Luciano rispoli psicologo: Incontro con il Living Theatre.

in “Quaderni Reichiani n. 9” Napoli, 1977.

Nella conferenza stampa tenuta dal Living Theatre, dal Centro Studi Reich e dal gruppo Ricerche Audiovisive Teatrali di Cosenza, i giornalisti non avevano orecchie che per “loro”, i mostri sacri del teatro d’avanguardia americano degli anni ‘50, Julian Beck e Judith Malina. L’intervista che pubblichiamo di seguito vuole invece chia­rire i livelli politici e tecnici del lavoro del Living Theatre, vuole esaminare i punti di contatto e di differenza con la nostra prassi, leggere dietro le facciate ufficiali, capire il modo di lavorare del gruppo. Del resto, abbiamo invitato il Living, in­sieme al Gruppo di Cosenza, a Napoli, non per organizzare “spet­tacoli”, ma per svolgere un lavoro in comune in un progetto che abbiamo chiamato “città-quartiere”.


luciano rispoli psicologo Living Theatre

Ci interessava innanzitutto lavorare insieme al Living Thea­tre nel quartiere Mergellina (dove è situato il Centro Reich), sia incontrando le forze e le organizzazioni che vi lottano, sia rea­lizzando un lavoro di teatro per la strada allo scopo di appron­fondire le possibilità di approcci diversi con i problemi del quartiere stesso. Dal momento che una delle iniziative del Cen­tro Reich è un consultorio di quartiere, è facile capire come uno scambio di esperienze avrebbe potuto rappresentare per noi un momento di arricchimento e di miglioramento. Un altro obbiettivo che ci prefiggevamo era, appunto, la possibilità di confrontare con questi gruppi esperienze, linee di agire da “vero rivoluzionario”. Si arriva insomma al para­dosso che sareste voi ad “addormentare le coscienze”.

Judith Malina Quando si dorme è importante sognare, per­ché attraverso i sogni si scaricano le tensioni in eccesso. Ma è altrettanto importante sognare da svegli, nel senso di immagi­nare come potrà essere una società diversa, e come sarà pos­sibile poterla costruire. Immaginare è la facoltà umana indi­spensabile per realizzare, per agire, per trasformare. Direi che lo spettacolo per strada, e il nostro lavoro in genere, hanno proprio la funzione di svegliare le coscienze, di svegliare chi vive sognando ad occhi aperti, perché non vuoi vedere, né sentire, né capire, e continua a illudersi di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Luciano Vorrei aggiungere che queste sono le classiche cri­tiche di quei compagni che continuano a ritenere l’attività arti­stica e culturale come altra cosa dalla militanza politica, o al massimo come un’attività da subordinare al “vero lavoro poli­tico”. Io credo che così facendo essi commettano degli errori. Pri­mo, di lasciare sempre più terreno alla cultura dominante, e a quella maniera di pensare e di vivere che ci è imposta sin dalla nascita. Secondo, di illudersi che questa cultura non sia ra­dicata in noi, rendendo così più difficili le possibilità di criticarla e modificarla. Inoltre penso che sia sbagliato non utilizzare nel lavoro po­litico di trasformazione tutta la potenzialità della fantasia e della creatività, e soprattutto non poter attingere da quell’enorme serbatoio di energia, costituito dal mondo personale degli af­fetti, delle emozioni, dei desideri. A questo proposito mi viene in mente una domanda che ho sentito farvi l’altra sera dopo lo spettacolo, e cioè: « Non pensate che alcune scene siano troppo crude e incutano paura in chi le vede? E che quindi ottengano un risultato opposto a quello vo­luto; cioè di spingere a subire e a non ribellarsi per paura della repressione? » Questa domanda me ne fa ricordare anche un’al­tra: « Questo vostro modo di vestire, così diverso dal nostro, anche se affascinante e pieno di fantasia, queste vostre stra­nezze in tondo, creano una reazione nella gente di rifiuto nei vostri confronti? ».

