Luciano Rispoli psicologo: Concezione modulare della verifica in psicoterapia.

in “Il laboratorio e la città” – XXI Congresso SIPs – Ed. Guarini e Ass., Milano, 1988. 

Una concezione attuale di verifica in psicoterapia deve potere originarsi nella struttura stessa del modello clinico, ma con la possibilità di essere utilizzata non soltanto all’interno della singola relazione terapeutica e della soggettività dei suoi protagonisti. 


Il problema della verifica dei risultati si pone oggi come elemento su cui va incentrandosi il dibattito della “scientificità” (Battacchi 1986, Lo Verso 1989) in psicoterapia. Sembra oramai largamente condiviso il punto di vista che considera la relazione come concetto fondante ed unificante, come oggetto principale della metodologia clinica, in un modello della complessità che tenga conto sia delle descrizioni dei fenomeni sia dell’analisi relativa allo stesso campo relazionale dal quale le osservazioni sono originate. Purtuttavia l’esistenza dell’oggetto, al di fuori della soggettività e del campo (per quanto complesso) costituito dalla relazione terapeutica unita ad una imprescindibile necessità di riconnettersi più profondamente alle ricerche e ai metodi di psicologia generale, ci spingono ad una definizione operativa e più concreta di “verifica”, in altri termini ad una condizione di ripetibilità e generalità di fenomeni e processi anche in campo clinico.

Il problema principale non è tanto nello sforzo “matematico” di individuare tutte le variabili messe in gioco in una relazione terapeutica, né quello di appiattire a tutti i costi le peculiarità del metodo clinico sulla dimensione (a lui incommensurabile) delle misurazioni quantitative. Questione centrale diviene invece quella di individuare quali elementi, nei processi intersoggettivi, possano essere considerati ripetibili, costanti, comunicabili scientificamente.

In ogni processo terapeutico esistono una serie di interazioni che in un determinato momento possono essere rilevate da chiunque sia lì ad osservare, o sia comunque al posto del terapeuta. Riconoscere queste interazioni, interpretarle secondo una teoria ed un modello operativo, agire in sintonia con il dispositivo di cura del particolare approccio, costituisce poi il compito peculiare del terapeuta, cioè di chi ha avuto una specifica formazione in tal senso. Anche in altre discipline scientifiche, del resto, va sempre più ponendosi la consapevolezza che esistono, al di là del piano galileiano della costanza, dell’astrattezza, delle leggi generali, storie singolari che mutano in ciascuna situazione e in ciascun esperimento. Potremmo allora dire che l’irripetibile è sicuramente il tessuto di ogni vicenda relazionale, ma che in tutte le vicende esistono e si ritrovano elementi costanti, se la psicoterapia procede verso gli obbiettivi che si era posti, se le cose “procedono” e si avviano verso le conclusioni previste da ciascun modello terapeutico. Sembra dunque possibile individuare due diversi piani anche in psicologia clinica. Il piano dell’unicità di ogni storia, di ogni paziente o gruppo, di ogni singola processualità di relazione, della differenza di esperienze di vita e formazione da terapeuta a terapeuta, che potrebbe in certo senso essere definito quello della narrazione storica. Un criterio di verifica va invece posto sul piano della comunicabilità e della ripetibilità, cogliendo dei processi quegli elementi che hanno tale caratteristica; cioè su di un piano che possiamo chiamare della narrazione scientifica. Indubbiamente il passaggio tra i due piani, anche se non separati ma profondamente interconnessi, pone un’altra serie di problemi delicati e difficili, che sono forse tra le cause principali di un protrarsi travagliato della dicotomia tra scienze umane e scienze esatte. La scientificità in psicoterapia non è dunque da cogliere in rapporti strettamente causalistici che legano l’agire e il dire di ciascun polo a ciò che accade nell’intero campo relazionale. Non ci sono leggi che pongano in equazioni esatte il comportamento degli altri al proprio agire, alla sequenza di frasi, suoni, gesti, indubbiamente idiosincratici e infinitamente variabili. La costanza è da ricercare piuttosto nelle fasi che scandiscono le vicende terapeutiche, sul piano delle condizioni generali che contraddistinguono e connotano la relazione in determinati momenti. Non è importante che la fase sia costantemente stabile né che sia nettamente definita in senso cronologico, perché questi sono ancora elementi che appartengono al piano della narrazione storica. È però possibile cogliere gruppi di sedute nelle quali è preponderante una determinata modalità di relazione che caratterizza la fase in questione. Dunque la fase non ha limiti temporali, non è una struttura costante, ma è comunque uno strumento che caratterizza e che “misura”, sebbene non in senso quantitativo, gli andamenti del processo terapeutico. Non c’è relazione clinica nella quale non si possa notare un momento iniziale di vissuto emotivamente molto intenso; un periodo di opposizione dura e negativa contro il terapeuta; una fase di profonda regressione; una nuova e in descrivibile sensazione di comprensione e vicinanza reciproche; uno stupore nello scoprirsi come persone più piene e reali; una gioia-dolore insita in un senso inarrestabile di esser giunti al momento della separazione. Questi momenti, eventi o stati d’animo hanno necessità di essere sistematizzati in formulazioni di carattere generale, valide ad una verifica sistematica e continuativa. Ma per farlo occorre che siano posti nell’asse teoria-modello (Lo Verso 1987), cioè che siano specificati all’interno delle strutture e procedure metodologiche di ogni singolo approccio.

