Luciano Rispoli psicoterapeuta: Esperienze di tirocinio.

in La Società Trasparente” – XIX Congresso degli Psicologi Italiani – Ed. SIPs, Bologna, 1981.

L. Rispoli e B. Andriello riportano un’esperienza di tirocinio nella Scuola di Specializzazione in Psicologia di Napoli. 

Ricollegandoci al dibattito sulla formazione dello psicologo e sul ruolo specifico che al riguardo possono attualmente svolgere le Scuole di Specializzazione, gli autori riportano l’ esperienza di tirocinio presso la Scuola di Specializzazione di Napoli, in un consultorio territoriale e in un intervento psicopedagogico con insegnanti di scuola materna. Il tirocinante viene inserito direttamente come operatore in strutture cliniche e territoriali e insieme in un gruppo di discussione-controllo formato da docenti a cui  è anche affidato il servizio in questione. Questo schema  è esso stesso una proposta di modello di intervento dello psicologo: permette una trasfusione continua tra conoscenze teoriche e aspetti operativi e favorisce la relazione psicologica con l’ utenza a partire dalla rielaborazione del proprio vissuto emotivo. Centrale è la funzione del  gruppo, sia per l’ analisi  dei meccanismi istituzionali, sia come sostegno e contenimento delle ansie, connesse al rapporto  tirocinante-utente e alla contraddittorietà tra agire ed apprendere.


B. Andriello

Nel processo di formazione dello psicologo, uno dei punti cruciali è la difficile integrazione tra conoscenze teoriche e approccio pratico, operativo. Indubbiamente lo formazione sul campo ha assunto credibilità e validità soprattutto per quel che concerne l’intervento dell’operatore all’interno di strutture e organizzazioni di tipo istituzionale; ma essa rappresenta il problema dei tempi e delle modalità con cui deve essere attuata. Nel lavoro dello psicologo sono fondamentali, di qualunque tipo sia il suo intervento, gli aspetti che concernono la relazione con l’utente; in altre parole quella complessa serie di elementi e di vissuti definiti dalla psicoanalisi “transfert” e “controtransfert”. E’ quindi impensabile, a parer nostro, che la formazione si rossa ridurre nei termini di un nero apprendistato da. svolgersi colo dopo il corso di studi universitari. E’ necessario, invece, che venga dato uno spazio specifico al “tirocinio”, nel senso di favorire l’acquisizione delle capacità di usare anche se stessi ad contatto con persone e istituzioni, e di realizzare “un’attitudine interna basata sulla sospensione dei giudizio, sulla capacità di ascolto dell’altro”. Un aspetto importante è indubbiamente quello sottolineato da G.F. Minguzzi nel dibattito sulla formazione: compito dello psicologo clinico, per combattere l’emarginazione sociale, sarebbe dimostrare coi fatti che è possibile sopportare l’ansia provocata da un certo comportamento aberrante rispetto a precise norme socio-culturali. Ciò nonostante non pensiamo che il compito di formazione possa esaurirsi nella messa in discussione delle conoscenze tecniche, e nella conseguente collusione con la situazione in cui lo psicologo interviene. Per chiarire il nostro punto di vista, ci riferiamo qui all’esperienza di tirocinio da noi svolto presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia dell’Università di Napoli, nell’ambito di un consultorio territoriale. I criteri di formazione sul campo che qui sono stati realizzati individuano uno schema che è esso stesso una proposizione di modello di intervento per lo psicologo. Il tirocinante è inserito operativamente nell’attività clinico-territoriale del Centro di Salute Mentale pur restando comune all’esterno dell’istituzione. Al tempo stesso, però, partecipa ad un gruppo di discussione-controllo, formato anche da docenti che sono operatori del servizio in questione, venendo così ad assumere una posizione contemporaneamente “interna” ed “esterna” sia alla struttura didattica, sia all’attività clinica.

