Psicoterapia: Integrazione, mobilità e disfunzione nelle relazioni primarie.

I Simposio internazionale su Erich Fromm Firenze, 1988.

Lo studio delle relazioni oggettuali della prima infanzia ha arricchito considerevolmente i supporti teorici della psicologia clinica e della psicoterapia in particolare. E questo perché ha permesso di approfondire il tema della formazione e dello sviluppo della personalità, al quale deve necessariamente riferirsi (per rimanere nell’ambito scientifico) qualunque ipotesi di alterazione, di patologia, di. eziologia dei disturbi di ordine psichico e psicosomatico.


Uno degli argomenti su cui si è focalizzato il dibattito in tutti questi anni riguarda certamente la ricerca degli elementi costitutivi e basilari dello psichismo e del comportamento dell’uomo. Quali sono, in ultimi termini, le profonde forze che muovono entrambi? Qual é la spinta prima all‘in interazione con il mondo? E ancora, e soprattutto, quali sono  le forme attraverso cui l’individuo organizza i suoi sistemi di valori e di rapporti sociali a partire dalle esperienze della primissima infanzia? Intorno a tali questioni si sono condensate due tipi generali,di teorizzazioni.

Una punta essenzialmente sull’esistenza di forze innate, biologiche, inconoscibili nella loro ultima e intima essenza, sugli aspetti ereditari, sulla programmazione. L’altra scuola di pensiero attribuisce importanza determinante agli accadimenti della vita, alle spinte ambientali, alle relazioni sociali. Questa vecchia querelle è comparsa, sebbene sotto formulazioni differenti, in vari rami e settori, della scienza e in tutta la sua piè recente storia. Sappiamo e comprendiamo oggi che i termini della questione non possono essere posti in un aspetto così rigidamente dualistico e contrappositivo. Abbiamo numerose informazioni verso una strada della complessità del determinismo, dell’ integrazione anziché dell’ esclusione alternativa. Ciò nondimeno numerosi punti centrali del nostro agire e del nostro teorizzare, che ci stanno profondamente a cuore, non hanno ancora ricevuto una chiara delucidazione dal nuovo cammino della Scienza e si ripropongono al centro della nostre discussioni spronandoci ad entrare ancora dì più nei, problemi e a risolverli a dal punto di vista operativo e da quello teoretico.

Tutto ciò è presente anche nel mondo della psicologia e, a maggior ragione, in quel suo settore operativo che è la psicoterapia, attraverso le discussioni su metodologie e nodali i, teoria e tecnica. di. sono più di una dimensione rispetto alla quale il dualismo ha creato polarità di ipotesi e di interpretazioni opposte. Una di queste dimensioni, come dicevamo all’inizio, riguarda l ‘analisi degli elementi primi e non più scomponibili alla base dello psichismo e del comportamento umano. Qui i modelli, si possono raggruppare in due grandi categorie, quelli di tipo pulsionale e quelli relazionali. Anche se nell’ambito di questa dimensione pulsionale-relazionale realtà uno studio attento mostra come sia stata lunga la strada delle ricerche che hanno permesso la trasformazione delle teorizzazioni iniziali. E soprattutto come queste trasformazioni si siano rivelate indispensabili (anche se non sempre con un facile riconoscimento da parte dei vari autori) laddove lo richiedevano nuove recenti scoperte che avessero messo in crisi vecchie affermazioni, o nuovi procedimenti scientifici e nuovi modelli epistemologici che contraddicevano concezioni obsolete. Bisogna dire che all’impulso per la trasformazione dei primi modelli teorici della psicodinamica (quelli puramente pulsionali di Freud per fare un esempio concreto) ha contribuito notevolmente l’indagine e l’esplorazione sempre più accurate, e sostenute da supporti tecnologici molto più avanzati, nel campo della prima e primissima infanzia.