Judith Durante il nostro lavoro di un anno in Brasile, diversi compagni guerriglieri con cui collaboravamo sono stati ar­restati e torturati dalla polizia fascista. Noi abbiamo vissuto molto da vicino e profondamente questa situazione di estrema violenza fisica, di umiliazioni e maltrattamenti. Quei compagni hanno sofferto perché un giorno possano es­sere eliminate del tutto schiavitù e sopraffazioni. E noi ab­biamo loro promesso che avremmo testimoniato l’atrocità di queste violenze con i nostri spettacoli al resto del mondo. Ma del resto in tutte le nostre esperienze di lavoro per strada o negli spettacoli in teatro non ho mai assistito a rea­zioni di paura. Di interesse, si, di disgusto, di voglia di par­lare, di desiderio di cambiare, di ostilità, di solidarietà, e anche di indifferenza, sì. Ma di paura, no. La paura non nasce certo dall’aprire gli occhi sulla vio­lenza: i guerriglieri in Brasile non hanno paura. E nemmeno nasce dal prendere coscienza delle ingiustizie, dal toccare con mano le atrocità che i padroni commettono, la repressione fe­roce contro ogni dissenso quando non ci sono più da giocare le carte di una apparente democrazia.

Luciano Si. La paura nasce, dentro di noi, nella nostra in­fanzia: la paura di perdere l’affetto, di perdere la sicurezza di essere accettati, la paura del rifiuto e dell’incomprensione degli adulti, prima, di coetanei dopo. La paura ci viene istillata lentamente da un sistema di valori che ci fa temere tutti gli altri come potenziali nemici, che ci vuoi far credere che la libertà individuale si scontra con quella degli altri, anziché rendere chiaro che la libertà delle classi più povere soccombe ai privilegi di chi possiede tutto il potere economico. La paura cresce nella competitività di istituzioni come la scuola, che approfondisce invece di colmare i divari tra gli studenti che imparano già nelle famiglie “colte”, e quelli che erano e restano “ignoranti”, solo perché non possiedono cono­scenze, cultura e modelli di comportamento tipici della bor­ghesia. Un sistema, quello scolastico, tutto proteso a smorzare la fantasia, a togliere le capacità di pensare con la propria testa, a spezzare la fiducia di se stessi, a formare caratteri sottomes­si, paurosi, schivi di qualunque seria responsabilità. Nelle istituzioni di questa società basata sulla violenza dell’uomo sull’uomo si alimenta la paura, che è soprattutto paura di perdere una immagine di sé a cui si è aggrappati dispera­tamente, paura di dover mettere in discussione ciò in cui si cre­de ciecamente, paura di perdere il controllo continuo su tutti i desideri e gli impulsi proibiti e dimenticati.

L’incontro col Living dura ormai da diversi giorni. Tra le attività in programma c’è un seminario aperto che ha per tema il lavoro teatrale nelle strade. E’ un impegno che il Living si assume, m genere, ogni volta che collabora con dei gruppi po­litici e culturali, per un arricchimento delle reciproche espe­rienze. Questa volta si tratta di preparare, insieme, un breve in­tervento da fare in strada, incentrato sulla violenza. Quelli che vi partecipano, scelgono dalla prima pagina di un quotidiano una parola che sia particolarmente sentita come simbolo di vio­lenza. A questa parola verranno accompagnati dei gesti e delle azioni significativi, da mettere a punto insieme, proprio durante il seminario.

