Luciano Rispoli psicologo: Dalla psicologia idealistica al modello del Sé Corporeo.

in Fogli di informazione n. 125,  Pistoia, 1987.

L’autore esamina alcuni parametri fondamentali della psicologia idealistica, della psicanalisi, del freudo-marxismo, della psicologia concreta, approfondendo il pensiero di W. Reich teso a dare un fondamento materialistico alle teorie degli istinti e a cogliere dialetticamente i processi psichici. Approfondito il concetto di struttura caratteriale e di peste emozionale, si esaminano i rapporti tra psichismo e organizzazione economica e sociale in rapporto alla coscienza, razionalità, strutture psichiche, rapporti e funzioni. Si sviluppa quindi la concettualizzazione del sé corporeo in rapporto a quattro piani: storico-culturale, sociale, gruppale e comunicazionale. Si analizzano poi invarianti tipiche della nostra società come l’apparire, il look, il senso di solitudine, la complessità e velocità delle informazioni sottolineando i diversi livelli di stratificazioni e le sconnessioni e scissioni tra piano cognitivo ed emotivo, tra piano posturale-psicologico e quello cognitivo, e all’interno stesso di quest’ultimo, che stanno alla base di disturbi psichici e psicosomatici.


I problemi di impostazione e di sistemazione epistemica della scienza psicologica, agli inizi del secolo, sembrarono incentrarsi su due punti principali. Da un lato si andava man mano abbandonando una metodologia fortemente connotata in senso soggettivistico, per inseguire il sogno di una scienza della realtà e dell’oggettività. Così il Realismo in psicologia significo sempre più preferire al piano della I persona quello reso possibile da uno studio basato sulla III persona. L’altra trappola in cui rischiò di cadere la psicologia fu quella del Formalismo, della necessità di trovare assolutamente leggi di funzionamento cosi generali che spesso poteva essere persa di vista l’esistenza degli individui concreti. Nella necessità di ovviare a questi due grandi opposti pericoli, la ricerca cercò di  riaccostarsi all’individuo concreto restituendo il fatto psicologico al soggetto come protagonista principale dell’accadimento stesso. Venne cosi ridata vita all’introspezione, non intesa nel vecchio senso wundtiano, ma come analisi di percezioni tutto sommato di tipo particolare, “sui generis” rispetto a quelle ordinarie della fisicità del reale; come conoscenza specifica particolare “immediata”, che in qualche misura era differente da quella “mediata” da prove, deduzioni e verifiche della altre discipline scientifiche. Una spinta determinante in questa direzione l’aveva data l’interpretazione psicoanalitica, che correggeva l’“ingenuità” di basare la ricerca e la comprensione soltanto sul proprio vissuto. Il racconto fornito dal soggetto viene, infatti, portato su di un altro livello: il significato nasce dall’incontro fra paziente e terapeuta, sentito e osservato, I e III persona; e nasce dal e dopo il racconto dell’esperienza. L’ipotesi basilare di contenuti latenti elimina l’illusione illuministica che la persona può da sola dar senso a tutti i suoi atti. Paradossalmente possiamo dire però che proprio l’Inconscio costituì un punctum dolens della nuova metapsicologia freudiana. Per taluni studiosi e sotto certi aspetti, esso rappresentava un residuo di un realismo antecedente, come tentazione di ritrovare un frammento di realtà immanente nella vita umana e nel suo intimo. Per altri versi, invece, costituiva un pericoloso tramite verso un idealismo non galileiano, data la trascendenza dei suoi contenuti e l’astoricità con cui essi sembravano pre-esistere all’individuo, come “mondo platonico delle idee” in cui tutto è presente prima di realizzarsi e passare al livello conscio. Da alcune di queste critiche e dalle prime dissidenti teorizzazioni di Wilhelm Reich nasce una corrente di pensiero che prende il nome di freudo-marxismo, nel tentativo di riutilizzare le importanti ipotesi psicoanalitiche in modo non contrastante con una visione del mondo dialettica, materialistica e storicistica. Politzer, ad esempio, sostiene che l’essenza del fatto psicologico si determina si sul terreno delle relazioni (che lui definisce “drammatiche” nel senso greco della parola, cioè come rappresentazione di conflitti) ma chiarisce che le relazioni non sono avulse dai rapporti sociali definiti dalle leggi dell’economia.

