Luciano Rispoli psicoterapeuta: I problemi del carattere e gli obiettivi politici.

in “Quaderni Reichiani n. Speciale”, Napoli, 1976.

L’esperienza dell’asilo è una realtà che non può essere li­mitata dai panni stretti di una visione che tiene conto solo dei bambini, dei loro giochi o delle loro manifestazioni. E’ una realtà che, se impostata sulla libera espressione delle emozioni, coinvol­ge profondamente gli adulti che vi si accostano. Queste le prime considerazioni che ricavai dall’impatto (è proprio il caso di usare questo termine) con il mondo dei bam­bini all’asilo del Centro Reich.


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Ho svolto turni di assistenza volontaria, durante questo primo anno di vita dell’asilo; l’esperienza mi attirava anche perché, in genere, mi ero trovato bene con i bambini. Le pri­me volte fu quasi uno sfogo: giocai per ore insieme a loro, ritrovando un antico sapore di gioia, e abbandonando un comportamento spesso troppo controllato, « adatto » al mio ruolo sociale. D’altra parte era come se non potessi sottrarmi alle richieste che ben presto i bambini impararono a rivolgermi; la mia ansia di esaudirli, per aderire ad un ruolo di «educa­tore libertario», me lo impediva, costringendomi anche ad atteggiamenti che non mi davano piacere o che mi stancavano, non concedendomi nemmeno un momento per me stesso o per una chiacchierata con gli altri assistenti. Questo mi fece entrare in crisi e compresi che il compor­tamento con i bambini non può essere programmato e preordi­nato, ma deve nascere da una situazione dialettica tra loro e gli adulti. Non bisogna reprimere gli impulsi primari vitali dei bambini, se si vogliono prevenire le distorsioni caratteriali stu­diate da Reich, ma non bisogna nemmeno trascurare se stessi per far loro piacere. Una cosa mi è sembrata molto chiara durante il prose­guire dell’esperienza: bisogna porsi nei confronti dei bambini da pari a pari, perché se si riesce a comprendere se stessi con le proprie esigenze da adulti, i propri limiti e anche con i pro­pri slanci infantili, se si riesce a non « sacrificarsi » per i bam­bini, allora sì è davvero disponibili ad accettarli come indivi­dui con una personalità autonoma, e a non considerarli come esseri inferiori o comunque dei « non adulti ». Voglio spie­garmi meglio con degli esempi. Più di una mattina arrivai nervoso e irritato all’asilo, o per miei problemi o per stanchezza fisica. Rispettai questo mio stato d’animo senza farmi prevaricare dai bambini (pur ba­dando alle loro necessità essenziali) concedendomi numerosi momenti di relax in cui leggevo o fumavo chiacchierando con gli altri assistenti. Se Francesca, come faceva spesso, mi veniva a stuzzicare, un po’ civettuola, solo per farsi vezzeggiare, le rispondevo con sincerità che non ne avevo voglia. E Francesca andava tran­quillamente a giocare con gli altri. Quando Nicola, a tavola, dopo aver divorato il suo piatto, pretendeva di mettersi a rincorrere Andrea con un chiasso in­fernale, o a giocare con acqua bicchieri e pastina pasticciando sulla tavola, gli chiedevo di rispettare le esigenze di noialtri che stavamo ancora mangiando e di andare a giocare nell’altra stanza. Non mi è mai capitato che qualche bimbo si mettesse a fare i capricci in occasioni del genere. I bambini sanno rispet­tarti se tu li rispetti. Mi sentivo invece pronto ad aiutarli con piacere ogni volta che ne avessero realmente bisogno. E’ sbagliato non seguire il proprio stato d’animo e le proprie esigenze se si vuole instau­rare un rapporto sincero e leale con i bambini, che, d’altronde, sono profondamente sensibili agli stati d’animo piuttosto che alle maschere superficiali. Se mi fossi sacrificato per loro, dimo­strandomi più disponibile di quanto lo fossi in realtà, avrei ac­cumulato rancore e ostilità verso i piccoli, perché «mi costrin­gevano a stancarmi o a giocare o a star loro appresso». In casi del genere l’ostilità verso i bambini si manifesta in modo più sottile e dannoso. Arrabbiarsi con loro direttamen­te perché vi hanno scocciato con un capriccio o un ricatto affet­tivo provoca conseguenze molto meno gravi di una violenza psi­cologica indiretta, come metterli in ridicolo, considerarli stupidi, farli sentire incapaci. D’altra parte se l’adulto non finge con se stesso e con i bam­bini, anche se è irritato e nervoso, non scaricherà su di loro il proprio stato emotivo perché indirizzerà la sua ostilità verso la causa vera del suo malessere, che è quella esterna, sociale. Ed è perciò che sarà in grado di soddisfare le richieste dei bambini con serenità e con piacere. Tutto il discorso non si adatta solo a casi particolari, ma riguarda il rapporto adulto-bambino in ogni suo momento e nel­la sua globalità. Il bambino è un grande specchio della realtà che lo circonda perché reagisce a seconda degli stimoli che riceve, e quindi anche a seconda del nostro comportamento. Se noi non vogliamo vedere in questo specchio i nostri difetti, non capiremo i bambini (e neanche noi stessi). Ma se siamo pronti a verificarci continuamente allora potremo instaurare un dialogo che ci per­metta di comprendere sia loro, sia noi attraverso il loro com­portamento. Questo significa trattarli da pari a pari; considerare che han­no le stesse esigenze vitali che hai tu, gli stessi diritti, lo stesso bisogno di comprensione e di rispetto. Bisogna però sgomberare il campo dagli equivoci. Alcuni credono che questo significhi che il bambino ha lo stesso tipo di esigenze e di desideri di noi adulti. Può essere vero, ma solo in parte. Chi si ostina in questo atteggiamento, invece, si mostra inca­pace di capire i bambini. Pretende che facciano certi giochi e non altri; vuole che i loro disegni riproducano il più fedelmente pos­sibile la realtà; esige che provino comprensione per la vita degli animali, che si adeguino a certi ideali o che imparino determi­nati concetti. Questo è forzare il bambino in schemi non suoi. Difficilmen­te un bambino intorno ai 4 anni (o anche più grande) avrà ri­morsi per aver calpestato una formica. In realtà questo comportamento nasconde una concezione che è tutta all’opposto di quella che ritiene fondamentale trattare il bambino da pari a pari. In questa concezione il piccolo è un irresponsabile, non si può avere fiducia in lui, e bisogna quindi renderlo il più presto possibile uguale all’adulto. Prova ne sono quelle terribili frasi elogiative tipo « sei propri diventato un ometto ». Oppure, il che è peggio, non si tollera il « diverso », per cui si proiettano nel bambino tutte le proprie esigenze o i desideri frustrati, e ci si costruisce una sua immagine a proprio piacimento. Se poi si scopre che la immagine non calza con la realtà si reprime, si corregge, si punisce sino ad ottenere il risultato vo­luto. E’ questa, in fondo, la stessa base su cui poggia l’odio raz­ziale: incapacità di modificarsi in una realtà mutevole, irrigidi­mento, intolleranza, « corazzatura caratteriale ». Il fatto eccezionale è che tutto questo l’abbiamo potuto toc­care con mano, verificandolo giorno per giorno nella pratica del­l’asilo. Abbiamo visto Luca, uno dei più piccoli, sentenziare all’ini­zio salomonicamente che i giocattoli sono di tutti, come gli aveva­no insegnato i genitori, da saggio « ometto democratico », e ro­dersi dalla rabbia di non poter sopraffare i più grandi e impos­sessarsi dei giocattoli tenendoli tutti per sé. Nicola si era innamorato di un cagnolino che io avevo por­tato un giorno, ma solo per schiavizzarlo e tenerlo sempre legato al guinzaglio e sentirsi così « più importante ». Abbiamo visto i bambini rifiutare con fastidio le affettuosità oppressive e le eccessive smancerie verso di loro, ma chiedere spontaneamente la tranquillità dell’affetto di noi adulti, soprat­tutto in momenti di particolare bisogno. Erano nervosi ed irrequieti sia quando gli si imponevano gio­chi troppo complicati e noiosi, ma anche quando ci disinteressa­vamo di loro o quando non riuscivamo a organizzare qualcosa che accendesse la loro fantasia e li aiutasse a liberare le loro emozioni.