Il volgersi dell’interesse (grazie alle potenzialità esplorative prima inesistenti) verso questa parte iniziale della vita, ha acceso di particolari concreti e illuminanti il d battito sull’origine pulsionale o relazionale del comporta mento umano. E non direi, come vedremo pii avanti, che la conclusione sta in modo netto ed evidente in un “ovvio” abbandono del modello pulsionale verso quello relazionale, o viceversa in un arroccamento sterile su vecchie e superate concezioni innatiste. Ma andando avanti nel nostro discorso, dal momento che ci stiamo interessando in particolare del campo della psicologia, è utile soffermarci brevemente anche su altre dimensioni “dualistiche” che in questo settore si sono più o meno intrecciate nell’orientare verso la scelta di una certa teorizzazione o di un’altra, e che hanno pesato sulla trasformazione dei primi modelli clinici. Parallelamente al dibattito tra teorie pulsionali e teorie delle relazioni (e all’evoluzione da una verso l’altra) si può registrare una lunga storia di confronto sui metodi di osservazione, di ricerca e anche di intervento terapeutico basati sul polo del soggettivismo, o in alternative su quello dell’oggettività. Questa contrapposizione ha colorato di tonalità differenti momenti storici l’ uso del mezzo introspettivo, della risonanze interna dell ‘osservatore, dell’interpretazione basata sul vissuto personale; sino alla categorica affermazione che nulla in psicologia è verificabile, sperimentabile, oggettivabile. All’ altro estremo abbiamo le posizioni di chi ha cercato di fondare anche questa disciplina su basi esclusivamente sperimentali, nel solo senso dei dati osservabili e dei fenomeni esclusivamente ripetibili. Un terza dimensione che attraversa la ricerca teorica e clinica nell’analisi della personalità e nel suo derivato applicativo quale la psicoterapia, riguarda la contrapposizione tra biologismo e psicologismo o, se lo si vuoi osservare da un altro punto di vista, tra mentale e corporeo. La necessità difensiva della psicologia di distanziarsi reattivamente dalla medicina e dalla biologia è però oggi sensibilmente diminuita, grazie a un relativo tranquillo status di esistenze e di riconoscimento scientifico di autonomia. E’ perciò possibile riaffacciarsi sulle zone che si trovano al confine con le altre scienze, e non trascurare la ricchezza di dati che proprio in queste aree (nella possibilità di studiare il comportamento umano anche con le ottiche del corporeo, ad esempio) è possibile cogliere.

Infine una quarta “storia” permea il succedersi di teorie cliniche psicologiche differenti. Ed è nel differenziarsi delle ipotesi tra la parzialità e la frammentazione della vita iniziale del bambino, supportata da un’ipotesi di isolamento, rispetto all’idea di una sua unitarietà originaria in connessione ad una postulata capacità iniziale di contatto, non solo passivo, col mondo circostante, e di interazione profonda e  totale con le altre realtà oggettuali. Gli studi tecnologicamente avanzati sulla prima e primissima infanzia (non “asettici”e falsamente neutrali, bensì consapevoli delle modificazioni che lo stesso osservatore introduce nella realtà esaminata) ha condotto a risu1tati nuovi e sconvolgenti.

