Psicoterapia Funzionale: L’analisi dei processi funzionali del Se’ corporeo.

Luciano Rispoli, Barbara Andriello, 1987.                                   

Un lungo anche se lento cammino di ampliamento delle risorse e delle tecniche terapeutiche è stato percorso dal movimento analitico, o più generalmente dalla psicologia clinica.


Uno dei primi modelli che hanno preso in considerazione le connessioni tra il livello psichico e quello somatico nel processo terapeutico è stato proposto da Wilhelm Reich, con il nome di Vegetoterapia Carattero-analitica. In questo tipo di approccio si parte dalla convinzione che non è possibile accedere pienamente ad un nucleo originario psicosomatico poiché su di esso sono intervenute a frammentarlo e scinderlo le pressioni dell’ambiente. Del resto anche Winnicott, cercando di risalire allo strutturarsi della scissione mente-corpo nello sviluppo del bambino sostiene che non vi è possibilità, all’inizio, di distinguere la psiche dal soma. La psiche sarebbe soltanto “1’elaborazione immaginativa delle parti somatiche dei sentimenti e delle funzioni, cioè della vita fisica” (Winnicott D.W. 1958). Emerge dal pensiero dell’autore inglese l’esistenza di un’integrazione originaria psico-somatica suscettibile di successive separazioni sotto la pressione negativa ambientale. “Lo sviluppo dello psiche-soma procede lungo una certa linea, a condizione che la sua continuità di esistenza non sia disturbata” (Winnicott D. W. 1958).

Altri numerosi frammenti di questo discorso possono essere ritrovati in vari autori. Pur rimanendo in una formulazione che non acquista una immediata articolazione operativa, anche perché collocata solo in una primissima fase di vita, il protomentale di cui parla Bion contiene in sé elementi di interrelazione profonda tra il corporeo e il mondo interno emotivo e fantasmatico. Più pregnante in questo ambito la posizione della scuola ungherese, laddove individua una capacita di relazione oggettuale nel bambino sin dalle primissime fasi di vita, caratterizzata non solo da pensieri e fantasie, ma da un contatto corporeo già denso di emozioni diversificate. Ma nella carenza di soddisfacimento da parte dell’ambiente queste ultime possono identificarsi con stati di angoscia che, solo allora, distruggono un rapporto integrato con la realtà, riducendo percezioni, vissuti corporei, sensazioni di movimento a favore di un’ipertrofia terrifica dell’immaginazione. Se il desiderio pulsionale viene soddisfatto in tempo, Balint ritiene che “l’esperienza del piacere non supera mai la soglia del piacere preliminare, insomma, del tranquillo, riposante, senso di benessere.   Peraltro la frustrazione richiama reazioni estremamente violente”.  (Balint M. 1965))

Riprendendo il vecchio schema di Reich possiamo osservare come esso sta a significare che a livello profondo l’individuo possiede la capacità di esprimersi affettivamente attraverso movimenti, pulsazioni, parole, posture, che risultano interconnesse in modo integrato. Se si applica la medesima schematizzazione al processo terapeutico, invece, si vogliono sottolineare come indispensabili sia l’agire attraverso lo strumento della respirazione, del movimento e del massaggio (mobilizzazione neurovegetativa),.sia l’evidenziare i modi ripetitivi e le fissità che caratterizzano ogni forma di relazione del paziente.