Questo permette, prefigurando situazioni tipiche del lavoro dello psicologo, di sperimentare identificazione e distanziamento, non solo col materiale oggetto di discussione, ma anche col proprio vissuto emotivo. In altre parole, vivere la contraddittorietà tra l’agire e l’accogliere, l’esprimere soluzioni e il sentire, permette di capire e accettare l’ambiguità di un ruolo investito, anche se inconsapevolmente, di forti aspettative e pressanti richieste terapeutiche. Poter sperimentare questa posizione, in un certo senso “al limite”, tra l’essere all’ interno e all’esterno della struttura clinico-territoriale e dell’ organizzazione universitaria del tirocinio, consente ai tirocinanti di modulare tempi e modalità della propria partecipazione e della propria progressiva inclusione. Fattore essenziale al realizzarsi di questa modularità è l’ apporto del gruppo di discussione-controllo. Esso ha avuto come funzione di fondo quella di sostegno e di contenimento delle ansie e dei disorientamenti connessi all’impatto dei tirocinanti con l’attività clinica: il senso di estraneità rispetto alla struttura operativa già organizzata, il peso della responsabilità dei casi trattati, la difficoltà di districarsi dalle risonanze emotive dei conflitti psichici dei soggetti osservati. Infatti, al di là dell’apporto teorico, riferito al contenuto del materiale oggetto di discussione, il gruppo struttura uno spazio che, per il fatto stesso di esistere e di poter accogliere il resoconto delle esperienze o qualunque problema insorga, costituisce un punto di riferimento costante. Ciò equivale in fondo ad assumere quasi il ruolo di “terza persona reale” nella delicata relazione tirocinante-utente, vale a dire un momento in cui l’intersecarsi e il frammentarsi delle esperienze acquista una sua possibilità di rielaborazione e riorganizzazione nella struttura dell’Io. E’così possibile quasi individuare delle fasi progressive nello svolgersi dell’attività di tirocinio. In un primo momento ci si imbatte in una resistenza ad accettare la metodologia dell’ osservazione o la particolare attitudine necessaria al colloquio clinico, cioè, in fondo, a sperimentare una dimensione di accogliere più che intervenire attivamente, quasi a risolvere magicamente i problemi incontrati. L’analisi a volte esageratamente dettagliata delle sequenze di un’osservazione o di un caso, nelle discussioni di gruppo, la proposizione di continui e diversi modelli interpretativi, possono essere percepite come una espropriazione dell’esperienza vissuta dal tirocinante in prima persona, rispetto alla quale qualsiasi verbalizzazione appare inadeguata. D’altra parte  l’instaurarsi di questa situazione psicologica di destrutturazione fa prendere coscienza che schemi logici precostituiti e giudizi preconcetti sono strumenti utili da inquadrare la complessità di fenomeni reali, dove non sono possibili soluzioni definitive ed assolute. Il discutere il protocollo di osservazione o l’andamento dei casi, più che il comportamento e l’operato del tirocinante, fornisce un elemento essenziale allo strutturarsi di uno spazio di distanza e mediazione con il gruppo di supervisione. Ciò permette a ciascuno di mettersi in discussione in prima persona, ma anche, quando è necessario, di ritirarsi dentro di sé e percepire differenze e separazioni dagli altri, utilizzando la discussione dei casi come area intermedia tra le realtà soggettive dei vari partecipanti al gruppo e come elemento di comunicazione-separazione. A parer nostro è possibile solo così sperimentare dall’interno, con un risvolto positivo, il venir meno dell’illusione di onnipotenza, così spesso socialmente collegata alla professione dello psicologo. E non nel senso della delusione degli “apprendisti stregoni” come afferma Minguzzi, ipotizzando che solo sul piano dello scontro di classe può essere demistificato il ruolo dello psicologo. In realtà è anche sul piano specifico della formazione che va ricondotta la percezione e l’accettazione dei limiti del proprio intervento e del contesto socio-politico in cui coso si colloca. Cogliere questi limiti e la relatività degli schemi di intervento, a partire dal proprio mondo interno e dalle proprie contraddizioni, costituisce uno strumento indispensabile per amplia re le possibilità di comprensione della realtà psicologica. Utilizzando gli stessi aspetti emotivi dello psicologo cose strumento di lavoro, è possibile affrontare in maniera diretta il problema della trasfusione attiva e continua tra conoscenze teoriche e momento applicativo, tra condizioni oggettive e implicazioni soggettive, non più vissute in termini di negazioni o di pericolose scissioni di parti del sé.