Stephan Questo lavoro che vogliamo rappresentare insie­me, per le strade del quartiere, sarà una rappresentazione sulla violenza. Non vogliamo, però, creare scene realistiche di vio­lenza, ma ricercare le cause più nascoste della violenza, ri­cercarle nella vita di ogni giorno, nei rapporti di lavoro, nei rapporti familiari, nei rapporti sessuali. Vogliamo rappresentare l’essenza della violenza, nei suoi aspetti paradossali, noi suoi risvolti sadomasochistici, vogliamo rappresentare la violenza subdola e strisciante, con un taglio, quindi, in un certo senso surrealistico. E vogliamo rappresen­tare tutto questo per la strada, per rompere il sonnambulismo della gente, per cominciare a far riflettere, occupando letteral­mente la strada con un evento straordinario, fuori del nor­male. La strada, la città, spazi anonimi di divisione, se non ad­dirittura di ostilità, tra la gente, devono veder interrotto, almeno per un momento, il loro flusso di indifferenza, di aliena­zione, di ipocrisia, e diventar teatro di un evento, di un mo­mento immaginativo, di una comunicazione tra esseri umani. Più tardi, quando lavoriamo in piccoli gruppi, cerchiamo di creare una scena partendo da immagini e ricordi che le parole che abbiamo scelto suscitano in noi. Nel nostro gruppo, gui­dato da Julian, va a poco prendendo corpo l’immagine di un uomo che tenta disperatamente di farsi capire dagli altri, che cerca comprensione o affetto o soltanto un gesto umano. Gli altri tre (il nostro piccolo gruppo è di quattro persone) restano per­fettamente immobili, gli occhi fissi e sprezzanti: non lo ascol­tano neppure, aumentando la disperazione di colui che chiede. Ad un tratto l’immobilità si rompe e i tre sembra quasi che rispon­dano alle richieste del postulante (così abbiamo subito battez­zato colui che chiede e che cerca), ma la parola che ciascuno grida è solo una parola che esprime violenza.

A turno ognuno del gruppo sarà postulante, mentre gli altri resteranno immobili fino al momento di gridare le loro parole: gesti, espressioni, movimenti, sono lasciati alla libera creatività, di ciascuno, anche se tutto il gruppo consiglia ed aiuta ciascuno ad esprimersi e a dare di più. Nel provare la scena, quando tocca a me essere postulante, trovo difficile esprimere disperazione realmente e con tutto il mio corpo. Penso che per poter raggiungere questo stato d’animo di disperazione dovrei entrare nella situazione a poco a poco, fare a lungo il postulante e venire continuamente rifiutato (in­vece ciascuno di noi è “il postulante” solo per venti secondi circa). Julian ci chiarisce: “I tempi teatrali non possono essere gli stessi dei tempi reali. E’ per questo che l’attore, in pochi at­timi, si concentra, si carica per raggiungere quei livelli di senti­menti e di emozioni necessari per la scena da rappresentare. In questi momenti l’attore ha una carica energetica elevata, che si diffonde rapidamente e con forza per tutto il corpo. In termini psichici si può dire che egli ha una notevole consapevolezza del­l’ambiente che lo circonda, della posizione delle proprie mani, perfino delle dita, dei muscoli del volto, di funzioni come il battito del cuore e la respirazione, insomma di ogni parte del suo corpo.

La ricerca di questa consapevolezza la si ritrova, anche se non a questi livelli, nel teatro tradizionale, dove però era uni­camente indirizzata ad entrare bene nella parte, a caratterizzare il personaggio, dal quale l’attore, comunque si teneva staccato, per non venire coinvolto a livelli personali. Noi anche utilizziamo la consapevolezza, e altre tecniche: come quella di stigmatizzare un atteggiamento; attraverso un gesto, che non sia direttamente copia della realtà o come quella di far risaltare, calcando pla­sticamente, voce e atteggiamento per realizzare quella che viene poi in fondo definita la teatralità di una rappresentazione. Ma utilizziamo tutto questo per esprimere sentimenti e situazioni, per tirar fuori emozioni e stati d’animo che sono dentro di noi, che nascono dalle nostre contraddizioni più profonde, e che quindi ci coinvolgono in prima persona, senza mascherarci die­tro gli alibi dei personaggi”. Il lavoro con il corpo resta dunque un momento centrale del Living Theatre, ed è restata nei gruppo la capacità di esprimere situazioni drammatiche con immagini di rara bellezza, formate dai corpi degli attori, in scene corali suggestive ed emozio­nanti. Così come fulcro fondamentale dei contenuti è restato il grido di ribellione alla repressione sessuale, a questo mondo privo di amore e di libertà, in cui il lavoro, e quindi l’uomo stesso e la sua sessualità sono ridotti a merce, a oggetti. Ci sembra molto ottuso e allo stesso tempo pericoloso l’at­teggiamento di chi ha già decretato la morte del Living somma­riamente e senza neppure l’ombra di tutte le considerazioni che siamo andati puntualizzando in questo pur breve articolo. L’at­teggiamento di chi afferma che neppure il messaggio di rivolu­zione sessuale ha più un senso, perché ormai non esiste più repressione sessuale in Italia, sulla scia di « un’America libe­rata sessualmente da Freud », e che lo spettacolo sull’amore che il        Living porta nelle strade è osceno, ma solo perché recitato « da cinquantenni che lo rivolgono ad un pubblico di giovani ». Sono, testualmente, alcune delle assurdità sputate da Car­melo Bene e Ruggero Orlando che, in una trasmissione televi­siva, commentavano un filmato sul lavoro del Living Theatre a Cosenza. Cose come questa sembrano farci ripiombare indie­tro di anni; ma proprio perciò ci spingono a mantenere sempre in discussione tutto quello che viene dato per scontato sulla sessualità, su sesso e politica, sui rapporti tra struttura e sovra­struttura. Per non ricadere nell’errore di separare gli obbiettivi dai me­todi di lavoro, abbiamo parlato col Living anche della loro ma­niera di porsi come gruppo e dei relativi problemi.