Da queste basi di partenza è possibile ipotizzare criteri di validazione e di verifica che si inscrivano nel “processo psicoterapeutico” in genere, andando oltre la singola esperienza e il particolare modello clinico. Una ipotesi siffatta rimanda ad una concezione che possiamo definire “modulare” della verifica in psicoterapia, una concezione cioè che segue passo passo l’evoluzione del processo. Essa riconosce cambiamenti e modifiche come moduli di un continuum che, proprio perché ricondotto a livelli evolutivi, può essere in certo senso misurato e verificato. La verifica modulare, quindi, si pone come criterio interno allo stesso processo; non rigetta la teoria della complessità né le condizioni specifiche dell’intervento psico-clinico, dell’intersoggettività e della particolarità di una relazione oggetto di studio della relazione. Eppure può essere adoperata anche “dall’esterno” del processo perché, al di là della narrazione storica, idiosincratica, le strutture modulari e le fasi possono essere lette in senso per così dire obbiettivo; possono essere colte, nella loro generale ripetitività, da qualsiasi “sperimentatore” in qualsiasi condizione relazionale definibile nell’ambito “delle psicoterapie”. Potremmo azzardare che una tale ipotesi di verifica modulare si possa porre come strumento potenziale di discriminazione tra psicoterapia e semplice movimento manipolatorio; oltre che come verifica dei risultati a distanza, per uno studio analitico del follow up. Proviamo a partire dunque dalle teoresi scientifiche che sorreggono quel particolare approccio clinico che è la psicoterapia corporea (definita da Reich sin dagli anni ’20 col nome suggestivo di Vegetoterapia carattero-analitica), tramite il modello ultimamente ridefinito del Sé corporeo (Rispoli 1985; Rispoli e Andriello 1987). Possiamo notare che uno degli specifici che connota la psicoterapia corporea rispetto ad altre psicoterapie riguarda ciò che viene colto nel rapporto tra analista-paziente-gruppo. È come se ci si ponesse in alto per spostare la visuale oltre il confine tradizionale psichico-non psichico, guardando al contempo su tutti e due i versanti. Stiamo parlando di ciò che viene definito normalmente come visibile oppure invisibile dalla psicologia. Questi confini possono dunque modificarsi al modificarsi del punto di vista. L’invisibile, l’inconscio o il preconscio sono comunque in un determinato setting avvertiti nella loro esistenza da segni visibili che li traducono alla nostra capacità di coglierli. Il delicato problema del rapporto tra segni e inferenze viene messo particolarmente in luce da un approccio che investe, per ipotesi di base, aspetti e funzioni del Sé corporeo, differenti da quelli messi in gioco dalle terapie solo verbali. La tesi principale è che se un’emozione, una fissazione o una regressione non compaiono su uno dei piani o delle funzioni di cui è composto il Sé corporeo, saranno comunque visibili su di un altro piano. Il segno principale su cui lavorare diventa dunque la presenza di scissioni e incongruenze tra un piano funzionale e l’altro, o anche all’interno del singolo piano. Quello che risulta evidente anche all’osservatore esterno è la discrepanza tra due o più differenti livelli di comunicazione; anche se poi tale discrepanza non viene normalmente colta da chi non abbia una formazione adatta, capace di mettere in continua analisi ciò che sta succedendo dentro se stesso come strumento di lettura del campo relazionale. Ma gli elementi che compongono tale campo possono (come si è verificato attraverso il sussidio di mezzi audiovisivi) essere confermati da qualunque osservatore (a meno che non abbia una particolare rigidità nel cogliere e connettere ciò che percepisce visivamente). Numerosi sono gli elementi che concorrono all’individuazione delle discrepanze e delle fasi modulari della verifica. Una loro idea può essere data dalla proposta di griglia recentemente avanzata come lettura dei fenomeni complessi della comunicazione (Rispoli e Andriello 1987).