Negli anni ’30 il freudo-marxismo si diffonde anche in Francia. Jean Audard ripropone il materialismo dialettico applicato alla psicoanalisi: una sintesi, cioè, già ipotizzata da Reich. In URSS Vygotskij, Leontev e Luria compiono studi neurofisiologici nella speranza di fondare una vera e propria psicologia materialista. Negli anni ’45-’47 il movimento della Nuova Psichiatria riprende la critica politzeriana alla psicoanalisi, come incapace di affrontare i problemi istituzionali e sociali del malato, “rinchiuso” ed “emarginato” nei lagers manicomiali. Su un versante opposto Lacan e Althusser giungono all’impossibilità di riconoscere un’esistenza scientifica al soggetto psicologico, eliminandolo dunque come centro di conoscenza su più livelli, in senso generalizzabile. Essi decretano, in qualche misura, la non liceità di una scienza psicologica del soggetto che non sia quella delle “matrici simboliche”; cioè quella che vede l’uomo inserito in un rapporto di comunicazione linguistica, in una rete di significati formali. La conseguenza è che questa scienza non può più essere in connessione col materialismo storico ma solo, al massimo, con quello dialettico. Seve, invece, continua a credere in una scienza complessiva e globale della personalità storico-sociale. Non esiste per lui un parallelismo tra psicoanalisi e marxismo, ma piuttosto si deve parlare di una vera e propria ristrutturazione critica dell’intera costruzione teorica freudiana. I poli antitetici dei fondamenti epistemici ora si spostano verso i pericoli di un esagerato psichismo da un lato e di uno spinto biologismo dall’altro. La Psicologia idealista continua a credere in strutture aprioristiche, in significati preesistenti, solo mediante i quali è possibile capire e spiegare la realtà. La Psicologia materialista, invece, cerca di comprendere e spiegare fatti reali utilizzando altri fatti reali e concreti. In fondo i modi in cui il pensiero viene prodotto dal cervello, la relazione psicologica, sono forme determinate e storicamente relative. Ciò che non muta, secondo questa corrente di pensiero, è il carattere di realtà obiettiva del CORPO, da cui si produce il pensiero. La critica alla psicoanalisi idealista continua attraverso la considerazione che una concezione in fondo metafisica si ritrova anche nei conflitti dualistici, Bene-Male; Principio del piacere-Principio di realtà; Istinto di vita e di morte. Il conflitto reale tra istinti e ordine sociale vigente viene cosi ad essere occultato, perché trasformato, alla fine, in un conflitto Ideale solo tra istanze psichiche dell’individuo. In realtà,oggi si fa sempre più pressante la necessità di costruire una scienza psicologica su un altro livello rispetto a questa “ancienne querelle”, e cioè su strutture e sistemi dai quali la persona può considerarsi costituita, con la sua totalità di corpo e di storia dei processi evolutivi, emozionali, fisiologici, in aperta e complessa relazione con un ambiente totale, anch’esso in uno con la sua storia sociale e con quella delle strutture economiche e fisiche. Ma torniamo a quanto Reich proponeva nella sua ipotesi di sintesi freudo-marxista, attraverso una concezione dello psichico e del corporeo che arriverà ad individuare una cosi profonda distorsione delle strutture caratteriali da definirla “peste emozionale”. Per Reich fu importante dare un fondamento materialistico alla teoria degli istinti e al contempo fornire di una forma dialettica i processi psichici. Il desiderio viene rimosso, ad esempio, quando contrapposto troppo brutalmente ad una realtà esterna/frustrante; la nuova sintesi, che nasce dalla dialettica tra tesi e antitesi, è che esso si trasforma su di un altro piano in angoscia senza più essere riconosciuto nella forma primitiva. Cosi il sintomo non è altro che la sintesi di contenuto emozionale da un lato e resistenza antitetica dall’altro. I processi psichici trovano una loro polarità inoltre nella dialettica tra tensione e distensione; e via di questo passo. Reich ritiene in definitiva che se si applica correttamente il materialismo dialettico alla Psicologia si potrà ottenere una Psicologia sociale marxista. Ma se si estrapola il metodo psicoanalitico ai problemi della sociologia e della politica, non si farà altro che scadere in una sociologia metafisica psicologizzante. La struttura caratteriale è l’ipotesi concreta con cui Reich vede un ponte tra individuo e sociale. Oggi noi non la consideriamo più come qualcosa legato soltanto ad una dimensione di rigidità della persona, ma piuttosto come l’intera costellazione dei meccanismi di difesa messi in atto nella relazione con il mondo. La struttura caratteriale, cioè, comprende i modi in cui ognuno di tali processi è stato realizzato, le capacità del bambino di metterli in atto relativamente ad un determinato periodo della sua storia evolutiva, l’intensità delle reazioni difensive alle frustrazioni, e gli esiti che esse hanno avuto come sbocchi effettivi sulla realtà e nelle relazioni sociali.