L’esistenza di una fase  primaria di narcisismo primario e di autismo è stata nei fatti completamente smentita; le ipotesi di una simbiosi chiusa col sistema madre egualmente non trovano una valida conferma. Appare invece sin dall’inizio un organismo già capace di svolgere compiti cognitivi attivi, in grado di percepire e discriminare, e che integra i vissuti emotivi e motori nella sua relazionalità con oggetti “interi”. Tutto ciò introduce l‘ importanza e la necessità di modificare radicalmente sia le teorie pulsionali che quelle relazionali sulle concezioni relative a ipotetiche strutture che non sono ancora, che solo successivamente compaiano o si maturano mettendo l’individuo in grado di elaborare solo in questa seconda fase le esperienze positive e negative. E ciò nei confronti vuoi degli impulsi istintuali, vuoi dell’internalizzazione di elementi di elementi oggettuali esterni. Una svolta decisiva in questa disciplina consisterebbe nella comprensione che il punto nodale della problematica infantile non è nello svilupparsi di strutture a partire de un preesistente caos, o da una preesistente disgregazione. Le ricerche e le esperienze cliniche sembrano suggerire che è possibile confermare una nuova ipotesi (ma già presente per certi aspetti in molti autori) di integrazione e unitarietà originaria dei numerosi aspetti funzionali che caratterizeranno successivamente la vita adulta. Non si potrebbe parlare, in tal caso, di un protomentale solo rudimentale e inattivo o di un’emotività basate esclusiva mente sulla polarità buono-cattivo, o ancora di una vita inizialmente a prevalenza vegetativa e cosi via. L’ importanza delle ipotesi di uno sviluppo evolutivo non rasi rimane inalterata, ma non per stabilire il primato di un impulso parziale o dell’altro rnan mano verso un primato genitoriale, nè per ipotizzare una costruzione di strutture per tappe, in un faticoso cammino dalla disgregazione all’ assemblamento di frammentarietà separate. Il nucleo del problema diventa il come si trasformano le relazioni oggettuali primarie; come si complessificano attraverso il perfezionarsi e l’ampliarsi delle gemme emotive, simboliche, motorie, ideative. In questo cammino lo studio clinico nell’ area dello psico-corporeo ha portato contributi essenziali. Con tale approccio ci si è imbattuti, infatti, in. una serie di fenomeni estremanente pregnanti e significativi che non potevano essere spiegati dalla teoria “classica”.

La memoria corporea, ad esempio, è un concetto speri mentale e clinico che descrive il “risvegliarsi” di vissuti molto arcaici, a volte risalenti ad epoche in cui la parola non era ancora comparsa nel bambino. Ebbene, il sondare con l’individuo tali aree di memoria corporea, di vicende incapsulate nella struttura morfologica, fisiologica, muscolare e di movimento del suo corpo, permette di raggiungere sensazioni profonde di benessere, fondamentalmente di integrazione: tra emozione, movimento (biologico e fisico) e pensiero. E a volte reazioni, movimenti o sensazioni emergenti in modo incontrollato, apparivano inequivocabilmente risalire a periodi post-natali o addirittura pre-natali. In tali aree profonde, che noi abbiamo definito di regressione psicosomatica, così difficilmente accessibili al solo metodo verbale, il movimento fisiologico e la postura conservano profondi collegamenti con il significato sia emotivo che simbolico dell’agire e del sentire, in modo, al contempo, aperto e integrato. Portando avanti le conseguenze di tali scoperte appariva chiaro che per mantenere coerente, esplicativo e non contraddittorio il modello, bisognava modificare diverse formulazioni concettuali, non solo della psicoanalisi classica e ortodossa, ma anche delle teorie che se ne discosta o (prima fra tutte quelle di Reich stesse da cui ha origine il filone clinico dello psico-corporeo). I concetti di rimozione ed inconscio, ad esempio, mostravano la necessità di un profondo cambiamento; l’inconscio stesso non appariva più come una meta-realtà data a priori, ma come il luogo dove veniva ricacciato l’inconsapevole e l’inaccettabile. Il rimosso, dal canto suo, poteva riferirsi ad un processo messo in atto più che dall’urgenza delle istanze pulsionali angoscianti, dal ripetersi di esperienze insoddisfacenti e frustranti da parte dell’ambiente circostante. La rimozione inoltre acquista una valenza che va al di là del semplice dualismo consapevole-inconsapevole. Ciò che sembra “mancare” in una delle aree funzionali ed espressive dei Sè lo si può ritrovare in modo inequivocabile all’ interno di altri processi funzionali spesso trascurati dalla ricerca psicoanalitica classica.  Non vi. è dunque solo la rimozione dal piano dello psichismo cosciente. Vi può essere del materiale rimosso dall’emotivo, dal fisiologico o dall’insieme degli atteggiamenti posturali e muscolari; insomma da ciascuna delle quattro grandi aree funzionali in cui ho teorizzato la suddivisione del Sé (definito Sé corporeo) o da ciascuno dei sottopiani ivi cui le aree ai specificano ulteriormente. Ciò che è “scomparso” dal piano dei ricordi lo si può ritrovare nella struttura morfologica corporea, ciò che non si ritrova nelle emozioni riaffiora nella fisiologia degli apparati o dei sistemi interni all’organismo, e così via. Il concetto di rimozione assume un significato più ampio, più generale, e contempla allo stesso momento la presenza degli altri piani funzionali del  Sé che mantengono (con tutte le distorsioni e le alterazioni della patologia) il rimosso in modo concreto e visibile. A questo concetto così completamente nuovo di rimozione, dunque, non può non corrispondere le necessità di una radicale revisione della teoria degli istinti. L’Es non è più visto come un serbatoio (astorico e trascendente) di forze caotiche inconsce. I processi patologici di scissione, inoltre, non ricalcano una scissione precedente esistente (originaria) tra le pulsioni di vita e di morte, dell’Io o dell’Es, o tra frammenti non ancora significativi di relazione con oggetti parziali genitoriali, corrispondenti alla parzialità iniziale della vita istintuale. Anche la dimensione concettuale di interno-esterno finisce per subire una profonda trasformazione, poichè perde la connotazione radicalmente contrappositiva fra una forza (o elemento di base) a carattere endogeno, e le spinte sociali a carattere puramente esogeno. Nella teoria e nella pratica della regressione psicosomatica, inoltre, noi usiamo frequentemente il termine “profondo”. Ma esso sta ora a significare qualcosa di sensibilmente diverso. Non si riferisce più alla reificazione di una ipotetica zona inaccessibile dello psichismo umano, dove è necessario, per dirle con Winnicott, che un  nucleo rimanga sempre intatto e inconoscibile; nè vuole avallare più la presunte realtà di una magma inafferrabile costituito dalle pulsioni dell’Es.