Agire su uno solo dei due poli, in effetti, sembra rivelarsi un intervento illusorio e parziale, poiché i cambiamenti che si producono, anche se abbastanza evidenti, tendono a non essere stabili. Continue sono state, nella storia della psicoanalisi, le suggestioni sulle possibilità di intervenire non solo sul piano verbale ma anzi attraverso un agire che coinvolga a più livelli la relazione terapeutica. Ferenczi arriva a teorizzare una tecnica attiva portata direttamente sul corpo del paziente   “Pronunciando con tatto parole tranquillizzanti, magari accompagnate dalla pressione della mano e, quando ciò non bastasse, da una amichevole carezza della testa, si può infatti mitigare la reazione fino a rendere nuovamente accessibile il paziente” (Ferenczi S.1931) Così più avanti nella storia del pensiero analitico altri autori tendono a sondare limiti e significati dell’agire e della presenza del non verbale nel trattamento terapeutico. Racker “prefigura.” uno sviluppo della tecnica analitica nel senso di una sempre più complessa utilizzazione di tutti i processi messi in moto nella comunicazione. Balint non esclude la possibilità di contatti corporei col paziente, anche se non nelle fasi iniziali della terapia. This e Veldman utilizzano più direttamente il tocco sul corpo della persona come possibilità ulteriore di andare a stati più profondi e arcaici.

Un lungo anche se lento cammino di ampliamento delle risorse e delle tecniche terapeutiche è stato percorso dunque dal movimento analitico, o più generalmente       dalla psicologia clinica. Né d’altra parte il cammino avrebbe potuto essere troppo veloce. Vi sarebbe stato infatti il rischio che una critica eccessivamente reattiva alle terapie esclusivamente verbali e una sottolineatura unilaterale dell’importanza del corpo si rivolgesse nuovamente ad uno solo dei poli costitutivi della personalità umana.

Molti critici di inconsistenza nei confronti di numerose pratiche di body-therapy trovano il giusto fondamento proprio nel fatto che esse si muovono all’interno soltanto di uno dei livelli di funzionamento dell’organismo, incapaci di uscire da una mentalità “esperienziale”. Muovere solo il corpo potrebbe infatti rafforzare a livello emotivo significati molto lontani da quelli rimossi o incapsulati dalle tensioni muscolari; cosicché lungi dal pervenire ad una integrazione tra movimento ed emozione, ad una possibilità di esprimere parti del Sé soffocate ed atrofizzate, si possono sollecitare pericolose intensificazioni di scissioni già esistenti. Anche se in qualche caso l’individuo avverte sollievo ai suoi disturbi e piccoli miglioramenti, i risultati sono comunque aleatori perché i conflitti non sono stati toccati e la relazione transferale non ha avuto possibilità di modificare la caratterialità di rapporti e comportamenti. Allo stesso modo il permanere di irrigidimenti sul piano muscolare finisce per riattivare (attraverso vie profonde ma sempre aperte) comportamenti coattivi e sintomi precedenti. Bisogna dire però che il modello attualmente elaborato nell’ambito della Vegetoterapia è notevolmente più complesso ed articolato. Basti pensare a come ha perso di significato parlare di una scissione che investe unicamente lo psichico e il somatico. La struttura di ciò che definiamo “Sé corporeo”, presente come nucleo originario nel neonato, può essere considerata costituita dal concorrere di molteplici processi funzionali: dagli apparati di funzionamento fisiologico alle potenzialità immaginative e ideative; dalle forme e dalle strutture fisiche al piano delle emozioni; dai movimenti e dalle posture all’elaborazione cognitiva e simbolica. L’ipotesi principale di questa teoria è che si possono ritrovare tracce di funzioni nel mondo originario del bambino, in tutti questi ambiti, che sono compresenti in modo integrato, anche se a diversi livelli di sviluppo e di complessità. E’ solo successivamente, a seguito di “urti” eccessivi con un ambiente frustrante, incapace di accogliere e tollerare i nodi critici dell’espansione evolutiva e dell’aumento di complessità dello scenario affettivo e relazionale, che si modifica la situazione. Gli effetti che ne derivano sono costituiti da un’interruzione di continuità nel rapporto tra i vari piani di funzionamento, vale a dire tra altrettanti aspetti del processo comunicativo.