In questo senso più che di ambiente, contrapposto all’individuo, concetto fortemente connotato in senso etologico e neofreudiano, come entità preesistente in cui il neonato sarà poi “immerso”, dovremmo correttamente parlare di sistemi come prodotti culturali di trasformazioni fisiche e sociali continuamente e circolarmente in atto. Dunque per Reich l’esistenza di una rigida caratterialità (di una bassa mobilità funzionale direi oggi) trasforma l’individuo, privandolo del contatto sia con la realtà esterna che con quella dei propri bisogni più profondi. La persona diventa incapace di critica, si adegua ai bisogni indotti, si sottomette al potere trasponendo nei suoi simboli tutte le speranze di un suo concreto miglioramento di vita. Socialmente parlando, tutto ciò in una visuale massificata è proprio la peste emozionale, qualcosa che facilmente si contagia, specie nei bambini attraverso un’educazione repressiva e immobilizzante. Reich individuava in ciò la medesima storia che si è verificata con le vicende di Cristo o di Giordano Bruno, uccisi dalla menzogna, dalla peste emozionale, da un delitto contro la vita.

Vediamo, in alcuni esempi da lui proposti, come si distorcono emozioni ed atteggiamenti:

– dal capire il prossimo → al perdonare tutto

– dall’umiltà  → alla sottomissione

– dall’idea di un capo che non abbandona i suoi → alla necessità di essere stato crocifisso per liberare dai peccati

– dall’amore per i figli  → al possesso

La peste emozionale viene paradossalmente (ma non tanto) protetta dalle sue stesse vittime, proprio perché è interna alle deformazioni caratteriali, e cioè non può essere vista ne compresa da coloro che ne sono affetti. Reich chiarisce che fino ad allora non era mai stata veramente individuata in modo netto la sua origine, e cioè le frustrazioni, il diniego e la mancanza di sbocchi alle pulsioni verso il Bene, la Vita e l’Amore. Bisogna però dire che in tal senso questo concetto acquista una connotazione mistica e religiosa, definendosi sempre più come “peccato” contro la vita. Più interessante è invece vedere come Reich individui il meccanismo mediante il quale gli individui finiscono per accettare e subire passivamente condizioni di oppressione e di ingiustizia. Egli ritiene le condizioni economiche, le quali agiscono direttamente sulla qualità della vita, come un rinforzo, attraverso i loro effetti, della struttura ideologica della società che spinge nella stessa direzione, ma indirettamente. L’ideologia è concepita cosi come una vera e propria forza che agisce sulla realtà. Esistono numerosi processi intermedi che trasformano le basi materiali e il tessuto socioeconomico in ideologie. E queste ultime retroagiscono massicciamente sul piano degli individui, arrivando a modificarne persino la struttura psichica. In altri termini i rapporti sociali trasformano i bisogni umani. Istinti e bisogni trasformati danno vita alle concezioni, ai valori, alla morale, cioè all’ideologia. Essi sono dunque dei vari fattori storici, una forza materiale che incide sulla organizzazione interna degli individui e, tramite questi, sulla organizzazione economica e sociale.

