Luciano Rispoli psicoterapeuta: Il solletico.

in F. Fasolo “Grottesche” – Ed. Librerie Cortina, Padova 1991.

Luciano Rispoli, psicoterapeuta Funzionale, propone la stesura di un caso clinico: Margherita. La tristezza e l’insofferenza della ragazza si sciolgono all’interno di una relazione empatica con il proprio terapeuta, relazione che permetterà alla paziente di gioire nuovamente della vita.


La seduta si apre con un ennesimo sogno che Margherita mi racconta. È prolifica di questi squarci che si aprono sul suo mondo profondo, sul suo Sé più interno; ed i sogni in effetti scandiscono sempre le tappe più importanti del suo viaggio terapeutico.

“Al piano sopra al mio abitava una ragazza. Sembrava Jodie Foster in ‘Violenza carnale’. Dei teppisti vogliono salire su e io so che hanno intenzione di violentarla. Sono fortemente angosciata e impaurita, ma mi faccio coraggio ed entro sul pianerottolo per fermarli e trattenerli. Loro sono vestiti con giubbotti neri e borchie metalliche. Cerco di guadagnare tempo aspettando che intervenga mio padre. Mi accorgo però che in fondo non ho paura; come mai? Beh, certo – mi dico – la ragazza di sopra non ha un padre che la difenda come me. Impazienti i teppisti entrano in casa e parlano con mio padre. Lui è calmo, quasi non sembra preoccuparsi o importarsene gran che. Dopo, mi dice che non c’è motivo di allarmarsi, che è un gioco, una messa in scena; che io non so come stanno veramente le cose e che la ragazza di sopra è anche lei nel gioco. ‘Lascia andare’ mi dice. Sono comunque ancora perplessa. Loro si avviano al piano di sopra e io voglio uscire di casa subito, per non sentire le urla che la ragazza farà. Ora vicino a me c’è Gigi, che come al solito è pigro e non vuole uscire, sta dormendo. Cerco di convincerlo, lo supplico, poi lo tiro per i piedi dicendogli di far presto perché io devo uscire immediatamente. Lui si alza, ma è lento, si veste piano: i pantaloni, poi le scarpe. Io gli do fretta, lo sospingo letteralmente fuori di casa per far presto; usciamo sul pianerottolo. Mi accorgo che in effetti niente è successo al piano di sopra. Anzi, fuori ci sei tu, seduto su un gradito, che cerchi di mettere ordine in una confusa riunione di condominio. A volte la tua voce è decisa, a volte più calma e serena. Parli, scrivi, e sistemi tutte le controversie. Mi guardi e mi sorridi. Io posso uscirmene. La scena cambia; c’è un bambino di un anno, tenero e bellino. Viene verso di me, cammina un po’ traballando e allunga le braccine. Io lo prendo e me lo tengo teneramente abbracciato.”

Durante il racconto Margherita è rimasta sdraiata su un fianco (sul lettino del mio studio); la schiena in- curvata mi colpisce per un atteggiamento di forza compressa, di arco flesso e trattenuto. Ma al contempo tutta la posizione del suo corpo è un rannicchiarsi, quasi ad offrire la schiena perché sia accolta e raccolta, tutta in braccio, come una bambina piccola. Io sto seduto su una poltroncina di fianco allettino più o meno all’altezza del suo viso. Sento nella mia schiena una certa stanchezza. Ho mantenuto una posizione ferma sulla poltroncina nell’ascoltare il racconto del sogno, tutto d’un fiato. Ora finalmente stendo le gambe, mi sistemo meglio, ammorbidisco le spalle e guardo ancora Margherita. Ha appoggiato anche la testa, prima mantenuta dalla mano, sul lettino; il naso le si è otturato e respira male, un po’ affannosamente. La bocca è troppo stretta e sottile e la voce le esce leggermente gutturale, chiusa nella gola, come a trattenere qualcosa. La riprova di questa mia impressione di forte conflittualità interna mi sembra di coglie ria negli occhi che non riescono a rivolgersi su di me, e nelle palpebre che sbattono con esagerata frequenza. Risento ancora la mia schiena e le mie spalle, e mi pare di avvertire un’antica stanchezza, una voglia enorme di appoggiarmi, di essere preso, di potere affidarmi e abbandonarmi. Mi sento molto vicino ai sentimenti di Margherita, alla sua dolorosa storia di lotte e di opposizione in famiglia (unico modo in cui è potuta sopravvivere), con la necessità di farsi sempre forza, di dover mantenere accesa la rabbia e il risentimento per non crollare. Per ora l’ascolto. Mi sta parlando del sogno, di quello che ne ha pensato e della violenza che vi compare, e che era affiorata anche in altri precedenti e recenti sogni. La cosa la colpisce perché nella sua vita ritiene che la rabbia l’abbia sempre tirata fuori. Non pensava che sotto ci fosse ancora tanta angoscia per la violenza. Le faccio notare cosa deve essere stato per quella bambina piccola che lei era, sopportare e contrastare giorno per giorno la rabbia e l’ostilità della madre. La violenza più micidiale non è stata quella che ha dovuto subire, o le botte e le cinghiate che la madre le infliggeva; ma piuttosto l’essersi dovuta indurire per fronteggiare l’ostilità. E stata la violenza di Margherita, quella che una parte ha esercitato nei confronti di un’altra parte di se stessa. La violenza sottile connessa al profondo senso di aver sopportato continue ingiustizie.
