Luciano Rispoli, 1997.
Wilhelm Reich, precursore della pensiero Funzionale, ipotizza, già alla fine degli anni 60, l’esistenza di un’unità mente corpo, permeando le sue teorie di scientificità e mantenendo sempre il collegamento con il sociale.
Wilhelm Reich
Quando nell’ormai lontano ma mitico 68 mi accostai per la prima volta agli scritti di Wilhelm Reich non sapevo ancora quanto sarebbe cambiata la mia vita. Ero un giovane studente avviato verso una carriera di ingegnere e invece rimasi talmente affascinato dal mondo che mi si dischiudeva davanti che non potei fare a meno di avventurarmi e di immergermi in esso e di rimanervi con una passione mai diminuita fino ad oggi. Cosa mi fece innamorare di Reich e delle sue teorie? Molteplici aspetti; aspetti che ritengo ancor oggi fondamentali per qualunque approccio che cerchi di penetrare a fondo la complessità del funzionamento degli esseri umani, delle loro relazioni, delle loro costruzioni sociali: in altre parole della vita nella sua molteplicità di sfaccettature.
La scientificità
Innanzitutto mi colpì il rigore scientifico del ricercatore, perché Reich si preoccupava di verificare passo passo le proprie intuizioni e le proprie scoperte. Non avrei mai potuto aderire (e non lo potrei fare tuttora) alle idee di sedicenti scienziati che utilizzano solo le proprie intuizioni e che finiscono spesso per inventare leggi sul funzionamento della vita e degli esseri umani in modo del tutto arbitrario: il presunto isolamento percettivo del neonato, le pulsioni primarie autodistruttive, l’intelligenza vista solo come razionalità, l’ereditarietà del carattere, la durezza e la forza presenti solo nella schiena, il controllo che dimora soltanto nel collo. Reich, certo, aveva ampie visioni rispetto ai fenomeni di cui si interessava, spaziava in molti campi del sapere; ma cercava sempre le strade lunghe e pazienti della indagine e della verifica.
Mente-corpo
Estremamente promettenti e nuove al contempo erano le sue ipotesi sull’importanza del rapporto mente-corpo. Mi si apriva davanti un territorio inesplorato e una frontiera pieni di fascino. E a distanza di tanti anni, devo dire che le prospettive non erano affatto al di sotto della realtà ma che anzi quello che abbiamo ritrovato è stato molto al di là delle più rosee aspettative. Il concetto di identità funzionale tra psiche e soma è stato grandemente fecondo ed è ancora oggi di estrema attualità. Allora non sapevo ancora quante potenzialità nascondesse e che sviluppi potesse avere il concetto di “funzione”; ma oggi, proprio per questa ricchezza “in nuce” mi ritrovo ad aver potuto sviluppare in pieno tutta la complessità di una “psicologia funzionale”. E, come vedremo meglio più avanti, la psicologia funzionale si è ritrovata in grado di studiare in modo nuovo i sistemi complessi, con uno sguardo a 3600, ad ampio spettro, senza dover rinunciare alla capacità di scendere nel dettaglio, di guardare con precisione ai particolari e alle specifiche leggi di funzionamento. Insomma da quelle prime intuizioni ha preso avvio un processo a valanga che ha rivoluzionato e sta ancora rivoluzionando una parte della scienza: sono nati paradigmi nuovi di lettura dei sistemi complessi, nuove metodologie, un contributo significativo ad una nuova epistemologia.