Vediamo di cogliere alcuni di questi elementi, almeno i principali:

1) Il tratto caratteriale come messaggio ripetitivo e pervasivo di tutto l’organismo al mondo circostante.

2) Il mondo simbolico-onirico del paziente.

3) Ciò che questi riesce a cogliere e sentire sia di fisico che di emotivo al suo interno.

4) La modalità del linguaggio (scelta di parole, sequenze, ecc.) del paziente.

5) Ciò che il terapeuta può vedere di movimenti, posture e struttura somatica del paziente.

6) Le fantasie e i pensieri del terapeuta.

7) Le sue percezioni cenestesiche e le sue emozioni.

8) La storia e l’andamento dei sintomi psichici e fisici (specie in relazione a vecchi sintomi).

Tutti questi elementi nelle loro sconnessioni o interconnessioni concorrono alla formulazione generale ed ampia del concetto e del criterio di mobilità. L’individuo mostra nella relazione col gruppo o con l’altro una prevalenza di espressioni fisiche, verbali, emotive come limitazioni ben definibili di mobilità, di scelta di strategie, di scambio emotivo-affettivo. Le limitazioni di mobilità si rendono visibili attraverso incongruenze e discrepanze e rendono a loro volta visibili i conflitti relazionali. O, per chiarire meglio, rendono visibile la storia delle espressioni emotive dell’individuo, la costellazione delle strutture difensive (ma limitanti) collocate in più parti della complessa polifunzionalità del Sé corporeo. Questa limitazione di mobilità attraversa sincronicamente aspetti percettivi, motori, cognitivi, caratteriali, emotivi, assurgendo a criterio di verifica di tipo connettivo, olistico. La mobilità, come elemento di indagine unificata, si articola poi in una nuova ricomplessificazione e in un nuovo ridecentramento, che continuano perciò a conservare un senso generale che evita il pericolo di un’osservazione caotica e casuale di migliaia di gesti, segni, parole, posture, movimenti. Possiamo scendere nel micro e nel parziale (senza così perderci nell’infinità di variabili) per cogliere lo stato attuale (man mano al procedere della psicoterapia) delle varie ampiezze dimensionali. Possiamo vedere per ciascuna dimensione quale è la gamma realmente ricoperta nel campo comunicazionale dell’individuo (paziente, gruppo, terapeuta). Ogni singola dimensione è presente poi nei processi motori e percettivi; logici e ideativi; affettivi e simbolici; di movimento e di postura, e così via. Attraverso la modifica delle ampiezze dimensionali è possibile leggere, tramite un originale punto di vista, storia e fasi della relazione psicoterapica e ritrovare quella modularità di cui abbiamo parlato inizialmente.

Altri punti di vista nel modello corporeo-caratteriale, capaci di rilevare fasi e processi più generali, possono essere considerati:

– La modificazione del tratto caratteriale.

– L’alleanza del terapeuta con parti del Sé corporeo del paziente.

– Il rapporto tra falso Sé e nucleo del Sé corporeo.

– Il livello di regressione psicosomatica.

– L’equilibrio costruzione-ricostruzione in terapia.

Pur non avendo ancora verificato a sufficienza l’interrelazione tra questi differenti elementi diagnostici e interpretativi del livello della relazione, proviamo a fornire una ipotesi più concreta ed operativa. Le fasi e i processi che potremmo allora ipotizzare potrebbero essere suddivise a seconda di differenti criteri. Ciascun criterio usa più punti di vista intersecati.

CRITERIO DEL TRATTO CARATTERIALE

1) Appoggio al tratto caratteriale. Viene accolto e riconosciuto l’altro, in tutte le sue “accezioni stereotipate”, di “non esistenza reale”, di falso Sé.

2) Appoggio alle motivazioni e ai bisogni profondi che sottostanno al tratto caratteriale e che non sono stati quasi mai accettati ed espressi dal paziente. Uso del “Sé ausiliario”.

3) Analisi delle conseguenze del tratto caratteriale nella vita di relazione del paziente.

4) Contrasto aperto al tratto caratteriale e alleanza con i nuclei e le funzioni più integrate del Sé.

