Luciano Rispoli psicologo: La psicologia del “diverso”.

in “Neagorà” – Napoli 1991.

Il bambino è, fin da piccolo, molto curioso rispetto all’esterno, ma quando subentrano fattori di tipo sociale ed ambientale, potrebbe subentrare la paura del “diverso”.


Il rapporto con tutto ciò che non conosciamo e che ci si presenta in forme inusuali, sconosciute e per certi versi “strane”, ha radici antiche nella nostra esperienza infantile.

Eppure queste prime vicissitudini dell’infanzia, le prime relazioni in famiglia, il modo in cui il neonato viene accolto dall’ambiente circostante, e poi man mano allevato durante gli anni della fanciullezza, hanno un’importanza decisiva su come da grande sarà poi capace di guardare e accettare il “diverso”.

Le più recenti ricerche sull’infanzia ci hanno portato a scoprire che il neonato ha sin dall’inizio una grande curiosità per le novità. Il suo interesse è attratto da movimenti, oggetti, persone, senza alcuna forma di diffidenza precostituita. Anche più tardi, nei primi anni di vita, se nulla interviene a bloccare questa fortissima spinta iniziale del Sé, il bambino conserva la capacità di affacciarsi sul nuovo, di cercarlo con grande desiderio, di espandere le sue esperienze e le sue conoscenze.

Ciò non significa che non abbia gusti e preferenze, che invece sono presenti chiare e spiccate sin dall’inizio, poiché sin dall’inizio sono presenti tutti i processi psicocorporei del Sé in forma integrata, tutte le capacità di interazione tra il Sé originario e l’ambiente esterno. Ma la mobilità del bambino è tale che egli facilmente assaggia, prova, modifica le sue preferenze, cambia gradatamente ma continuamente.

E’ con grande facilità che, non solo da neonato, ma anche più tardi, il bambino passa per esempio dalle braccia dei genitori a quelle di un estraneo (purché l’estraneo sia tranquillo e sicuro nel prenderlo, e il bambino non sia già stato spaventato sui pericoli dell’esterno), con curiosità, piacere e sincera allegria. L'”angoscia dell’estraneo”, di cui tanto si parlava in psicologia fino a qualche tempo fa, non è più considerata come un evento inevitabile, come una fase che assolutamente tutti i bambini devono attraversare, quasi fosse geneticamente connaturata e determinata. Ora ci è più chiaro che questa paura di ciò che non è noto al bambino viene creata ed alimentata da due ordini di fattori.

Il primo è di tipo culturale e sociale, e consiste nell’atteggiamento che i genitori, e tutta la famiglia in genere, hanno nei confronti dell’”esterno”, sia come valori consapevoli ed esplicitamente espressi, sia come vissuti più inconsapevoli. Se i genitori “difendono” troppo il bambino dai pericoli esterni, infatti, anche se in modo non esplicito finiscono per infondere in lui una sfiducia profonda e di fondo, un senso di allarme continuo per tutto ciò che non rientra nelle sue conoscenze, per il nuovo e il diverso.

Se la famiglia tende a chiudersi troppo in una condizione “difensiva”, se in casa circolano pochi estranei, se non si frequentano persone, se non si tollera che i propri figli interagiscano con gli altri, se non li si lascia nemmeno “toccare” (perché gli altri “non sono capaci”, perché è pericoloso, perché i figli sono nostra proprietà) certo nei bambini come si potrebbe conservare quella primaria fiducia verso l’esterno, quel piacevole e naturale amore per le cose nuove e diverse, per gli altri e per gli estranei (naturalmente quelli che sono capaci di una buona relazione con il bambino, che gli sono simpatici, che gli piacciono)?

Il secondo fattore riguarda invece il senso profondo di continuità del Sé, di continuità dell’esistenza, che devono essere assicurati e preservati almeno per i primi anni di vita.

Il bambino può protendersi all’esterno, accettare ed amare il diverso e l’estraneo, essere mobile, solo se viene ben tenuto saldamente, se può ritornare con assoluta certezza al noto, al materno, alle sue abitudini, all’oggetto caro visto, ascoltato, manipolato un’infinità di volte. Questo è il motivo per cui i bambini non si stancano mai di ascoltare la storia preferita, di portare a letto il solito pupazzo, di fare il solito gioco rituale e rassicurante, di vedere le figure del solito librettino.

L’approccio Funzionale alle teorie psicocorporee del Sé scopre appunto che la gamma di possibilità può allargarsi (o meglio rimanere ampia, così come era originariamente) tanto più quanto più si sostiene e si rinsalda uno dei due poli. La possibilità di amare il “diverso” può perciò conservarsi solo se è sostenuta da una profonda sicurezza del proprio Sé, da un aver potuto sempre ritornare al noto, da una certezza di ritrovarlo; insieme ad una profonda convinzione che l’esterno non è sempre e per forza pericoloso, insieme a una profonda fiducia di poter interagire con esso, cambiarlo se occorre, e comportarsi adeguatamente a seconda dei casi.