Il sociale
Il terzo aspetto che catturò definitivamente il mio interesse e il mio amore era costituito dal costante e continuo collegamento con il sociale. Reich aveva compreso in maniera lucida come la vita emotiva delle persone avesse un risvolto immediato e fondamentale sulle vicende della società e sui suoi aspetti politici; considerava il mondo degli affetti come una delle componenti più importanti delle forze che muovono la storia. Ma fece anche di più: cercò spiegazioni scientifiche e non “psicologistiche” alle sofferenze sociali dell’umanità e a quanto di tragico stava avvenendo in quel tempo: la follia del nazismo e del fascismo in Europa. “Psicologia di massa del fascismo” rimane uno dei più bei libri che abbia mai letto. Considerare la struttura caratteriale dei soggetti che costituiscono la massa tra le forze sociali che muovono la storia, tra le “forze economiche”, rimane una delle chiavi di lettura dei fenomeni sociali ancor oggi pressoché insuperata. L’analisi di come la sofferenza della massa potesse costituire la base della “delega” alle autorità, dell’incapacità di perseguire la propria felicità, costituisce un punto da tenere ben presente quando si vuoi tentare di trovare vie di uscita alle spirali di violenza e di degrado in cui il mondo di oggi sembra cadere sempre di più. Una società può mantenere condizioni di sofferenza emotiva proprio per conservare un sistema di privilegi e di disparità, evitando che i cittadini lottino realmente per i loro diritti vitali e per il loro benessere. Quando sì sta male nel profondo, paradossalmente si è meno disposti a lottare, a cercare la verità; si è disillusi, si perde la speranza, ci si sente impotenti, ci sì accontenta di verità costruite dall’alto, si accetta tutto. Quando si sta male ci si può rassegnare a brillare di luce riflessa: la squadra che vince, un personaggio televisivo che fa furore, un altro che protesta insultando tutti, un politico che promette belle parole; si può accettare qualunque forma di governo, si può subire una personalità forte che pretende il sacrificio per un fantomatico bene della nazione, della categoria, di una regione, di un’etnia, di un’idea. La violenza, ci rammenta Reich, non è insita come pulsione distruttiva nell’essere umano ma è il prodotto dell’alterazione della vita infantile, è il prodotto di un non rispetto per questa vita e per le esigenze profonde che la caratterizzano, è il prodotto del distacco dal nucleo emotivo sano e del distorcersi degli elementi vitali preesistenti. Per questo dette grande importanza all’infanzia e alla necessità di realizzare una prevenzione diffusa, per evitare le sofferenze e le distorsioni di cui la società soffra e soffre ancor oggi. Certo, alcuni particolari di quelle analisi restano collegati al momento storico. Ma la maggior parte di quegli scritti sono di una validità e di una attualità indubitabili; proprio oggi che fenomeni di distacco dalla positività della vita emotiva profonda si stanno facendo più acuti e sempre più preoccupanti.
Il pensiero funzionale
Erano gli anni ‘20 quando Wilhelm Reich proponeva le prime ipotesi sull’esistenza di interconnessioni profonde e complesse tra lo psichico e il somatico e sulla necessità in psicoterapia di intervenire anche sul versante corporeo. Reich fu tra coloro che posero le basi di una nuova teoria corpo-mente. Il suo concetto di identità funzionale tra psiche e soma apre alla grande scoperta che nel corpo è scritta tutta la storia delle nostre emozioni e dello sviluppo della nostra vita, sin da quando nasciamo. Da li si è sviluppato tutto il grande filone della psicoterapia corporea, delle sue tecniche e delle sue metodologie, di interventi che non fossero solo psicologici, solo verbali. – Molta strada è stata percorsa da allora. All’interno di questo vasto fermento di ricerche e sperimentazioni si è andato man mano delineando ed evidenziando un altro nuovo filone, una nuova frontiera della scienza, un modo complesso di leggere il funzionamento degli esseri umani e della loro interazione. La psicologia funzionale, muovendosi in questa direzione, si è man mano sviluppata tentando di affrontare il paradigma della complessità e di andare oltre le formulazioni e le ottiche tradizionali. Si trattava in effetti di una ipotesi iniziale di teoria complessiva del Sé, un primo tentativo di superare le limitazioni dei vari approcci cimici, verso la costruzione di una teoria integrata ed unitaria (ma non semplicistica della personalità