Luciano Partendo dalla nostra esperienza di lavoro nei gruppi, coi bambini ed ultimamente con gli insegnanti, ci stiamo rendendo conto sempre di più di come sia importante comprendere cosa accade all’interno dei gruppi. Scoprire i differenti ruoli che si giocano, i rapporti che si nascondono dietro le tac­ciate, i sentimenti tra persona e persona, e nei confronti di tutto il gruppo, le vere motivazioni di determinati comportamenti. Que­sto, perché altrimenti i livelli di incomprensione aumentano in modo intollerabile e danneggiano decisamente la capacità di la­vorare e di produrre del gruppo.

Vorrei sapere se, e come, voi affrontate questi problemi.

Julian Indubbiamente i problemi affettivi nel gruppo sono importanti. Ma da una parte, per noi, c’è una mancanza conti­nua di tempo per affrontare tutto quello che vorremmo. Il lavoro e le richieste sono molto pressanti. D’altra parte io credo che molti di questi problemi si possono affrontare anche nel lavoro stesso, quando si prepara uno spettacolo o quando se ne di­scute.

Voglio dire che nel lavoro teatrale ci impegniamo con tutti noi stessi, e vi portiamo dentro tutto quello che siamo. Le ener­gie e il tempo che abbiamo a disposizione sono limitati. Dob­biamo fare una scelta, e noi scegliamo la produzione, il lavoro, anche se non mancano i momenti di riflessione.

Judith Sì, è vero, non affrontiamo i problemi del gruppo sistematicamente, e con un metodo. Ne teniamo però conto, come fa ogni gruppo di compagni che lavorano insieme. Purtroppo spesso non abbiamo nemmeno il tempo di par­lare tra di noi, di chiarirci. Indubbiamente questo sarebbe Im­portante, ma noi abbiamo fatto una scelta di lavoro che inevi­tabilmente ci condiziona. Ci sono poi dei particolari periodi, come questo che stiamo vivendo, in cui il lavoro è continuo, senza soste. Questo non ci lascia, a volte, nemmeno il tempo di pensare, di immaginare quale potrà essere il nostro prossimo lavoro.

Luciano Certo, è giusto non tener separato il lavoro dal mondo affettivo.

Ma, è quello che io mi chiedo, il vostro gruppo, che produce creativamente, che si ispira a criteri collettivistici, che esprime principi di uguaglianza e di libertà così intensamente, come vive tutto questo al suo interno? Come si colmano le differenze tra ruoli differenti, e come si risolve il problema del leader, ad esempio? Noi pensiamo che non si possa “fingere” o “imporsi” che non esista una figura guida, se di fatto questa c’è. L’importante è che il gruppo sappia analizzare l’esistenza, il comportamento e gli atteggiamenti suoi e del leader; è fondamentale che il leader sia davvero espressione del gruppo, che possa essere messo real­mente in discussione, che non accumuli potere, e che abbia come obbiettivo La crescita di tutto il gruppo sino a che si esaurisca la sua funzione. Ma per realizzare ciò bisogna aver coscienza della situa­zione del gruppo man mano che si evolve, e dare gli strumenti affinché ognuno possa sviluppare le proprie capacità individuali e il suo rapporto con tutti gli altri e con l’esterno del gruppo.