In altre parole l’individuo vede aumentare la distanza tra il Sé e l’ambiente esterno, proprio in quel campo percettivo-espressivo in cui più intense sono state le risonanza negative. In contemporanea si abbassa anche la possibilità di contatto con se stesso, di dialogo con le proprie parti, e dì consapevolezza di tutti i fenomeni che hanno luogo nel suo organismo. Nella pratica clinica ritroviamo numerosi sintomi e differenti patologie che ci possono rivelare una strutturazione di un cosiddetto falso Sé, di un insieme cioè di movimenti interni (nel senso più ampio della parola) percepiti in modo distorto, o eccessivo, fraintesi, razionalizzati o assolutamente assenti dalla coscienza. Il falso Sé costituisce l’aspetto comunicativo di fratture, sconnessioni, incongruenze che possono insorgere tra i processi di funzionamento del Sé corporeo, così come all’interno di uno stesso piano funzionale. Da questa impostazione teorica e terapeutica scaturisce il senso dell’intervenire sul “corpo”. Si tratta cioè di tenere in considerazione la molteplicità dei livelli su cui si svolge la scena della relazione; e non, come troppo spesso è accaduto, associare alla corporeità solo l’aspetto muscolare dell’organismo.    

Per comprendere meglio le ipotesi avanzate non dobbiamo dimenticarci di considerare la persona come un sistema, e per giunta un sistema aperto, cioè una struttura di cui fanno parte anche emozioni e vissuti dell’ambiente affettivo esterno, insieme a pensieri, movimenti di identificazione con gli altri,”pezzi” della vita di relazione con molteplici figure.   Possiamo allora arrivare a configurare un’unità di base che si sviluppa in varie direzioni, inizialmente integrate tra doloro, che definiamo Sé corporeo. L’espansione e il movimento generale del Sé corporeo sono costituiti da processi e funzioni che procedono in tutte quelle direzioni e che potremmo raggruppare in quattro grandi aree.

La prima è quella della struttura specificamente somatica: comprensiva delle forme, del corpo, delle configurazioni che assume la muscolatura, che insieme determinano posture e atteggiamenti.

In una seconda si ritrovano apparati e sistemi fisiologici (respiratorio, neurovegetativo, circolatorio, etc.), movimenti e funzionalità interni fino al microlivello cellulare (dalla peristalsi viscerale ai processi di ricambio chimico).

Uno spazio a sé viene assegnato alla vita affettiva ed emozionale, sia per l’importanza del vissuto e del sentito dell’individuo, sia perché spesso anche quest’area può patologicamente svilupparsi, senza conservare la completa connessione con tutte le altre.

L’ultimo di questi ambiti, per rimanere in un modello “quadrifunzionale”, racchiude le modalità di strutturazione del pensiero, logico-cognitivo, fantasmatico e immaginativo, fino alla rappresentazione del mondo attraverso simboli.

La strategia terapeutica, oltre a dover tener presente  l’insieme di tutti questi piani nelle loro caratteristiche e specificità, consiste nel riconnettere, ricollegare, ricucire pazientemente laddove ci sono state scissioni, interruzioni e fratture. Questo è possibile se si rispettano due assunti. Da una parte bisogna far regredire psico-somaticamente (cioè usando la molteplicità dei livelli del Sé corporeo) il paziente ad aree profonde dove è ancora intatta l’integrazione, cioè dove il movimento conserva ancora un senso emotivo e psichico in contemporanea. Dall’altra è necessario che la relazione, in cui gli esiti del vissuto trascorso sono condensati nel rapporto attuale col terapeuta, possa evolvere verso forme in cui l’antica separatezza ceda il posto ad una ricchezza ed ampiezza di mobilità, di espressioni, di comportamenti.

  1. è un uomo imponente che si è sempre basato su una forza, anche fisica e muscolare, più apparente e “mostrata” che realmente agita, incoraggiata dal fatto di aver dovuto affrontare precocemente le responsabilità e il peso della famiglia. Proprio a causa di questo gonfiarsi e irrigidirsi difficilmente egli è in contatto con le proprie sensazioni ed emozioni, specie quelle morbide, sottili, non eclatanti. Per lungo tempo il lavoro terapeutico produce, come reazioni in G., quasi solo senso di fastidio ed oppressione; mentre le percezioni interne si riducono ad un’elencazione fredda e meccanica di insignificanti cambiamenti percettivi.