e della psicoterapia). Si è iniziato con il superare concetti troppo generici e vaghi, come quelli di corpo e di mente, per arrivare a parlare, all’interno della ipotizzata unitarietà corpo-mente, di processi psicocorporei, scendendo dettagliatamente su tutte le funzioni che costituiscono il Sé: dai ricordi alla razionalità, dal simbolico alle fantasie, dalle posture ai movimenti, dalle emozioni alle forme del corpo, dal sistema neurovegetativo alle percezioni. La psicologia funzionale ritiene importante guardare alla persona nella sua unitarietà, e nello stesso tempo nella sua complessità, nella sua concretezza e pluralità di piani e livelli su cui operare. Si tratta di sviluppare un concetto di “olismo” che non sia vago ma estremamente ricco e circostanziato. Il Sé può essere definito funzionalmente come l‘organizzazione di tutti i piani psicocorporei, come l’insieme delle leggi che regolano l’interazione tra tutti i processi e i piani dell’organismo visto nella sua interezza e globalità. Ma il punto di vista funzionale (che in fondo si ricollega per certi aspetti al primo funzionalismo di Dewey e di James ancora sorprendentemente attuale) ha scoperto le sue grandi potenzialità nel potersi applicare con successo a molti ambiti, a tutti gli insiemi complessi e dinamici che costituiscono la realtà sociale: famiglie, gruppi, équipe, sistemi, e persino città.
L’evoluzione epistemologica
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a trasformazioni significative all’interno del mondo della scienza, dal modo di affrontare i problemi alle metodologie con cui si andavano studiando sistemi via via più complessi. Anche il mondo del pensiero comune non è stato esente da tali trasformazioni. E’ raro che oggi si pretenda che le scoperte scientifiche siano verità assolte:, si comincia a capire meglio che le cose si devono guardare con ottiche relativistiche, e i modelli teorici come ipotesi piuttosto che come realtà. Nelle scienze umane le cose sono ancora più delicate. Una conoscenza complessa e complessiva delle leggi che regolano il funzionamento psichico e fisico dell’uomo è ancora molto lontana dall’essere raggiunta: abbiamo invece, attualmente, una serie di modelli differenti sia in medicina che in psicologia. Certamente, il modo di vedere e leggere il funzionamento della persona si è anch’esso andato modificando nel tempo, sotto l’influenza dei cambiamenti epistemologici della scienza. Il positivismo settecentesco ha ceduto il passo a un’ottica relativistica, anche se successivamente il neopositivismo si è riaffacciato prepotentemente sulla scena. Per reazione, gran parte della psicologia è stata tutta tesa a separarsi dal modello medico puntando in modo esclusivo sulle sensazioni individuali, sui vissuti, sul soggettivismo. Le neuroscienze e la psicofarrnacologia, per contro, hanno continuato a sostenere un oggettivismo esasperato. Un’analoga contrapposizione è andata creandosi tra l’atteggiamento dei clinici rispetto a quello degli sperimentalisti all’interno della psicologia stessa.
L’ottica epistemologica si è andata comunque notevolmente evolvendo. Da una visione puramente strutturalista, che guarda prevalentemente alle entità e ai contenuti, si è passati ad un’attenzione crescente verso le modalità e l’organizzazione dei processi. Pensare in termini di strutture significava voler considerare reali e concreti elementi che spesso non sono materiali:, voleva dire continuare a spingere nella direzione dell’organicismo, anche se “psichico”; e infine giustificava la parcellizzazione dell’oggetto di studio perché ne venivano prese in considerazione le singole parti separatamente. E’ invece il concetto di olismo che si sta facendo strada, sostenuto dal bisogno di non tralasciare l’unitarietà del soggetto, di superare la frammentazione e le specializzazioni che finiscono con il perdere di vista gli elementi centrali del funzionamento degli esseri umani, della vita, della salute e del benessere. Ma era necessario poter arrivare ad un olismo che non restasse troppo sul vago e sul generico, e che avesse quindi le capacità di scendere nei dettagli profondi per poter avere capacità operative. Dunque, come tenere conto dell’unitarietà e al contempo non sfuggire allo studio della complessità? Come superare la dicotomia tra soggettivismo e oggettivismo? Come andare al di là del neopositivismo e non cadere però nell’irrazionalismo spinto per il quale alla fine niente si può studiare, capire e riprodurre?