Sulla stessa onda della psicologia concreta politzeriana, Reich sostiene che l’uomo modificato agisce concretamente nel reale e nel sociale, in modo contraddittorio ai suoi bisogni effettivi. Nel suo agire costituisce una forza attiva che concorre a quell’effetto retroattivo dell’ideologia sociale sulla struttura economica. Le strutture psichiche e caratteriali hanno una notevole inerzia, però, rispetto ai rapporti sociali da cui sono scaturite durante l’infanzia. Questi ultimi, continua Reich, si sviluppano più rapidamente, ed è perciò che le persone nevrotiche, non avendo più capacità di progettarsi e modificarsi, entrano in conflitto con i modi di vita che si succedono a quello in cui esse si sono “formate”. Le contraddizioni con le nuove generazioni o con parti di sé nascono da questo fenomeno e producono pensieri ed azioni non in armonia con le proprie reali esigenze, irrazionali, caratteristici della psicologia di massa. Ci sembra importante a questo punto guardare a quelle scoperte fondamentali sulla vita psichica dell’uomo che hanno avuto effetti irreversibili sulla costruzione di modelli psicologici cimici, raggruppandole sinteticamente in questi 4 punti:

1 ) La coscienza e la razionalità sono solo una piccola parte della vita psichica. Perciò accadimenti che sembrano “insensati” hanno invece una funzione ed un senso comprensibili se si inseriscono su di un piano più ampio, collegato a tutti i processi evolutivi della persona.

2) Le strutture psichiche non possono essere studiate limitando l’indagine ad un solo ambito, ma connettendo la persona con il sociale, con le strutture economiche, cosi come il “soggettivo” va interconnesso con una certa “oggettività” e “visibilità” dei fenomeni.

3) Significativo nello psichismo non è tanto ciò che la persona ha dentro, ma “come” si esprime e si manifesta nella relazione con gli altri e quindi sui complessi e molteplici piani in cui questa si sviluppa e si articola.

4) I processi del Sé si muovono su numerose funzioni che attengono a piani corporei, fisiologici, emotivi, cognitivi, in una caratteristica di interrelazione a più vie e a continui feedback tra di essi. E’ interessante allora analizzare disfunzioni, dislivelli, scissioni tra differenti processi e nell’ambito di un medesimo piano di funzionamento.

Perciò un modello psicologico clinico deve oggi poter contare non solo su una coerenza delle proposizioni che lo compongono o di quelle che lo possono in ogni momento arricchire, ma anche sulla possibilità di tenere in considerazione ricerche e risultati che si svolgono in discipline scientifiche attinenti. Un modello clinico non può quindi non attingere dall’osservazione diretta del bambino e dagli studi sui problemi evolutivi: anzi deve poter contenere al suo interno ipotesi sulla crescita, sulle modificazioni del modo di essere alle varie età, e sulle alterazioni funzionali come cause eziopatogenetiche del disagio psichico. Il modello del Sé corporeo che io propongo è un tentativo di rispondere a queste esigenze attuali sviluppando, in una verifica e in una ricerca più circostanziate e arricchite di dati, il pensiero di Reich. Da una parte questo modello si avvale di ipotesi iniziali che tengono conto delle storicità dei processi. La pulsione originaria alla conoscenza, attraverso molteplici piani di azione presenti sin dalla nascita del neonato, può, scontrandosi con il non accoglimento dei bisogni vitali, rafforzare le espressioni e le emozioni ostili e negative, fino a farle diventare una vera e propria struttura di falso Se antisociale. Ciò però significa che l’inconscio non è altro che il rimosso, ed è cioè storicamente e socialmente determinato, cosi come lo sono le forme attraverso cui si ricerca la gratificazione o avviene la repressione. In tal senso l’Emozione non è soggetto storicamente determinato di per se, cioè come unità minima significativa di atto psicologico. Ci può, invece, a questo proposito, aiutare la concezione caratteriale della struttura emotiva. Il carattere non è un dato genetico e immutabile, ma è un prodotto concreto della relazione, come configurazione complessiva, ma non generica, della storia degli adattamenti, delle connessioni e delle alterazioni di processi funzionali. La caratteristica precipua della condizione sociale e culturale dell’epoca post-industriale può essere allora letta anch’essa alla luce di più livelli che si incrociano, e che determinano poi un vissuto personale sentito come frammentazione, separatezza o disgregazione.

Questo tessuto emozionale individuale si riscontra fondamentalmente nelle relazioni duali o multiple e si definisce nella misura in cui noi riusciamo a connettere:

   1) il piano storico-culturale;

   2) il sociale;

   3) l’interindividuale o gruppale;

   4) le strutture delle comunicazioni.