Nel dire queste cose la mia voce è piena di emozioni, come se stesse richiamando i sentimenti profondi espressi dal sogno e li stesse rendendo ancora più chiari ed espliciti.
Margherita finalmente comincia a guardarmi negli occhi, mi ascolta, rivive il periodo della sua infanzia. Mi parla di quella sofferenza così devastante che provava proprio nel farsi forza, nell’alzare barriere, nel diventare insensibile (apparentemente) al disprezzo e alle ingiustizie continue e stressanti. Nel sogno ritorna anche il profondo bisogno di protezione da parte del padre, con la necessità che ci sia finalmente qualcun altro che sappia più cose e capisca, e consigli sul da farsi. L’inerzia di Gigi è la propria vecchia inerzia ad andare a verificare, ad andare a constatare cosa è quella violenza, oggi, nella realtà. Ma è anche vecchia la sua frenetica voglia di muoversi, di andare a far gite, viaggi, visite, per “allontanarsi”. Sto pensando tutto questo e lo sto immagazzinando. Per ora però mi soffermo di più sulla figura del padre e sulla mia. Margherita infatti coglie da sola il passaggio dalla prima parte del sogno, con l’angoscia della violenza e con il desiderio di protezione paterna (che ritorna forte ma pieno di perplessità), alla seconda, dove può verificare che niente è successo, dove c’è serenità e un buon rapporto con la figura maschile, e dove mi vede (lei dice) come una persona che dirime le controversie al suo interno, che scrive e che capisce ciò che succede (io scrivo sempre sull’agenda durante la seduta), che mette a posto, anche tra i diversi “piani” del suo corpo (gli inquilini dei vari piani del palazzo). Io non posso fare a meno di ricordare che in una seduta precedente mi ha raccontato con grande dolore di suo padre, nel quale credeva e sperava tantissimo, come unico appoggio e salvezza contro la madre. In realtà l’appoggio era sempre stato molto tiepido, quasi un non immischiarsi. Anzi, il crollo totale delle sue speranze era avvenuto un giorno che (ancora alle elementari) Margherita aveva risposto male alla madre, aveva osato insultarla! La madre si era infuriata più del solito, ed era andata a urlare e lamentarsi con il padre di come Margherita avesse superato ogni limite. Il padre aveva abbandonato la sua tiepida neutralità, si era arrabbiato a sua volta moltissimo con Margherita e l’aveva picchiata furiosamente inseguendola per tutta la casa. Perché sogna della violenza? – io continuo a chiedermi – e cos’è stato in realtà il suo arrabbiarsi? Forse solo un profondo senso di ingiustizia, una collera infinita e amareggiata, un alzare muri e barriere. La famiglia non sa niente della vita attuale di Margherita che pure abita ancora in casa con loro. Per lei è del tutto assurdo anche il solo pensiero di parlare o spiegare qualcosa di sé stessa a loro. La sua rabbia non è mai stata veramente aperta, con contatto emotivo, efficace, capace di cambiare le cose intorno a sé. Ha avuto sempre le caratteristiche di un dolore cupo e chiuso, esplosivo, fatto anche di urla e di scatti, ma totalmente impotente. Anzi, è stata in fondo la prima causa del suo malessere, della sua incapacità a trovarsi un lavoro, un uomo, una famiglia, che le piacessero (come desiderava così intensamente) facendola sentire ogni giorno più depressa e avvilita, tanto da spingerla alla terapia. Le dico di stendersi sul lettino, a pancia sotto; e le comincio a praticare un massaggio profondo sulla schiena. Nella schiena sono stratificate moltissime antiche sensazioni, e in particolare il senso di essere “tenuti” e di potersi appoggiare, la protezione, il sostegno tenero e profondo; ma anche la rabbia, la ribellione, lo scrollarsi di dosso l’oppressione.  