Verso una nuova epistemologia
Anche i modelli basati sulla divisione in parti, nonostante siano più avanzati, oggi mostrano di non essere più completamente sufficienti per affrontare i nodi della dinamicità e della complessità. Una struttura complessa non può essere considerata come somma di parti definite: le parti rimandano a una suddivisione spaziale, territoriale, che non permette di capire il funzionamento dell’insieme Le parti devono essere invece sostituite da quel qualcosa che le collega, altrimenti si corre il rischio di perdere l’insieme e di cadere appunto nella parcellizzazione, uno dei mali della scienza passata. Una logica delle parti non riesce a includere al suo interno la visione dell‘organizzazione del sistema e le parti finiscono per venire considerate l’una in alternativa o addirittura in contrapposizione alle altre. Dunque siamo in pieno cammino verso nuove ottiche di tipo multidimensionale, verso modalità differenti di guardare la realtà complessa dell’uomo e delle sue interazioni sociali. In questo cammino, nel quale numerosi studiosi (citiamo per tutti Merlau-Ponty e Morin) hanno già iniziato a dare importanti contributi, si colloca questo Simposio: un momento di riflessione e di ripensamento ad un percorso iniziato diverso tempo fa. Sono passati 100 anni dalla nascita di Wilhelm Reich: qualcosa di significativo ha avuto origine con il suo pensiero proprio in questa direzione. Un qualcosa che, certo, ha avuto uno sviluppo successivo tino ad arrivare alla nuova frontiera del pensiero funzionale (con il suo contributo specifico sui temi della complessità), ma che ha pur sempre germogliato da quel primo pensiero fecondo.
La clinica
La terapia è stato il primo campo di applicazione di una visione che non poteva più escludere il corpo e l’interezza della persona Si comunica molto più con il corpo che con le parole. Ma il punto è che il corpo comunica profondamente non solo con gli altri ma anche e soprattutto con la persona stessa, inviandole un flusso continuo di sensazioni molto spesso inconsapevoli. Questo spiega la presenza di ansia, angoscia, rabbia o melanconia anche se non vi sono elementi esterni che giustifichino tali stati d’animo negativi, nè pensieri che vanno in questa direzione. Nel corpo, o meglio nelle varie funzioni psicocorporee, troviamo tracce attive di antiche vicende relazionali: desideri frustrati, slanci bloccati, paure non contenute, rabbie compresse. Tutto questo non è più un mistero. Oggi sappiamo che esiste una memoria periferica che conserva queste tracce sotto forma di alterazioni di funzioni psicocorporee: tono muscolare di base, soglie percettive, movimenti abitudinari e stereotipati, posture cristallizzate. Si spiegano così il permanere di vecchi meccanismi durante la crescita fino all’età adulta, il perché le persone finiscano per avere comportamenti ripetitivi non adeguati alla realtà esterna, come mai vecchi “fantasmi” continuino a prendere il sopravvento sulle sensazioni reali dell’oggi. Si crea come un filtro attraverso il quale la persona percepisce la realtà, un filtro che crea sempre la stessa coloritura e deforma sempre allo stesso modo. Il filtro è appunto l’organizzazione alterata di tutte le funzioni psicocorporee, la forma che queste hanno assunto nel tempo, ciò che definiamo il “Sé”: la globalità di una persona, qualcosa che va molto al di là della parte cosciente e volontaria. Possiamo dunque parlare di/unzioni psicocorporee: posture. modalità di movimenti, forma delle parti del corpo; ma anche attivazione fisiologica, apparati di regolazione interni (termoregolazione, neurovegetativo, e giù via via fino ai sistemi biologici più profondi legati alle cellule), percezioni, tono muscolare di base, senza trascurare i piani simbolici, quelli cognitivi, i