozioni troppo sviluppate si ridimensionano, le fantasie angosciose si riconnettono con le dimensioni reali del pericolo, i ricordi si aprono anche su elementi positivi e così via. I funzionamenti diventano morbidi e mobili, passando facilmente dalla rabbia alla tenerezza, dal dolore alla gioia, dall’agitazione alla calma, dalla concentrazione all’allentamento.
Altri campi applicativi
La possibilità di una mappatura precisa e allo stesso tempo globale, dettagliata ma unitaria, ci fa comprendere come il pensiero funzionale non sia solo una teoria clinica ma un modo di leggere la realtà.
Negli ultimi anni lo sviluppo delle sue applicazioni e delle sue implicazioni è stato vertiginoso. E’ bastato cominciare a guardare non solo all’organismo singolo e non solo al momento della cura. E’ stato allora possibile considerare l’entità famiglia, con le sue atmosfere, con i suoi movimenti, il contatto o la freddezza, le “posture” sclerotizzate o mobili, chiusa o aperta, e così via. Oppure analizzare il gruppo con le sue molteplici funzioni psicocorporee, i movimenti agitati o calmi, le sue tendenze a razionalizzare o a lasciar correre, a esplodere o controllare. Esiste un fisiologico anche del gruppo: un sistema respiratorio, circolatorio, un vegetativo, un percettivo. Recentemente si è passati ad organizzazioni ancora più complesse quali può essere addirittura una città, anch’essa considerata come un organismo vivente: caratterizzata da una temperatura, da movimenti, circolazioni, immaginazioni, con un simbolico, una memoria storica, un tessuto emotivo. La differenza di un organismo da un sistema di parti è che l’organismo “vive”: ha emozioni, sistemi di regolazione complessi, ha molteplici funzioni interconnesse. Non ha senso scomporlo in parti o categorie. Altrimenti si rischia di ricadere nella logica della contrapposizione che non è dell’organismo sano. Non ha senso pensare che gli interessi dei commercianti siano opposti a quelli degli operai, che gli automobilisti debbano essere in guerra con i pedoni. Quando l’organismo-città sta male, sta male nella sua interezza e stanno male tutti i suoi abitanti. E non ha senso curare alcune componenti, alcune parti, così come non ha senso per una medicina olistica curare solo il fegato, la gola o l’intestino. Si deve ancora una volta, allora, andare sulle funzioni: sul traffico, sull’aspetto della città, sui sentimenti di appartenenza, sulla speranza, sul recupero della memoria storica e così via, e ricollegare tutto questo in un’unitarietà viva ed armonica.
Il risvolto sociale
Tutto ciò ci deve aiutare a comprendere che bisogna guardare all’intera società senza perdere di vista la vita profonda delle persone, come aveva indicato Reich. Non si può scollegare il benessere individuale da quello collettivo, non si può pensare che le ragioni dell’economia siano sempre più importanti, che viene sempre prima il discorso del lavoro, o del mezzogiorno, o dell’entrata nell’Europa. Bisogna considerare anche i bisogni quotidiani delle persone, le loro emozioni, i desideri profondi, i bisogni di solidarietà, di vicinanza e di contatto; bisogna guardare alle persone, come stanno realmente. E soprattutto bisogna intervenire, fare qualcosa a cominciare dall’età in cui il malessere si struttura e in cui si le personalità perdono le caratteristiche positive iniziali, si distorcono, perdono il senso della loro esistenza e non combattono più per la vita, per la solidarietà, per il rispetto degli altri, per il rispetto della natura e di se stessi. Dobbiamo evitare che personalità “infelici” e disilluse cerchino un palliativo all’angoscia e alla sofferenza nella droga (nelle varie droghe non solo chimiche), nel potere sfrenato, nella violenza, nella pedofilia, nell’impulso folle alla distruzione o all’autodistruzione. Dobbiamo agire, in fretta e in modo radicale, per salvare la nostra infanzia e la nostra adolescenza; dobbiamo mettere in atto un’opera di prevenzione non sporadica ma capace di permeare tutta la società, capace di entusiasmare tutti, di collegare genitori ad operatori, società civile e istituzioni, scienza, professioni, e governanti. Se vogliamo far cessare il dramma di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi, che è poi il dramma della società tuta, dobbiamo pensare presto e bene alla prevenzione. E dobbiamo allora ripensare i processi di costruzione dell’identità dei nostri giovani senza più trascurare nessuna componente psicofisica e sociale, alfine di salvaguardare le ricchezze che ci sono in partenza, le sensibilità specifiche del maschi le e del femminile prima che si impoveriscano in ruoli stereotipati e sterili.
Bisogna ridare il senso alla vita, iridare progettualità non solo all’esistenza individuale ma anche a quella collettiva: un significato di largo respiro basato sul rispetto, sul contatto, sull’amore, sulla tenerezza, componenti fondamentali per una pienezza di vita che non possiamo più trascurare e che invece le accelerazioni, gli sviluppi tecnologici, i modelli precostituiti imperanti nei mass media stano distruggendo. La salvaguardia della vita individuale e sociale è nella multidimensionalità, così come quella della vita biologica è nella biodiversità. Non si possono perdere lati fondamentali del vivere umano a favore di velocità, durezza, aggressività, indifferenza, egocentrismo, violenza. Il pensiero funzionale, la teoria della complessità ci possono aiutare a dare contenuti, modalità e direzioni precise al nostro agire. Se avviamo un progetto che restituisca all’infanzia e all’adolescenza gli aspetti che si stanno perdendo avremo fatto un passo importante verso una svolta decisiva verso un’umanizzazione completa della società, verso il nuovo millennio.
E avremo fatto il più prezioso omaggio che si possa fare a tutti coloro che, come Wilhelm Reich, si sono sempre battuti, pagando duramente sulla propria pelle, a favore dell’infanzia e dei giovani, della salvaguardia dei loro bisogni fondamentali, per conservare in una società libera dalla “peste emozionale” i valori fondamentali della vita.