Il massaggio è fatto con la mano piena, che sposta lentamente ma con forza le masse muscolari delle spalle, dell’attaccatura del collo e via via più giù, ai fianchi della colonna vertebrale, fino al coccige e al bacino. Questo tipo di massaggio permette a Margherita di “lasciarsi andare”, proprio là dove sta ancora“mantenendo”. Margherita comincia a respirare in modo più profondo, giù nella pancia (effetto del lavoro di reintegrazione del respiro diaframmatico finora svolto), e ad entrare perciò in contatto più pieno con le proprie sensazioni. Le escono dei lamenti sottili, dei mugolii, facilitati dal fatto che io faccio più pressione durante la fase dell’espirazione, per aiutarla a svuotarsi dall’aria, fisiologicamente, senza sforzo. Questi lamenti, questi suoni sono una reazione che le insorge da un po’ di sedute a questa parte, sempre più chiara e più intensa. Me l’ha descritta come un misto di tristezza e di insofferenza, di voglia di scatenarsi e urlare. In realtà Margherita, nonostante abbia sempre creduto di essere una persona che si arrabbia e grida molto, è fortemente controllata e compressa; esplode di tanto in tanto, ma solo quando proprio non ce la fa più. Il massaggio è lungo e intenso e le mani danno un tipo di pressione nei vari punti della schiena volto a dare una sorta di “rifornimento affettivo”, una piacevole sensazione di poter smuovere muscoli da troppo tempo immobili e intorpiditi. Perciò il tocco non è leggero e mieloso, né frenetico né intermittente; ed è fatto a mano piena, calmo e profondo. I lamenti ora si fanno più forti e vanno verso una tonalità più acuta; numerosi sono i sussulti che scuotono di tanto in tanto la schiena e il corpo della paziente. Questo tipo di esperienza, che io chiamo di “regressione psicosomatica”, apre la strada verso zone molto profonde del Sé, dove è possibile arrivare a toccare i bisogni che sono al di sotto delle stereotipie caratteriali e dei comportamenti reattivi di superficie. In questi strati, appare più evidente che la tenerezza e la necessità di essere accolti e protetti sono in Margherita ancora troppo mescolati con sentimenti di stizza e rabbia rancorosa. Su tutto aleggia una tristezza, anch’essa chiusa e un po’ disperata. La tristezza è una recente conquista di Margherita che ha cominciato a lasciare un po’ della sua ostilità furiosa. La tristezza è un sentimento estremamente positivo, poiché rappresenta comunque un pensiero e una capacità di provare tenerezza, rivolti a sé stessi. A questo punto decido di far uscire più allo scoperto la sua parte oppositiva e arrabbiata e di utilizzare per questo ancora la schiena, al fine di dipanare maggiormente quel coacervo di sensazioni ed emozioni che vi si sono stratificate. Mi appoggio con le braccia e le mani sul collo e sulla parte alta del dorso di Margherita e le chiedo di descrivermi cosa prova. Dopo un p0’ la sensazione di oppressione emerge in modo evidente. Cerco allora di accentuarla maggiormente usando tutto il mio peso e nello stesso tempo la esorto a far forza, spingendomi con la sua schiena, con l’aiuto delle braccia e delle gambe, per liberarsi dal mio peso opprimente. Margherita riesce a spingere abbastanza, ma senza troppa convinzione; anche la voce è fortemente trattenuta: soffre in silenzio. Cerco di aiutarla