      1 ) Sul primo livello sembra oggi affermarsi la necessità di verificare se si è capaci di farcela con le proprie forze; una sorta di ideologia del vivere da soli, connessa con un rifiuto delle passate identificazioni. Non ha più senso l’eroismo, il doverismo, l’abbracciare l’amor patrio; non ci si sente grandi, ne ci si consola delle proprie sofferenze se ci si immerge nelle “ragioni” del proprio paese, o del grande gruppo cui si appartiene (grande famiglia, gruppo aziendale, classi sociali, etc.).

      2) In connessione con le modificazioni della visione della vita sono poi quelle del modo concreto di vivere. Le famiglie si sono sempre più ridotte a nuclei ristretti di coppie con pochi figli. Le case hanno visto diminuire nettamente lo spazio vitale. Più difficili sono le occasioni di incontro, di grandi feste, di riunioni con tutta la parentela; per non parlare di quelle del vissuto “in piazza”, oggi spesso divenuto pericoloso, estraneo o forzato.

      3) II sentimento di appartenenza ad un gruppo è però ancora fortemente necessario. Si è andato cosi costituendo qualcosa che si può definire il gruppo-branco. In esso l’individuo è identificato in modo plurimo con gli altri e in senso caratteriale. Ciascuno si “tuffa” dentro il proprio gruppo, aderendovi non per scelta ragionata, non perché condivida idee e interessi in modo critico e consapevole. Nel gruppo-branco ci si percepisce insieme, si è dentro, rivivendo in modo rassicurante esperienze arcaiche del periodo preverbale: sensazioni di poter crescere senza essere forzatamente individualizzato e separato, anzi sostenuto, e contenuto dagli altri.

      4) In uno strano contrasto con questa esigenza c’è un impressionante incremento della tecnologia delle comunicazioni. La conoscenza di fatti, anche lontani, è oggi immediata, anzi quasi contestuale, “in diretta”. I messaggi circolano molto velocemente e le comunicazioni hanno la caratteristica di toccare più piani contenutistici e più livelli ricettivi. Veniamo, cioè, a conoscenza di tutto quanto accade, a livello politico o scientifico, spettacolare o drammatico, nel mondo (non considerando le inevitabili censure selettive dei mezzi di informazione che, peraltro non riescono più a nascondere completamente notizie ed eventi, dal momento che la legge della spettacolarità va prevalendo sulle ideologie). E tutto ciò lo possiamo non solo immaginare (come poteva accadere con gli antichi poemi o le storie tramandate oralmente) ma ascoltare, vedere, quasi toccare con mano.                                   