“Profondo” si riferisce, nella teoria psico-corporea, ad una precisa esperienza relezionale del Sè, che è conservata in qualche maniera all’interno dell’organismo. Essa è presente proprio nel contesto delle aree funzionali del Sé corporeo, magari in modo più diretto ed evidente in una piuttosto che nell’altra, ma pur sempre con una caratteristica precisa: quella di conservare operante l’integrazione originaria, le interconnessioni tra un piano e l’altro, l’unitarietà dei processi funzionali del Sé.  Dunque le pulsione ha perso la connotazione di forza incontrollabile e devastante, perchè il neonato ha perso la caratteristica di passività iniziale, di disintegrazione originaria e di isolamento. L’ importanza delle relazioni reali con le persone e gli oggetti primari (e non solo in senso di rappresentazione psichica) stabilisce definitivamente l’improponibilità della concezione di un oggetto creato e definito a partire proprio dalla pulsione. La strutturazione psichica ed emozionale non può rispondere ad un’idea di costruzione determinista e tutta endogena. La pulsione, soprattutto, non può più rappresentare il motore primo d’ innesco dell’azione, poichè non è attraverso il concetto meccanicistico di scarica che si verifica nella realtà la estinzione motivazionale e comportarnentale. Non si tratta dunque di una energia specifica che si accumula e che ha assoluta necessità di scaricarsi per assi curare l’omeostasi e la quiete. Il quadro che muove il comportamento umano è fondamentalmente diverso. D’altra parte anche nelle teorie puramente relazionali resta in fondo inspiegabile e inspiegata la capacità del bambino (soprattutto nei primi momenti di vita) di attribuire qualità buone o cattive alle sue esperienze oggettuali. Lo stesso concetto di “empatia” così frequente nelle concettualizzazioni di Sullivan, della Jacobson o di Kohut ha in realtà necessità di riferirsi a qualcosa che è proprio del bambino, qualcosa che è interno—esterno alla relazione stessa. E’ difficile non prevedere, quando si parla di empatia, un referente relativo ai bisogni e alle necessità del neonato. Il genitore empaticamente risponde e accoglie cosa, se non determinate esigenze? Mentre l’attenzione rivolta al periodo infantile ha (nella storia della psicologia clinica) spostato l’accento sullo svolgersi delle vicende relazionali, sugli oggetti reali dell’ambiente, sul transpersonale, gli studi e le ricerche del epoca perinatale riscoprono  alcuni aspetti significativi  delle teorie pulsionali, anche se la pulsione viene interpretata in modo del tutto diverso. Alla  nascita (ma già prima nell’utero materno) il bambino rivela una struttura di bisogni ed esigenze che devono essere soddisfatte per la sua sopravvivenza fisica e psichica e in generale a tutti i livelli. I concetti di bisogno e di soddisfazione ci riportano od un recupero della pulsionalità ma come tendenza verso più che come annullamento dello stimolo e della tensione. Con le ricerche attuali sulla perinatalità si mettono in luce i danni derivati da un non accoglimento di tali bisogni, da una frustrazione, intesa in senso ben più ampio e notevolmente diverso da quello classico. La pulsione non è cieca spinta verso un oggetto che vi si adatti; non è un quantum di energia che urge e preme dal di dentro, difficile da controllare e fonte d’angoscia. E’ possibile oggi concepire l’aspetto qualitativo del mondo istintuale inteso come modalità biologica, sia ricettive che espressive, del bambino. Le pulsioni sono i binari attraverso cui egli si relaziona con il mondo, le potenzialità specie—specifiche che debbono essere messe in atto, pena l’atrofia o la disfunzione di parte dei processi psicofisici. La Psicoterapia Corporea e la teoria del Sé Corporeo hanno sviluppato in contemporanea gli aspetti relazionali della vita infantile e questa nuova concezione pulsionale. La pulsione, secondo tale teoria,è innanzitutto unitaria, non è un livello che si auto-accumula, una forza inesauribile che deve essere placata, ma una rete di possibilità, di movimenti già posseduti e innati, di. attivazioni neuroormonali e biochimiche. La sua  specificità non è nelle varie suddivisioni che la teoria classica ne  fa, ne in quella di una metafisica energia vitale . Essa è invece nella specificità del corredo genetico, cioè nei canali che sono già attivati o che possono attivarsi nell’uomo. La pulsione non crea il suo oggetto, ma si adatta agli oggetti che l’individuo incontra; ne determina le scelte e l‘attribuzione di qualità (buona o cattiva) alle esperienze; laddove buono è  l‘oggetto che attiva le potenzialità e soddisfa i bisogni primari. La pulsione è l’insieme dei bisogni primari che possono essere sussunti in una unitaria spinta all‘espansione motoria e percettiva, in una ricerca di conoscenza che è insieme di sé e del mondo. I bisogni si specificano, per comodità di comprensione, in quelle che io definisco mete pulsionali (prendendo a prestito una terminologia classicamente freudiana) che rappresentano le direzioni nelle quali il bambino ricerca una buona risposta nelle relazioni oggettuali. Tali mete (il calore, l’essere contenute, il nutrimento, la curiosità e la conoscenza, l’essere accolto e capito, l’affetto,il sentirsi, il progettare, il movimento, l’espressione, il contatto e la manipolazione) rimangono