ricordi, l’immaginazione, la progettualità; e infine tuta la gamma delle emozioni e dei sentimenti, quelli espressi, quelli soffocati, quelli trattenuti, quelli esasperati. Tutte queste funzioni concorrono in maniera paritetica all’organizzazione della personalità. La loro integrazione, lo sviluppo armonico delle une rispetto alle altre, la loro piena e ampia mobilità costituisce lo stato di salute e di benessere della persona. Il loro alterarsi, l’ipertrofia di alcune di esse a discapito di altre, la limitazione delle loro gamme, la mancanza di mobilità, le stereotipie costituiscono un’alterazione complessiva del Sé e uno stato di patologia che sfocia in sintomi e disturbi di vario tipo. E’ dunque Fintero organismo che si ammala. La conoscenza di tutto ciò aiuta a migliorare gli interventi curativi; permette di fare progetti calibrati esattamente sulla persona, di individuare le strade e i metodi più adatti a riequilibrare il Sé, a riconnettere tra di loro emozioni e movimenti, toni di voce adeguati, espressioni del viso congruenti, attivazioni fisiologiche più adatte, sensazioni corrispondenti. Le emozioni troppo sviluppate si ridimensionano. le fantasie angosciose si riconnettono con le dimensioni reali del pericolo, i ricordi si aprono anche su elementi positivi. I funzionamenti diventano morbidi e mobili, passando facilmente dalla rabbia alla tenerezza, dal dolore alla gioia, dall’agitazione alla calma, dalla concentrazione all’allentamento.
Altri campi applicativi
La possibilità di una mappatura precisa e allo stesso tempo globale, dettagliata ma unitaria, ci fa comprendere come il pensiero funzionale non sia solo una teoria clinica ma un modo di leggere la realtà in generale. Negli ultimi anni lo sviluppo delle sue applicazioni e delle sue implicazioni è stato vertiginoso. E’ bastato cominciare a guardare non solo all’organismo singolo e non solo al momento della cura. E’ stato allora possibile considerare l’entità famiglia, con le sue atmosfere, con i suoi movimenti, il contatto o la freddezza, le “posture” sclerotizzate o mobili, le chiusure o le aperture. Oppure analizzare il gruppo, con le sue molteplici funzioni psicocorporee, i movimenti agitati o calmi, le sue tendenze a razionalizzare o a lasciar correre, a esplodere o controllare. Esiste un “fisiologico” anche del gruppo: un “sistema respiratorio”, un “circolatorio”, un “vegetativo”, un “percettivo”. Recentemente si è passati ad analizzare organizzazioni ancora più complesse, quali può essere addirittura un’intera città, considerata anch’essa come un organismo vivente: caratterizzata da una “temperatura”, da “movimenti”, “circolazioni”, “immaginazioni”,con un proprio “simbolico”, una “memoria storica”, un “tessuto emotivo”. La differenza di un organismo da un sistema di parti è che l’organismo “vive”: ha emozioni, sistemi di regolazione complessi, molteplici finzioni interconnesse. Non ha senso scomporlo in parti o categorie. Altrimenti si rischia di ricadere nella logica della contrapposizione che non è dell’organismo sano. Non ha senso pensare che gli interessi dei commercianti siano opposti a quelli degli impiegati, che gli automobilisti debbano essere in guerra con i pedoni, che i liberi professionisti debbano star bene solo a discapito dei pubblici dipendenti. Quando l‘organismo-città sta male, sta male nella sua interezza e stanno male tutti i suoi abitanti. E non ha senso curare alcune componenti, alcune parti, così come non ha senso per una medicina olistica curare solo il fegato, la gola o l’intestino. Si deve ancora una volta, allora, andare sulle funzioni: sul traffico, sull’aspetto della città, sui sentimenti di appartenenza, sulla speranza, sul recupero della memoria storica e così via, e ricollegare tutto questo in un’unitarietà viva ed armonica.