Le conoscenze sono inoltre molto precoci nella vita del bambino e finiscono, cosi            anticipati come sono gli stimoli emozionali e cognitivi, per spingere ad una crescita rapida e in un certo senso forzata. Proviamo ora ad individuare nelle varie espressioni della cultura odierna invarianti tipiche, che definiremo come gli elementi caratteriali presenti in essa. Invarianza vuol dire che le modalità espressive, sono sottese da una medesima tensione coattiva, sia che si tratti di arte, di cinema, di’ architettura, di moda. Il tema dell’apparire ci si rivela cosi centrale in questa cultura. Lo è come l’ansia di privilegiare più l’immagine che l’essere. Il look è una filosofia di vita, nel potere del politico, nella pubblicità, nella sessualità veloce e insoddisfacente. Caratterialmente è una forma reattiva ad un senso di solitudine più profondo, per un conflitto sempre più drammatico tra una crescita forzata e una carenza di sostegno e di contenimento a livello familiare e gruppale. L’espressione prevalente che si può leggere in questa fissità caratteriale è pressappoco del tipo: “devo fare a meno di te perché non posso far vedere che ho molto bisogno di te”. In altri termini la necessità di stupire a tutti i costi prende il posto di quella di stupirsi; di essere capaci, come lo è il bambino finché non si interrompe la sua mobilità, di incontrare e scoprire con entusiasmo e meraviglia tutto ciò che è dentro-fuori di lui. Da queste prime analisi sembra emergere la possibilità di una sconnessione piuttosto sensibile tra alcuni livelli prima esaminati. L'”ambiguità” non risulta infatti come fenomeno originario, ma piuttosto non è altro che la com-presenza di modi di essere possibili su ciascun livello; però non più congruenti tra loro dal momento che i corrispondenti piani non sono più integralmente interconnessi. Queste considerazioni possono risultare più chiare se esaminiamo più a fondo il modello dei processi funzionali del Sé corporeo. Non potendo entrare in troppi dettagli, qui accennerò solo al superamento di alcune concezioni dicotomiche quali Bene-Male, Psiche-Soma, Peste emozionale-Sanità. Il modello infatti prevede l’esistenza di un complesso processo di stratificazione dei vissuti emozionali connessi alle esperienze corporee e a quelle di relazione con l’ambiente. Partendo dalle ipotesi di una struttura originaria a più funzioni, presenti tutte sin dall’inizio nel neonato, questo approccio si interessa soprattutto alla storia delle sconnessioni e delle alterazioni che possono intervenire tra i vari processi funzionali del Sé corporeo e all’interno del singolo piano, sia esso quello muscolare-posturale, quello fisiologico (o degli apparati interni), quello emozionale, oppure quello cognitivo-simbolico. Gli eventi relazionali, le frustrazioni, i successi di adattamento all’ambiente, i rifiuti hanno effetti differenziati a seconda dell’intensità del vissuto e del modo in cui questa riesce o meno ad esprimersi. L’esito della relazione, a seconda del periodo evolutivo in cui essa si colloca, delle parti del corpo con cui viene manifestata e dei movimenti che la hanno determinata, produce una mappa di cambiamenti e modificazioni che permangono nel Sé corporeo dell’individuo, incapsulati in tutti i livelli nei quali lo abbiamo suddiviso per comodità esplicativa. La memoria corporea, dunque, non è altro che questa diffusa e decentrata modalità di funzionare in rapporto ad un passato che è presente nei suoi effetti attuali. Il corpo-filtro è la selettività, sia percettiva che delle ideazioni o dei ricordi psichici. Vengono cosi fissati interi patterns di movimenti espressivi o modi di percepire, attraverso le alterazioni del tono muscolare di base, delle soglie dei recettori periferici, delle vie di connessione e di elaborazione centrale. E’ in tal modo che si producono scissioni tra capacità del movimento corporeo da una parte e manifestazioni del livello emozionale dall’altra. Le sensazioni possono essere più o meno deboli o più forti in determinate parti del corpo. Il tipo di percezione può essere alterato nella fase elaborativa. Alcuni movimenti rischiano di diventare difficili e poco frequenti nel soggetto o addirittura completamente tagliati fuori dalle sue possibilità; oppure il modo con cui vengono eseguiti può risultare scollegato dalla forma in cui erano stati pensati e voluti. Il senso motorio e la percezione cenestesica possono sconnettersi e inviare segnali alterati. Alla luce di queste ipotesi possiamo provare a trarre qualche considerazione conclusiva sul senso che, allora, può avere una definizione di “limitazione angusta” attribuita al tessuto culturale del nostro tempo.