CRITERIO DELLA REGRESSIONE E DELL’INTEGRAZIONE

1) Regressione iniziale e condensazione affettiva della prima situazione transferale.

2) Regressione psicosomatica profonda.

3) Accessi alle aree di integrazione ancora esistenti e riconoscimento consolidante delle stesse.

4) Estensione dell’integrazione a funzioni o parti di funzioni limitrofe alle sconnessioni più profonde.

CRITERIO DEL TRANSFERT E DEL RAPPORTO AFFETTIVO

1) Incontro iniziale. Prevalenza del falso Sé. Prima diffidenza.

2) Rafforzamento del transfert positivo iniziale e superamento della prima diffidenza e critica. Primo incontro affettivo profondo.

3) Espressione e analisi del secondo transfert negativo profondo.

4) Affidamento.

5) Movimento empatico e profondo.

6) Elaborazione del transfert positivo.

 CRITERIO DELLA RELAZIONE

1) Relazione vissuta indirettamente tramite l’esterno

2) Centratura sulla relazione con il terapeuta

3) Interesse e spostamento affettivo sulla realtà esterna

CRITERIO DEL SINTOMO

1) Angoscia del sintomo e sintomi offerti

2) Miglioramento dei sintomi (dopo un peggioramento) 2 volte

3) Riedizione di vecchi sintomi. Riappropriazione del Sé.

4) Alternanza tratti-sintomi. Sintomatologia funzionale originaria

5) Padronanza, addolcimento e mobilità dei sintomi

CRITERIO DELLE EMOZIONI DEL TERAPEUTA

1) Uso controtransferale dell’emozione

2) Uso operativo

3) Espressione diretta

 CRITERIO PERCETTIVO

1) Vissuto genitoriale. Uso del Sé ausiliario del terapeuta.

2) Vissuto genitoriale modificato.

3) Percezione della “persona” del terapeuta.

4) Fase collaborativi. Aumento delle mobilità e delle ampiezze dimensionali. 

Naturalmente ciascun criterio ha necessità di interagire con gli altri, così come ciascuna fase ha numerose sfumature che sono caratteristiche anche delle altre. Ma i criteri hanno anche il merito di suggerire altre possibili ipotesi di elementi generali relativi allo sviluppo e alla modificazione nei processi di psicoterapia. Questi infatti da una parte si riconnettono al fondamentale problema della diagnosi, dall’altra aprono la strada alla analisi dei risultati, a breve e medio termine, verso una formulazione di strandards validi, data la modularità e la molteplicità di angolazioni ed ottiche, anche in settings e in istituzioni differenti da quelli da cui sono nati.

ABSTRACT

Una concezione attuale di verifica in psicoterapia deve potere originarsi nella struttura stessa del modello clinico, ma con la possibilità di essere utilizzata non soltanto all’interno della singola relazione terapeutica e della soggettività dei suoi protagonisti. La verifica può allora assumere un aspetto di “modulazione” dell’intero processo terapeutico, ed individuare fasi e condizioni suscettibili di generalizzazione; non più assimilabili a un meccanicistico ‘scarto” rispetto a un livello ideale di salute psichica, ma neppure negate in nome dell’irripetibilità della vicenda terapeutica. Gli aspetti idiosincratici e soggettivi della relazione andrebbero infatti collocati, per una piena acquisizione di senso, su un piano che potremmo definire della narrazione storica, diverso da quello della verifica, che, pur incentrandosi su modelli clinici relazionali e intersoggettivi, può essere letta piuttosto nell’ambito della narrazione scientifica.  Tale concezione ‘modulare”, se formulata a partire dalla Teoria del Sé Corporeo e dalla Tecnica della Vegetoterapia, va riferita alla presenza di discrepanze e incongruenze tra diversi processi funzionali e relazionali della persona, rilevabili in modo significativo con caratteristiche differenti in differenti stadi dell’andamento terapeutico. 

Ne deriva un criterio di mobilità, che si articola e si ricomplessifica in una successiva analisi delle ampiezze dimensionali. Ciascuna di queste dimensioni, cioè, calata nei singoli processi motori, percettivi, emozionali, cognitivi, ideativi concorre a delineare un quadro complesso in cui verifiche di ipotesi e verifiche di risultati rappresentano un continuum inscindibile, utilizzabile tra l’altro, data la modularità e la molteplicità di angolazioni ed ottiche varie, in settings e in istituzioni differenti.