Psicoterapia: Costruzione del Sé nell’infanzia e nell’adolescenza.

Centro Studi W. Reich Catania 23/25 Gen., 1997.

Quando si parla di identità ci si riferisce alla costruzione del proprio mondo interno, all’insieme di valori basilari, all’immagine di sé; ma anche al modo di muoversi, di parlare, di esprimere: posture, atteggiamenti del corpo, sensazioni. Prevenire alterazioni e disfunzioni durante l’infanzia e l’adolescenza, permette di garantire la salute degli esseri umani adulti.


Fini e modalità di una nuova attenzione all’infanzia

Partiamo dalla fondamentale constatazione che le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, sono prima di tutto “persone” e che dunque non c’è un vero salto di discontinuità con l’età adulta. Questo deve far porre allora, al centro di ogni società, lo sviluppo dell’essere umano e la possibilità di accrescere di significato la sua identità e la sua esistenza, proprio a cominciare dai suoi primi anni di vita. Finalmente si comincia a parlare di “attenzione restituita” all’infanzia e all’adolescenza; ma bisogna che questa attenzione non resti un ascolto generico e distaccato, un dare spazio solo ai casi limite, quelli più strazianti e dolorosi. Deve invece imporsi una sensibilità diffusa per le condizioni di vita di queste età così importanti e delicate, un’attenzione verso il malessere o il benessere quotidiani, verso i bisogni ‘profondi e fondamentali dì tutte le bambine e di tutti i bambini. Dunque non si tratta solo di creare occasioni, spazi, eventi, maggiore permanenza a scuola; non si tratta di agire per agire, ne di far partecipare i piccoli tanto per farli partecipare. Anche lo sport, infatti, può divenire competizione ansiosa, così come la scuola luogo di conferma delle proprie inadeguatezze, il gioco un impegno ossessivo e spossante, il protagonismo un peso precoce e paralizzante. Quanti bambini sono sempre più spesso trascinati in un frenetico correre da un’attività pomeridiana all’altra, dallo studio alla danza, al pianoforte, alle lingue allo sport? Quanti rimangono imprigionati da ansie e malesseri in questa ossessione del “fare”, senza una reale soddisfazione ne per sé ne per i propri genitori? E quanti di contro vengono abbandonati a loro stessi in un deserto di proposte in cui l’unica possibilità resta la televisione? Oppure vengono buttati da subito nella mischia per la conquista di un molo e di uno spazio nelle leggi spietate della strada, della povertà, della delinquenza?

Dunque l’essenziale è la modalità con cui viene messo in atto qualsiasi intervento, il tipo di relazione che si instaura tra adulti e bambini, le finalità che ci si propone.

E le finalità non possono che andare in due direzioni fondamentali. Una è quella .di prevenire il malessere, badando a conservare l’integrazione originaria del Sé, la pienezza delle potenzialità già esistenti nelle bambine e nei bambini, la gamma di tutti i possibili comportamenti necessari nelle varie situazioni di vita. L’altra è l’attenzione tesa a rinsaldare i nuclei profondi del Sé costruendo un’ identità scevra da rigidità, da stereotipi, da ingabbiature.

L’identità

Quando si parla di identità ci si riferisce alla costruzione del proprio mondo interno, all’insieme di valori basilari, all’immagine di sé; ma anche al modo di muoversi, di parlare, di esprimere: posture, atteggiamenti del corpo, sensazioni. Oggi sappiamo che colpo e mente sono un’unità inscindibile e che nel corpo si scolpisce tutta la nostra storia. E lì vi rimane “incapsulata”, alterando il nostro funzionamento libero e vitale, limitando capacità,  espressioni, emozioni, comportamenti. Lì sono racchiusi gran parte dei nostri stereotipi. L’identità, il Sé, si possono arricchire durante lo sviluppo aprendo prospettive e potenzialità di vita, o rinchiudersi in sfere limitate che impoveriscono la persona, le tolgono significato, innescano conflittualità con altre identità e altre persone. Ora, una delle componenti più importanti dell’identità è quella di genere: il maschile e il femminile, essere donne e essere uomini; che è alla base di difficoltà e squilibri nella nostra cultura, di scompensi tra le condizioni di vita delle donne rispetto a quelle degli uomini. E tali scompensi e squilibri ancora ima volta nascono nell’area dell’infanzia, in quello spazio-tempo in cui si definiscono gran parte delle linee dello sviluppo e della vita futuri.