inalterate per tutta la vita. Esse hanno nella vita relazionale numerosissimi oggetti intercambiabili; mentre le mete stesse non possono sostituirsi: l’una non può sopperire mai completamente alla mancanza di soddisfazione dell’altra. Questa mobilità degli oggetti, legata alle costruzione e all’arricchimento delle esperienze relazionali, può essere disturbata da una carente risposta ambientale ai bisogni infantili. Le risposte non adeguate rendono rigide le mete nella scelta dell’oggetto. E’ questa presenza dell’oggetto, il contatto e lo scambio con l’altro da sé, a vari livelli (soddisfazione delle varie mete pulsionali), che permette di saturare le valenza biopsichiche dell’organismo. Ciò che è indispensabile è questa presenza e non la scarica pulsionale. Il mondo che circonda il bambino non è per lui neutro; gli oggetti non sono equivalenti nel suo desiderio e nella capacità di soddisfare le sue mete. Il desiderio di calore ricercherà determinati oggetti, la necessità di conoscenza altri, e così via. Nello stratificarsi di esperienze insoddisfacenti e inadeguate alle mete può verificarsi che la mobilità (intercambiabilità) iniziale tra gli oggetti diminuisca perchè il bambino essenzialmente teme di perdere quel poco di soddisfazione che gli viene dall’oggetto che ha e disposizione. Il separarsi dall’oggetto e la ricerca di altri oggetti diverrà difficile, così come difficile sarà spaziare tra più mete pulsionali che un medesimo oggetto avrebbe potuto attivare in lui (o,in altri termini, alle quali avrebbe potuto rispondere). La rigidità delle mete verso gli oggetti impedisce l’arricchirsi delle reti di relazioni e l’incrementarsi delle gamme di sfumature nelle varie dimensioni di cui è costituito il Sé: percettive, motorie, ideative, emotive. E’ attraverso la relazione con i primi oggetti (non solo  i genitori ma il mondo vivino e sconosciuto), e attraverso il conoscere antiche esperienze che il bambino incrocia. Se questa ibridazione tra vecchio e nuovo viene ostacolata dalla rigidità caratteriale (o dalle mete), le esperienze non rivelano tutta la potenzialità dell’ incontro con nuovi oggetti e nuovi aspetti dell’oggetto. Un genitore, ad esempio, ad una certa età dello sviluppo infantile, suscita altri interessi rispetto alla propria persona; non è più solo sicurezza, amore o cibo. E’ a quest’epoca che i bambini notano particolari fisici o di comportamento mai colti prima, caratteristiche che non rientrano in quel ruolo oggettuale corrispondente alle esigenze primarie più pressanti del periodo della prima infanzia. Essi scoprono così che il padre o la madre sono stanchi, hanno le rughe, sono irascibili. Ma se l’incontro con il nuovo viene ostacolato da un rigido legame con il vecchio, allora il genitore continuerà a rappresentare l‘oggetto che corrisponde, ad esempio, alla meta dell’essere contenuto e protetto”. Nello stesso tempo nel bambino si atrofizzano le interazioni tra Le aree funzionali del Se; cioè vengono limitati gli effetti dell’incontrarsi tra ricordi (della vita vissuta con il genitore), percezioni attuali (accorgersi che è stanco, emotivamente irrigidito, ecc.) e sentimenti (a loro volta resi possibili dal ricordo e dai movimenti posturali e fisiologici che quei momenti suscitavano). il nuovo concetto di se corporeo, come l’ho proposto, permette di realizzare una visione sincronica e diacronica al tempo stesso dei processi funzionali dell’individuo, a tutti i livelli. E’ come poter rivolgere uno sguardo dall’alto , che contemporaneamente abbracci gli accadimenti nel campo dell’emozionale, in quello dei sistemi fisiologici interni dell’organismo, nell’area dei movimenti  delle posture, delle modificazioni muscolari e posturali, e in quella infine, dell’attività simbolica mnemonica e ideativi. Ma il modello, soprattutto, tenta di cogliere le interazioni tra i vari processi funzionali, tra un’area del Sé e l’altra, e all’interno della singola area, rilevando le alterazioni e le disfunzioni che intervengono nel mondo del le relazioni oggettuali, in senso lato: gli oggetti esterni e il Sé—oggetto. Le disfunzioni rilevate dalle ricerche possono essere raggruppate essenzialmente in tre fenomeni fondamentali (più o meno intrecciati tra loro). 1) Al primo punto notiamo le scissioni tra processi funzionali di un’area rispetto ad un’altra o tra sub—sistemi
della stessa area. Ad esempio, i legami che danno significato a un movimento fisiologico rispetto all’emozione che lo sottende si allentano e diventano labili , indiretti, distorti. La manifestazione fisiologica perde di senso e diventa sintomo. 2) Ciascun insieme di processi funzionali può essere stimola io e sviluppato normalmente da risposte gratificanti nelle relazioni oggettuali, oppure ipertrofizzarsi esageratamente divenendo il punto di forza prevalente se non unico della persona. Al contrario una determinata area funzionale può rimanere sacrificata se le corrispondenti mete pulsionali non sono sufficientemente sostenute nelle relazioni di vita reale, e non permettono l’attivarsi e lo svilupparsi delle potenzialità corrispondenti, 3) Una parte del Sé corporeo può irrigidirsi nel senso di cristallizzare le modalità di funzionamento in ripetizioni coattive, involontarie, che limitano la gamma di strategie, di movimenti, di ideazioni, di emozioni.