Per poter superare l’anaffettività e l’assenza di movimenti emotivi egli deve entrare in contatto prima di tutto con quel sentimento, sempre negato, relativo al sentirsi debole, piccolo, bisognoso. Il terapeuta deve aver raggiunto per lui il significato di una persona consistente, decisa e serenamente solida, che può assorbire e contrastare il suo continuo “tirarsi fuori” dalle situazioni significative attraverso razionalizzazioni o scoppi di una rabbia eclatante quanto inconsistente. In contemporanea la terapia si rivolge ai distretti del collo e del torace per poter ritrovare, al di là della rigidità e della carenza di mobilità del tono muscolare, le profonde connessioni emotive.

Nel collo G. può sentire, al di sotto di un disperato, ostinato resistere, la sensazione di essere tenuto e sorretto; mentre nel torace comincia ad affiorare anche fisicamente il suo senso di fragilità unitamente alla necessità di ripartire da una debolezza finalmente accettata. L’agire del terapeuta, come si può dedurre da questo esempio, è sempre nella direziono di ampliare il campo percettivo, di spostare i limiti della gamma delle emozioni, di mobilizzare l’espressività psicomotoria. Ciò significa non tanto scontrarsi con le resistenze caratteriali, quanto piuttosto leggerle come carenza di connessioni con gli altri livelli del Sé corporeo. Sono tali connessioni con gli altri livelli che possono ricostruire i significati degli atteggiamenti ripetitivi e coattivi del paziente, e di conseguenza riempire dal di sotto e dal di dentro quel vuoto e quella rarefazione di mobilità che impedisce sia il contatto sia la possibilità di cambiamento. Il lavoro terapeutico sul tratto caratteriale è insomma sì quello di metterlo in evidenza, dando spazio al transfert negativo, ma senza tralasciare di far sperimentare alla persona movimenti verso un “nuovo” che si può delineare fin dalle fasi iniziali della terapia stessa (nuove strategie, nuovi modi di pensare e di vedere, nuovi orizzonti percettivi).

Ciò può verificarsi se quanto sembra nuovo viene in realtà considerato come l’effetto di una ricongiunzione di livelli e di parti, che nell’infanzia sono state tagliate fuori dalla consapevolezza, pur rimanendo visibili nel serbatoio costituito dalla memoria muscolare e periferica, la cosiddetta “memoria corporea”.

  1. soffre di fobie gravi, che si concentrano soprattutto nella paura dei propri pensieri e di idee fisse che irrompono al di là della sua volontà e le impediscono completamente di vivere. Nel corso dell’intervento terapeutico la mobilizzazione muscolare produce stranamente sin dall’inizio risultati apparentemente positivi: percepisce movimenti interni, formicolii, correnti che sembrano arrivare sin nelle gambe. La “respirazione” a prima vista riesce a produrre effetti anche al di fuori della seduta.