Il risvolto sociale
Tutto ciò ci deve aiutare a comprendere che bisogna guardare all’intera società senza perdere di vista la vita profonda delle persone, come aveva indicato Reich. Non si può scollegare il benessere individuale da quello collettivo, non si può pensare che le ragioni dell’economia siano sempre più importanti, che viene sempre prima il discorso del lavoro, o del mezzogiorno, o dell’entrata nell’Europa Bisogna considerare anche i bisogni quotidiani delle persone, le loro emozioni, i desideri profondi, i bisogni di solidarietà, di vicinanza e di contatto; bisogna guardare alle persone, come stanno realmente. E soprattutto bisogna intervenire a cominciare dall’età in cui il malessere si struttura e in cui le personalità perdono le caratteristiche positive iniziali, si distorcono, smarriscono il senso della loro esistenza; e finiscono per non combattere più per la vita, per la solidarietà, per il rispetto degli altri, della natura e di se stessi. Dobbiamo evitare che personalità “infelici” e disilluse cerchino un palliativo all’angoscia e alla sofferenza nella droga (nelle varie droghe, non solo quelle chimiche), nel potere sfrenato, nella violenza, nella pedofilia, nell’impulso folle alla distruzione o all‘autodistruzione.
Dobbiamo agire, in fretta e in modo radicale, per salvare i nostri bambini e i nostri adolescenti; dobbiamo mettere in atto un’opera di prevenzione non sporadica ma capace di permeare tutta la società, capace di entusiasmare tutti, di collegare genitori ad operatori, società civile e istituzioni, scienza, professioni, e governanti. Se vogliamo far cessare il dramma di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi, che è poi il dramma della società tutta, dobbiamo pensare presto e bene alla prevenzione. E dobbiamo allora ripensare i processi di costruzìone dell’ identità dei nostri giovani senza più trascurare nessuna componente psicocorporea individuale né alcuna componente sociale, alfine di salvaguardare le ricchezze esistenti in partenza delle nuove generazioni, e le sensibilità specifiche del maschile e del femminile prima che si impoveriscano in ruoli stereotipati e sterili. Bisogna ridare il senso alla vita, ridare progettualità non solo all’esistenza individuale ma anche a quella collettiva: un significato di largo respiro basato sul rispetto, sul contatto, sull’amore, sulla tenerezza, componenti fondamentali per una pienezza di vita che non possiamo più trascurare e che invece le accelerazioni, gli sviluppi tecnologici, i modelli precostituiti imperanti nei mass media stano distruggendo. La salvaguardia della vita individuale e sociale è nella multidimensionalità, così come quella della vita biologica è nella biodiversità. Non si possono perdere lati fondamentali del vivere umano a favore di velocità, durezza, aggressività, indifferenza, egocentrismo, violenza. Il pensiero funzionale, la teoria della complessità ci possono aiutare a dare contenuti, modalità e direzioni precise al nostro agire Se riuscissimo ad avviare un progetto che restituisca all’infanzia e all’adolescenza gli aspetti che si stanno perdendo, avremo fatto un passo importante verso una svolta decisiva, verso un’umanizzazione completa della società, verso il nuovo millennio. E avremo fatto il più prezioso omaggio che si possa fare a Wilhelm Reich e a tutti coloro che, come lui, si sono sempre battuti, pagando duramente sulla propria pelle, a favore dell’infanzia e dei giovani, della salvaguardia dei loro bisogni fondamentali, per conservare in una società libera dalla “peste emozionale” i valori fondamentali della vita.