Il modello di sanità (o di sviluppo normale) non prevede dunque, come quello classico, processi concatenati e sequenziali di disinvestimento libidico e direinvestimento successivo rispetto alle prime relazioni oggettuali. La delusione o l’inadeguatezza delle empatie parentali (per dirla con Kohut) non sono il momento fondamentale per la costruzione d oggetti stabili interni. In realtà non viene postulata la costruzione ritardata di una struttura (l’Io o il Sé) che soltanto successivamente, a maturazione avvenuta, sia in grado di controllare il serbatoio ribollente degli istinti (secondo la teoria pulsionale) o che fornisca, tramite i primi oggetti, gli elementi costitutivi delle pulsioni sessuali e aggressive (secondo alcune teorie relazionali). Il modello del Sé corporeo postula una continuità essenziale nei processi funzionali dell’infanzia, e una graduale complessificazione degli stessi senza l’intervento di una seconda fase di vita, di nuove strutture o di, capacità che irrompono sulla scena più tardi, solo dopo una presunta maturazione. In questa chiave il mentale non emerge successivamente dai primordi di un’attività protomentale, ma continua a svilupparsi (affinando sì i suoi strumenti, ma senza salti di discontinuità qualitativi) in stretta connessione con le altre funzioni del Sé corporeo (inteso come globalità e unitarietà dell’intero organismo). L’intervenire delle separazioni tra processi funzionali introduce una alterazione complessiva del Sè, una modificazione di tutto l’assetto del sistema, una rigidità caratteriale che limita la mobilità. (e non le scarica energetica) più o meno sui vari livelli funzionali. In conseguenza di questa alterazione possiamo ritenere che un qualcosa viene spostato realmente da un- piano all’altro (nuovo concetto di rimozione), ma non nel senso di un energia specifica, come sostengono alcune teorie di psicosomatica. “e’la realtà si possono rilevare invece concrete modificazioni dei livelli di tono muscolare, di valori della pressione, di atteggiamenti corporei, di attivazione dei trasmettitori chimici, elettrici e ormonali, delle connessioni tra le tracce mnestiche, di soglie di innesco dei recettori percettivi, di equilibrio tra le stimolazioni del neurovegetativo e così via.