Abbiamo visto che alla base può essere rilevata una frammentazione delle esperienze; non nel senso oggettivo in cui queste si presentano nella vita dell’individuo, ma soprattutto in quello della riconnessione interna capace di dare continuità e senso agli accadimenti. Molto spesso la velocità dei processi, soprattutto quelli comunicativi e relazionali, cosi come la necessità di adeguarsi a ruoli, situazioni e persone vorticosamente diversi, può provocare un effetto disgregante nella personalità. Allora condizioni strutturali e forme di pensiero non riescono a costituire un’armonia aggregativa. Allo stesso modo i movimenti dell’organismo, intesi in senso più tradizionale “espressivo” o come funzionamento degli apparati interni del corpo umano, o anche come “azioni”, non riescono ad essere tutti chiariti e presenti al mondo cosciente. In termini del modello funzionale del Sé corporeo diremmo che ci troviamo di fronte a frequenti scissioni sia tra il piano cognitivo e quello emotivo, sia tra quello posturale-fisiologico e quello cognitivo, ma anche all’interno del cognitivo stesso. L’anaffettività, l’incapacità di comprendere o accettare le proprie emozioni più profonde, al di là del fatto se queste poi divengano cristallizzate ed evidenti nel volto, nel corpo e negli atteggiamenti delle persone, è un dato certo crescente. Cosi come sempre più violente sembrano divenire quelle esplosioni di “movimenti incontrollati” che vanno dalle stereotipie comportamentali alle reazioni emotive, irrazionali e ripetitive. Ma soprattutto sembrano in aumento quelle manifestazioni di “movimenti corporei” che, private di significato, assurgono a ruolo di sintomo vissuto come estraneo e pericoloso: movimenti di apparati corporei scissi dal contesto emotivo e cognitivo che conducono a malattie classicamente definite psicosomatiche o a quelle enumerate nella categoria dei disturbi psichici nevrotici. Mi riferisco qui sia al settore delle alterazioni evidenti di funzioni fisiologiche, che si manifestano come coliti, gastriti, annessiti, raffreddori, asma, cefalee, nevriti, tachicardie, ecc., sia a quello, solo apparentemente meno “corporeo” (dovuto comunque a scissioni di funzioni del Sé), che comprende disturbi come insonnia, ansia, angoscia, paure, fobie di vario genere, depressioni, ecc. Non ultima per importanza l’incongruenza che si può verificare all’interno dello stesso piano cognitivo tra rappresentazione del mondo a sé, attraverso le elaborazioni percettive, e la rappresentazione di sé che ciascuno costruisce al proprio interno: densa come è, questa separatezza, di implicazioni sociali e personali. Non si pretende qui di chiarire quanto di cosi complesso avviene nella persona, ma di suggerire un punto di vista che proponga e sostenga un modello dell’interezza dell’essere umano e che possa, da quest’angolazione, portare verso una migliore comprensione dei fenomeni alterativi, delle proposte terapeutiche, e soprattutto verso una possibile programmazione della prevenzione. Certo è che le condizioni strutturali attuali producono indubbie conseguenze sul mondo interiore. Gli inputs sono molto più intensi sia nel senso della quantità e dei contenuti, sia nel senso della qualità, cioè nel modo come riescono a sollecitare funzioni percettive ed emotive. Il massiccio avvento dei computers e delle immagini (specie televisive) con la velocità e la varietà di interazioni con l’individuo, propone la necessità di analizzare come si strutturano i substrati funzionali, a vari livelli, di un bambino di oggi. D’altro canto la “superspecializzazione” di conoscenze tecnologiche e teoriche pone il problema di una parallela frammentazione di teorie generali, di possibilità di abbracciare molteplicità in un tutt’uno, insistendo su una eccessiva suddivisione di competenze e di realtà interiori. Il pericolo per l’infanzia di oggi, se non si esaminano a fondo questi processi percettivi ed elaborativi, attraverso ipotesi che tengano in conto la teoria della complessità, e quindi in qualche maniera dei vari piani del Sé corporeo, è che si possano intensificare e aggravare scissioni esistenti o appena incipienti, con conseguenze patologiche non solo individuali ma sociali. Per fare un esempio, per quanto limitato e semplice, la televisione per i bambini non è di per sé ne un bene ne un male. E’ nociva invece solo se esiste nel piccolo già in atto un contrapporsi e distaccarsi del mondo percettivo visivo dalle altre percezioni (che lo devono mettere in contatto con la realtà) e soprattutto da alcune emozioni, che possono essere o iperstimolate o, come reazione difensiva, addormentate e compresse all’interno.

La conoscenza di questi processi, e di conseguenza il poter prevenire la loro degenerazione, ha invece come indubitabile vantaggio l’utilizzazione piena ed armonica della ricchezza tecnologica ed ideativa del mondo attuale. Se può assistere ad un ampliarsi ed un moltiplicarsi degli spazi, all’interno delle persone e non solo nel senso delle capacità immaginifiche. La velocità con cui si passa da un settore della conoscenza ad un altro, l’intensità emozionale dei messaggi, la forza delle immagini, possono essere l’occasione di arricchimento continuo attraverso nuove ibridazioni, cioè attraverso nuovi incontri del Sé corporeo con sensazioni, percezioni e movimenti relazionali basati su di un senso non di “alienazione”, ma di riconoscimento. La mente ed il corpo possono cosi espandersi nel cognitivo e nell’emotivo non come un viaggio nell’ignoto pericoloso, ma mediante lo sviluppo di capacità creative, che si fondino però sull’accettazione piena e sull’utilizzazione di ciò che dentro si ha già e che si è stratificato durante tutta la storia, ricca di esperienze, che l’individuo ha vissuto.

Note

1) Relazione tenuta al convegno: “L’esistenza angusta, dalla peste emozionale alla frammentazione delle conoscenze”, Napoli, 27-28 febbraio 1986.