con le parole e anche con il tono della mia voce. Lei spinge finalmente con forza e mi butta via alzandosi prima a carponi e poi eretta sul lettino, scrollando la schiena per aprirsi uno spazio e liberarsi di me. Ripetiamo ancora l’esperienza. Il movimento è più deciso, la voce riesce a uscire un poco, la schiena si erge e si libera della costrizione. Ma il gesto non è del tutto aperto, non è sufficientemente soddisfacente e gratificante. C’è ancora stizza nel volto e nella voce. È un momento particolarmente delicato della seduta. Sento che siamo a cavallo di un crinale, e facilmente si può riscivolare nella vecchia modalità: la ribellione ovattata, il gesto di fastidio e di disprezzo silenziosi, il muro verso genitori, adulti e mondo circostante. È vero che Margherita riesce a spingermi con la schiena, ma sta rischiando di perdere il contatto affettivo con me e di rivivere ancora una volta la sua solita storia. Ciò dimostra che non basta muovere il corpo perché ciò sia terapeutico: è necessario sapere bene verso che direzione bisogna andare. Margherita sta ricadendo in un’insofferenza rancorosa, in una rabbia cupa, in un rifiuto stizzoso. Le fantasie antiche sembrano riprendere il sopravvento: la voce trattenuta lo tradisce. Faccio ridistendere Margherita sulla schiena, invitandola a respirare profondamente per evitare di “tagliare” fuori percezioni e sensazioni emotive. Poi le chiedo cosa stesse provando mentre mi spingeva con la schiena. Margherita evita di guardarmi. Le riesce difficile uscire dallo stato fisico ed emotivo di chiusura. Mi risponde un po’ malvolentieri, la voce lamentosa. Non riesce a capire bene né a distinguere ciò che stava emergendo. Prova un senso di fastidio perché tutto ciò non serve a niente. Ci sono dei momenti nel corso della terapia in cui il paziente bisogna veramente “prenderselo”! Non è più possibile, cioè, girare intorno, aspettare, far finta di non sapere e di non capire. C’è il rischio, altrimenti, che si crei quello che io chiamo l’alleanza tra i “falsi Sé”; un’alleanza tra paziente e terapeuta su un non detto o un non fatto: una macchia scura e sfocata sulla quale si costruiscono interi palazzi di malintesi, incomprensioni, delusioni soprattutto. Il paziente aspetta qualcosa che sblocchi la situazione, speranzoso e al contempo paralizzato dalla paura che si ripetano gli stessi copioni del suo passato: ancora una volta frainteso o compreso solo nei suoi aspetti più esterni e perciò meno veri.
Al di là di ogni precisazione teorica, comunque, quello con Margherita mi sembrava uno di quei momenti in cui bisogna affondare le mani nella situazione, essere fortemente presenti avendo deciso dentro di sé qual è la condizione profonda dell’altro, e in che senso arrivarvi e smuoverla.

E io decisi di mettervi le mani, e non solo metaforicamente. Presi Margherita per le spalle e le chiesi perché non mi guardasse e non dicesse apertamente cosa provava. Cominciai a scuoterla, prima leggermente, e poi a sbatacchiarla un po’ sul lettino mentre le dicevo frasi scherzose e giocosamente minacciose, come si fa con i bambini che tengono il broncio ma che hanno tanto voglia di tornare a giocare. Frasi del tipo: “Ah non mi vuoi guardare! Eh?” “Sei arrabbiata con me?” “Allora! Non me lo vuoi dire quello che stai pensando?” “Ma adesso ti faccio vedere io!””Ti vuoi chiudere a riccio? Ma io non te lo faccio fare!” “Non ti mollo! Non ti lascio mica andare via!” “Cosa credi? Che alzi un muro anche con me? Eh no!”