L’infanzia

Oggi sappiamo con certezza quale grande importanza abbiano l’infanzia e l’adolescenza per la salute degli esseri umani adulti. Abbiamo la consapevolezza scientifica che per conservare vitalità e benessere anche da grandi, i bambini debbano trovare protezione, calore, serenità, e soprattutto soddisfazione dei loro bisogni fondamentali, sino a che non siano pronti ad andare nella vita. Il piccolo dell’essere umano non è già tutto programmato come gli altri mammiferi, ma deve imparare i programmi necessari per cavarsela nella comunità degli adulti, e acquisire le conoscenze culturali e scientifiche accumulatesi in secoli di storia. E’ perciò che non è pronto ad affrontare la complessità del mondo prima dei 15-16 anni, e durante tutto questo periodo ha estremo bisogno di aiuto e di appoggio, così come lo hanno i cuccioli degli altri mammiferi nel loro periodo di dipendenza e di necessità. E come gli altri cuccioli, anche i nostri bambini dovrebbero ricevere protezione in modo pressoché “totale”.

Altrimenti cosa accade?

Accade che si perdono l’integrazione e il benessere originari. Tutte le persone che ricorrono ad un aiuto psicologico rivelano storie dolorose e difficili nella loro infanzia; sempre. Se non c’è protezione sufficiente e attenzione ai bisogni fondamentali si formeranno pericolose alterazioni del nucleo profondo del Sé: perdita di contatto con le capacità vitali, disagi, malesseri. Se si lacera la continuità delle esperienze positive, il bambino vivrà ogni cosa come precaria, pericolosa, angosciante. Per lui non sarà più una certezza che la vita porta gioia e benessere. Si instaurerà piuttosto una paura ossessiva e patologica quando il bambino è costretto ad assicurarsi da solo e troppo precocemente la sopravvivenza, ad occuparsi troppo presto di sé e ad affrontare senza protezione le difficoltà della vita. Il nucleo del Sé, reso fragile e insicuro, si aggrappa a immagini esteriori di forza e di certezza, tenta di compensare le carenze profonde inseguendo false sicurezze: il potere sugli altri, il voler dominare, il facile successo, la violenza, il denaro a tutti i costi. Oppure cede alle angosce e finisce per sentirsi debole, sopraffatto, schiacciato; e si fa schiacciare.

La sclerotizzazione dei ruoli

Ma anche se non ci si rivolge verso casi così estremi, anche se si guarda alla vita quotidiana e a persone normali, ritroviamo sempre una polarizzazione di questo tipo: quelli che schiacciano, che cercano a tutti i costi di essere protagonisti, che si propongono, che si lanciano verso il potere; e quelli che restano nell’ombra esageratamente, che rinunciano, che non riescono a proporsi pubblicamente, che temono il potere, che subiscono. E nella maggioranza dei casi accade che i primi siano uomini e le seconde siano donne.

Tutto questo non è “naturale”.

Troppo spesso pensiamo che il nostro modo di essere maschi o femmine sia naturalmente così, determinato dalle cellule del nostro corpo (così come dagli organi sessuali che possediamo). Il sentirsi donna o uomo, l’identità maschile o femminile, è invece qualcosa che viene influenzato da tanti fattori che vanno al di là di quelli biologici che possediamo dalla nascita. L’identità è influenzata dalla società in cui viviamo, dalle idee che le persone appartenenti a tale società condividono, si forma nella nostra crescita attraverso l’educazione e i messaggi trasmessi dalle nostre famiglie, e non ha caratteristiche di comportamento e di carattere “per natura” maschili o femminili. L’identità si fonda su molteplici componenti, che risiedono sia nel corpo che nella mente, in un’unità inscindibile. L’aggressività (intesa in senso positivo come capacità di andare verso) e la forza possono “polarizzarsi” esageratamente nei due sessi, andando nelle due diverse direzioni che abbiamo prima descritto. Una sana forza, invece, ima forza calma e serena (che non significa attaccare l’altro) è una componente fondamentale dell’agire, del proporsi, del percepirsi capace, del sentirsi saldi. L’identità si costruisce nell’infanzia e, come sempre, vi concorrono vari piani del Sé: il simbolico, le emozioni, i ricordi, ma anche il corpo, i movimenti, il modo di essere e di percepire. Troppo spesso nello sviluppo delle bambine questi elementi sono carenti; mancano l’orgoglio di appartenere al proprio sesso, la consapevolezza dell’importanza e della forza delle donne, la conoscenza della loro storia (nella società ma anche nella propria famiglia). Di contro, negli uomini questi elementi possono essere iper-sviluppati, troppo forti e troppo presenti. E in più i valori tipici che si attribuiscono al maschile e al femminile sono esasperatamente stereotipati; forza, sicurezza, capacità di decidere, razionalità, da ima parte; fragilità, passività, intuizione non razionale dall’altra. Gran parte di questi elementi dell’identità sono dati dalla trasmissione di valori attraverso le parole; ma è molto maggiore la parte che si iscrive più profondamente nelle bambine e nei bambini, e che passa direttamente attraverso il corpo, che passa più inosservata ma in modo molto più sottilmente potente.