Eppure la paziente vive questa mobilizzazione in modo distaccato e apatico; il suo apparato muscolare, i suoi sistemi fisiologici sembrano vivere una vita completamente a parte, come racchiusi in se stessi. In effetti non si hanno miglioramenti sostanziali dei suoi sintomi, se non a periodi alterni e con discontinuità. I ricordi dell’infanzia emergono con un discreto collegamento con l’emotività ma non creano brecce nel suo stato patologico attuale. B., pur potendo sospendere gli psicofarmaci già dopo una decina di sedute, continua a sentirsi fortemente impaurita di quello che le sta accadendo e le potrà accadere. Ma c’è qualcosa che può essere colto dal terapeuta solo se egli utilizza l’analisi comparata delle funzioni del Se corporeo. Un “movimento” che riporta ad un’area integrata, ad  una zona del nucleo originario del Sé. E’ infatti solo ricostruendo faticosamente il significato e il senso, contemporaneamente, della vita che B. ha passato in famiglia e dei cambiamenti che avvengono all’interno del suo corpo, che riprende vitalità una funzione che era andata sconnettendosi e scindendosi dalle altre. Ricomincia man mano a ritrovare spazio e collegamenti il mondo di simboli e significati, quella sfera dell’esperienza, cioè, in cui pensiero e realtà possono trovare un avvicinamento e un sostentamento reciproco. Durante la terapia si producono sogni nei quali il movimento integrato tra questi piani viene “rappresentato”, inducendo ad approfondimenti successivi. E’ qui che il significato e il senso del suo essere donna cominciano a dipanarsi, sia nei confronti di una complicata relazione con la figura materna, sia per quanto riguarda il suo aspetto somatico (così significativamente adolescenziale)), sia infine nel rapporto attuale con il partner maschile. Gli effetti della terapia si stabilizzano proprio in questa sfera e il terapeuta comunica con B. direttamente con i significati profondi e distorti che si sono andati stratificando nel corso della sua vita. Le sue fobie cominciano ad acquisire un senso nel momento in cui si riconnettono ai suoi rapporti con la madre e con i fratelli da un lato, e ai movimenti strani e paurosi che avverte sempre più distintamente nel suo corpo dal l’altra. Mobilità e paure si aiutano a vicenda nel delineare il piano profondo del suo disagio, di quella sensazione dello “star male” mai accettata e riconosciuta nella vita trascorsa. Quello che emerge da questi sintetici esempi, e che vogliamo qui porre in evidenza, è la necessità di muoversi con continuità su diversi livelli contemporaneamente (ma non su tutti quanti insieme) per riuscire a penetrare nelle aree integrate del Sé corporeo originario. Questo è possibile se si sceglie come strada quell’insieme di funzioni del Sé corporeo che presentano un minor incapsulamento, o in altri termini un minor ispessimento del falso Sé. Ne consegue che nella relazione terapeutica è importante, a seconda del caso e della fase in cui ci si trova, “toccare” e “parlare” insieme, oppure connettere il “movimento” con i “ricordi” infantili, la “voce” con le “tensioni muscolari”,  “emozioni” e “posture”, “movimenti interni” e “percezioni” e così via. Se a volte è necessario isolare un singolo livello di funzionamento, per meglio mettere a fuoco i processi irrigiditi che in esso si ritrovano, molto più spesso riteniamo che l’intervento si appunti in un operare in modo integrato. Vogliamo cioè riferirci a questo riconnettere e ridare senso, pian piano e gradatamente, al di là di apparenti e plateali esplosioni emotive o motorie, che possono ricoprire un aspetto esperienziale ma non certamente terapeutico.

In questa visione il terapeuta può essere guidato anche dalla traccia della stratificazione emozionale, cioè dal sedimentarsi ed intrecciarsi degli esiti delle relazioni tra bambino e ambiente affettivo, sia rispetto a varie gamme di emozioni, sia rispetto a quelle parti del corpo implicate di volta in volta, nelle varie fasi di sviluppo evolutivo, attraverso la percezione e l’espressività. Il terapeuta quindi, lungi dall’assumere una posizione fissa di contatto nutritivo e protettivo o di distanza adulta o ancora di contrapposizione e di scontro, si muove di continuo tra queste varie modalità di agire (e in tutte le posizioni intermedie), intersecandosi con le strutture caratteriali del paziente, in un gioco che mette in risalto vecchi schemi e vecchi ruoli, consuete immobilizzanti figure affettive da una parte; ma anche finalmente nuove modalità di interagire e di essere, relazionalità riscoperte e rinnovate che permettono di condurre il rapporto terapeutico ad un ricongiungimento di passato e presente, di percezione ed espressione, di transfert e di controtransfert.