Nel frattempo la mia azione si era trasformata in una lotta gioiosa, aperta, sorridente, frammista di tanto in tanto di attacchi rapidi e improvvisi di solletico sulla pancia, sui fianchi, sotto le ascelle. Sui primi istanti avevo avuto il timore di sbagliare; che forse non era ancora venuto il momento di forzare, di intervenire in modo così deciso e diretto. Ma dopo poco la reazione di Margherita virava rapidamente dallo stupore e la sorpresa a un sorriso che diventava ben presto irrefrenabile, fino a sfociare in una risata aperta e divertita. Margherita aveva riaperto gli occhi e lottava lei pure con me, timida prima, con gran gusto poi. Mi colpiva e mi rallegrava il fatto che si facesse trascinare completamente, soprattutto dal mio solletico, con movimenti e guizzi finalmente non più controllati. Il suo stato d’animo era cambiato radicalmente e l’immobilità dolorosa e depressiva aveva ceduto a un movimento attivo, capace di smuovere e modificare le sue percezioni più interne, da un lato, e le condizioni dell’ambiente fuori di lei dall’altro. La mia sensazione era di grande sollievo, con in più un’allegria e una risata che mi contagiavano via via di più. La risata è un movimento rapido e profondo di diaframma, spontaneo e non controllabile, se è una risata vera. Si tratta di un fenomeno nel quale è ben evidente quanto sia forte l’interdipendenza reciproca tea 2 sfere del Sé, tra 2 piani funzionali: in questo caso l’umore, l’emozione di base e il movimento di u8na zona muscolare interna. E’ impossibile dire se sia il movimento del diaframma a modificare lo stato emotivo o il cambiamento dello stato emotivo (indotto direttamente dal mio agire) a mobilizzare il diaframma, perché non vi è un rapporto causa-effetto unidirezionale, ma un collegamento profondo tra processi funzionali psichici e processi funzionali somatici. Sta di fatto che il diaframma riprende a muoversi ampiamente ripristinando una respirazione originaria che fino a quel momento può essere totalmente assente, come lo era in Margherita. Il tempo della seduta sta per terminare (nel nostro approccio hanno durata di un’ora intera). Le risate si placano, Margherita si stende completamente sul lettino, supina, in una posizione di evidente apertura (dalle gambe alle braccia, dal volto al respiro). Gli ultimi minuti si svolgono in questa calma raggiunta, in questa condizione di potersene stare tranquilla, in silenzio, accanto a me. E io sto vicino a lei, ma molto discretamente: poggio solo per un po’ la mia mano sulla parte bassa della sua pancia, quasi a richiamare il respiro in quella zona, a farlo scendere più giù possibile. Margherita verbalizzerà poi di aver ricordato in quei momenti, con grande commozione, la figura della zia Maria. Sorella della nonna, la zia Maria era stata la sola a prendere sempre le sue parti, a trattarla con affetto profondo e umanità, a capirla a fondo. Ma, come spesso accade in questi casi, l’aveva lasciata troppo presto, abbandonando questo mondo terreno. Mi rendo conto, nel cercare di chiudere la descrizione di questa seduta con Margherita, che quando si restringe l’attenzione ad un piccolo pezzetto di un’intera terapia, molte cose si possono perdere, altre possono essere sottolineate, altre ancora possono risultare incomprensibili. Ma è anche vero che in questo modo il lettore può essere trasportato per un momento vicino al terapeuta, proprio lì dove egli opera, a guardare e a cercare di capire insieme cosa sta accadendo  all’interno della seduta. E questo è affascinante, suggestivo, ed estremamente utile. Dovrei forse, per amore di completezza, raccontarvi come è andata evolvendo, poi, la situazione di Margherita; cosa è cambiato in lei con il trascorrere della terapia. Dovrei parlare del quadro dei sintomi, degli effetti terapeutici, e soprattutto descrivervi le linee teoriche e tecniche con le quali opero, illustrare questa concezione funzionale messa a punto in vent’anni di ricerca, con tutte le prospettive che apre nel campo psicosomatico, parlare del modello funzionale del Sé.E ancora dovrei dire di come questa psicoterapia funzionale non sia fatta tutta di sedute di questo genere, ma sia anche un paziente e lungo lavoro di regressione nei nuclei profondi del Sé (attraverso i piani funzionali più accessibili) e di riconnessione continua tra le sfere dell’emotivo, del cognitivo, del posturale, del fisiologico, e tra i numerosi livelli e processi che ne costituiscono i vari sottopiani. (Cfr. Rispoli, Andriello. Psicoterapia corporea e analisi del carattere. Bollati Boringhieri – Torino, 1988). Ma per una volta ci possiamo fermare qui, accanto al respiro di Margherita pieno e tranquillo, ai lineamenti trasformati del suo volto, alle miriadi di strane piccole e grandi sensazioni vitali che, dimenticate e sepolte dal tempo e dalle alterazioni del Sé, ella sta piano piano ritrovando come nucleo profondo delle sue capacità di vivere, di percepire, di esprimersi e di gioire.