Annie Io non credo che l’esistenza di un leader possa es­sere positiva. Il leader è sempre un oppressore e non porta mai ad una crescita del gruppo. Per conto mio, penso che non do­vremmo sopportare alcun leader.

Judith Certo, ognuno di noi qui esprime le proprie convin­zioni personali. Io, ad esempio, non posso dimenticare le mie matrici culturali, tra cui la teoria della Gestalt, con l’importanza che ne deriva per i fenomeni di gruppo e per le possibilità di espressione e comunicazione. Lo stesso Fritz Perls lavorò con noi a New York per due anni, aiutandoci a trasferire sul piano del messaggio la “forma”, e in particolare la forma teatrale. Mi rendo conto che i problemi di leadership esistono nel gruppo. Io e Julian siamo molto meno giovani degli altri, e ci occupiamo di teatro da molto più tempo. Questa situazione può anche diventare di tensione in periodi come questo, in cui gli impegni pressanti e continui non ci danno il tempo per riflet­tere, per occuparci di noi. Periodi di attività frenetica e nevro­tizzante.

Luciano L’esperienza che noi possiamo offrirvi in propo­sito è quella delle tecniche di gruppo, del lavoro con i bambini all’asilo, del lavoro con gruppi di insegnanti. Con gli insegnanti noi partiamo generalmente dai loro problemi personali per far vivere loro una situazione “di gruppo”, in. cui si analizzano ruoli, rapporti, dinamiche più o meno pro­fonde, nello stesso momento in cui si vivono. Cerchiamo, cioè, di dare a tutti i componenti del gruppo gli strumenti per com­prendere il proprio ruolo, l’eventuale atteggiamento di dipen­denza, il modo in cui possono essere influenzati e manipolati; e questo non solo a livello personale, ma anche e soprattutto analizzando i mezzi con cui l’istituzione scuola costruisce rigi­damente i ruoli dell’insegnante, dello studente, ecc., senza che questi se ne rendano pienamente conto. Nel lavoro con i bambini, poi, è emerso chiaramente che non è possibile fingere che l’adulto sia realmente alla pari con i bambini. L’adulto è di fatto molto più capace, più forte, più potente. Deve allora saper riconoscere questa sua diversità e avere coscienza di cosa significhi per lui e per il bambino. Solo così si può instaurare un rapporto, questo alla pari, di compren­sione e di fiducia reciproca.

Judith Mi interessa molto questa esperienza con i bam­bini. La sola differenza di statura o di forza fisica dà una vi­sione, una gestalt diversa del mondo. La mia forma, il mio essere piccolina, mi hanno sempre fatto vedere le cose dal “mio” punto di vista, e hanno certo influito sul mio rapporto con gli altri. Io credo che il lavoro teatrale, se inteso in senso diverso e nuovo, possa aiutare molto la comprensione dei fenomeni di rapporto, di ruolo, di gruppo. Specie quando al lavoro contri­buiscono tutti, e si discute insieme di obbiettivi, di significati, di ciò che si vuole realizzare.

Luciano E, per fare la domanda che non manca mai in un’intervista, le vostre prospettive future?

Hannon Abbiamo lavorato in diverse nazioni, abbiamo co­nosciuto realtà di lotta differenti. Ci siamo arricchiti delle espe­rienze di gruppi e di compagni con cui siamo stati insieme, ac­cumulando dati, conoscenze, momenti di vita. Ora penso che dovremo prenderci un periodo di pausa per riflettere su tutto questo, per dare più spazio ai gruppo, e a ciò che potrà diventare in futuro. Cosa ne può uscire fuori è difficile dirlo adesso. Ma penso che certamente sta terminando un’altra fase della storia del Living Theatre.