L’alterazione complessiva dell’intero Sé corporeo può essere valutata attraverso una profonda commistione tra le risonanze interne che l’osservatore può cogliere (se consapevole dei differenti piani funzionali del proprio Sé) ai vari livelli su cui comunica il paziente, e l’insieme dei segni oggettivamente riscontrabili (anche da un osservatore esterno) nel suo Sè corporeo. L’analisi controtransferale (ampliata alle varie aree del sé corporeo) diviene così l’elaborazione dei dati pervenuti e ricombinati secondo una costruzione che è quella del Sé corporeo dell’analista. Al contempo le ipotesi interpretative, scaturite da questa elaborazione, possono essere sottoposte a verifica successiva attraverso la parte dei segni oggettivi (specie nel loro cambiamento) riscontrabili nel paziente. Nella pratica terapeutica un modello cosi ampliato del se, non relativo da una sola fase di vita infantile ( come quello di Kohut),   né costruito solo in un secondo tempo dell’ infanzia (come in Winnicott) permette di guardare all’insorgere di sintomi fisici e psichici di malattie psicosomatiche, di rigidità caratteriali, come ad un unico processo di alterazione (scissioni, iper o iposviluppi e sclerotizzazioni) riguardante le aree funzionali del Sé. La mappa di queste ultime può fornire una chiara visione di quali versanti sono più o meno colpiti, del perché l‘ammalarsi prende una o un’altra strada e infine di quali metodologie adoperare nell’ intervento. I,a Psicoterapia Corporea, come l’ho elaborata nel modello del Sé corporeo (Terapia Funzionale), non si caratterizza certo (come banalmente si tende a credere) per la presenza del corpo nella pratica terapeutica. Anche nel momento terapeutico questa teoria del Sè allargata ci soccorre rendendoci chiaro come lo scopo ultimo sia il riequilibrarsi del Sé, cioè il ricostituirsi (nei limiti del possibile) dell’ integrazione originaria. Ciò significa che nelle strategie terapeutiche, a seconda della particolare configurazione del Sé del paziente, sarà necessaria una Regressione Psicosomatica che porti nel “profondo” (come lo abbiamo ridefinito), nelle aree di integrazione dei nuclei primari del Sé ancora esistenti. La strada per questo viaggio, possibile solo grazie alla relazione attuale con l’analista, sarà specifica per ogni configurazione del Sè, diversa da persona a persona. Altrettanto differenziate saranno le modalità terapeutiche anche nella cosiddetta fase di ampliamento di queste aree profonde; e così quelle di riconnessione  delle funzioni del Sé.