L’identità nel corpo

Per il sesso femminile

L’esperienza prevalente a cui sono sottoposte le bambine, durante il periodo di sviluppo sia infantile che adolescenziale, è fortemente caratterizzata da un insieme di regole educative che hanno per effetto quello di tagliare via dalla struttura complessiva della persona alcune fondamentali capacità: la capacità di sentire ed esprimere la propria forza, la capacità di proporsi, il lanciarsi, la piena autostima e la completa autovalutazione, la sensazione di poter affrontare e smuovere difficoltà. Tipiche di questa educazione sono infatti: un dover trattenere il movimento, una impossibilità a sperimentare la forza, anche e soprattutto sul piano muscolare, un’attuazione a volte ossessiva del controllo, che sin da precocissima età viene motivata come necessità di un comportamento “composto”, “manierato”, “non irruento”, l’unico adatto ad una “femminuccia”. Dall’altro versante questo tipo di educazione familiare viene supportato da una differenziazione stereotipata e culturalmente molto radicata tra ruolo femminile e ruolo maschile, attraverso i giochi, i giocattoli, le libertà accordate, le esperienze permesse agli imi e alle altre, attività e passività, rudezza e gentilezza, e così via. Alla donna viene riservato generalmente un ruolo caratterizzato da fragilità, passività, rassegnazione. Il giocare a pallone, il poter correre sfrenandosi, i giochi di forza, il poter gridare e perdere compostezza sono tutte esperienze inibite alle donne, mentre sono incentivate, anche eccessivamente, nei maschi.

Per il sesso maschile

Vi è una opposta sclerotizzazione stereotipata dell’educazione dei maschi, ai quali è invece resa molto difficile l’esperienza infantile e adolescenziale della tenerezza, della fragilità, del sentirsi debole, del pianto, del poter sperimentare l’accudimento di un altro essere piccolo, e cosi via. Mancando questo aspetto, l’aggressività, la capacità al movimento sfrenato, la forza, che vengono eccessivamente incentivate, portano a distorsioni nel senso della durezza, competitivita esagerata, sopraffazione e violenza. Da qui l’importanza del concetto di modularità: poter modulare cioè e far spaziare il proprio comportamento nell’arco di una gamma che si estende fra due estremi. Non è il discorso dello “stare in mezzo”, ma bensì quello del poter sperimentare, esprimere e sentire tutte le possibilità di una gamma di funzionamento che si estende fra due polarità. Se manca una polarità della funzione, della gamma, l’altra sarà distorta. Se manca la durezza la tenerezza (l’altro capo della gamma) non sarà veramente tale, ma passività inerme, sottomissione, mancanza di solidità. Viceversa se manca la tenerezza la durezza diverrà fine a se stessa, gratuita, spietata, e non sarà ima vera consistenza. I funzionamenti della persona restano allora incompleti, la persona stessa è incompleta, alterata nel suo Sé complessivo.

Nei maschi, la distorsione dell’aggressività diventa durezza, insensibilità, competizione sfrenata, sopraffazione, aggressione violenta, violenza sadica che tende a sfogarsi sui più deboli (donne in primo luogo e bambini); frequente sarà la tendenza a scaricare le frustrazioni sociali e lavorative fra le mura domestiche.

Nelle femmine invece può diventare aggressività indiretta, lamentosa, ricattatoria, resistenza passiva, tendenza ad essere oppressivi e repressivi all’interno del proprio nucleo familiare.  L’incapacità ad esprimere direttamente l’aggressività, a sentire la propria forza, a sapersi proporre ed affermare porta come conseguenze per le donne:

a una condizione di cronica sottomissione, di incapacità a difendersi, di convinzione di dover subire sempre, che sfocia nella depressione (livello soggettivo);

alla riproduzione degli stessi meccanismi nei figli, che ancora, specie da piccoli, nelle età più delicate per lo sviluppo della persona, sono accuditi per la massima parte solo dalle madri (livello familiare);

a difficoltà di accesso per le donne ai luoghi decisionali, ai posti di potere, di vertice di organizzazioni e istituzioni: le donne si tengono lontane dai punti decisionali, dove devono esibirsi, scontrarsi, affrontare le situazioni (livello sociale).

Conclusioni

Dal momento che oggi conosciamo più a fondo questi meccanismi, possiamo comprendere meglio come intervenire per modificare una radicalizzazione così esasperata e dannosa dei ruoli e delle funzioni maschili e femminili; dannosa per le vite dei singoli ma dannosa anche per l’equilibrio della società tutta. Diventa allora possibile pensare di incidere realmente sulla costruzione delle storie delle bambine e dei bambini; recuperare quanto di migliore c’è in entrambi i sessi, e soprattutto utilizzare le qualità specifiche del femminile e delle donne come grande forza di cambiamento della società, come recupero di valori, di emozioni, di modalità di essere sino ad oggi troppo sacrificati. Si potrebbero allora pensare progetti che vadano in questa direzione; progetti non più utopistici ma concreti e basati su elementi ben precisi e ben definiti; elementi a volte piccoli e semplici ma capaci di innescare grandi cambiamenti.