Ciò spiega come la Terapia Funzionale (per definirla con il nome più apprppriato) adoperi a seconda  dei casi,  ma anche a seconda della fase in cui si trova il processo terapeutico, metodologie differenti, precipuamente adatte al lo scopo prefissato.

L’ “Interpretazione” sarà, ad esempio, necessaria soprattutto nel momento di riconnessione tra cognitivo, e area della memoria psichica, con i vissuti emotivi. L’ esperienza emozionale correttiva” permetterà finalmente al paziente di disconfermare l‘esperienza di mancata soddisfazione delle mete pulsionali cronicizzatasi nel suo vissuto infantile. La ripresentazione di taluni aspetti “reali” delle figure genitoriali da parte dell’ analista riuscirà ad aprire serbatoi emozionali chiusi alla memoria. La “manipolazione” e il “massaggio” riattiveranno le connessioni tra apparati fisiologici e percettivi da una parte ed emozioni dall’altra.

“L’esecuzione di movimenti” può riaprire canali che portano al fisiologico o alle stratificazioni emozionali, (cioè ai residui e ai risultati delle relazioni oggettuali e della soddisfazione delle mete pulsionali incapsulati nei vari distretti corporei.).

Il “contatto” e l’ empatia produrranno una nuova possibilità di sviluppo, il recupero del movimento evolutivo perduto, bloccato dagli insuccessi delle prime relazioni oggettuali. Ancora una volta una visione dall’alto permette di comprendere che interpretazione ed esperienza non sono alternative e contrapposte. Non si tratta di usare “le tecniche” in  una miscellanea eclettica, ma poggiarsi su una teoria che può far raggiungere un livello più alto rispetto ai sub-sistemi presenti in alcuni modelli classici, che può portare ad un gradino superiore di organizzazione e di integrazione delle conoscenze, permettendo di riassorbire le contraddizioni solo apparentemente insanabili.
Si tratta però di uscire una volta per tutte da schematismi rigidi che ripetono le stesse modalità di intervento per ogni caso clinico, qualunque siano la configurazione e le alterazioni del Sé corporeo, e in qualunque fase del processo terapeutico ci si trovi.

Ciascuna di queste metodologie, profondamente modificate rispetto all‘uso che avevano originariamente nei singoli modelli, collocata al posto e al momento voluti nel nuovo progetto terapeutico, acquista il senso non di processi parziali, giustapposti, ma di componenti organiche di un processo generale che ha le caratteristiche di evolutività e di modularità e che si muove, con un iter complessivo e verificabile nel succedersi delle singole fasi, verso gli obbiettivi postulati di reintegrazione a vari livelli della mobilità del Sé corporeo.