Infatti l’assenteismo dei genitori è un’altra delle grosse pia­ghe nell’attuale educazione dei bambini. In genere il disinteresse viene contrabbandato per liberalità e permissività. Le coscienze sono « a posto » ma la repressione è più subdola e sottile. Il peg­gio è che la cultura borghese strumentalizza le relative ed inevita­bili conseguenze, sostenendo paradossalmente che i figli educati con permissività diventano « ragazzi difficili », che questo suc­cede quando li «si vizia troppo », e così via. E’ quanto sta succedendo negli Stati Uniti, in una spaven­tosa ondata di opposizione alle teorie educative più liberalizzan­ti, tipo quella del pediatra B. Spock. La malafede di coloro che promuovono queste crociate reazionarie è dimostrata dal fatto che « la generazione difficile dei figli di Spock » (cioè di quelli edu­cati secondo metodi meno repressivi di quelli tradizionali) non è «difficile » perché si è liberalizzata l’educazione, ma perché si è liberalizzata troppo poco. In effetti in America la repressione della « sessualità » infantile è tuttora agli stessi livelli di prima, mentre è andata aumentando la carenza di affetto nei primi me­si di vita, per il fatto che le donne lavorano sempre di più e l’allat­tamento al seno va ormai scomparendo. Ma a parte l’esistenza di questa evidente repressione della sessualità infantile, seppure mitigata dal « buon senso » predicato da Spock, la generazione degli anni cinquanta-sessanta è difficile perché la società americana è rimasta la stessa: una società di sfruttamento, di prevaricazione, di incomunicabilità. La chiara correlazione tra condizioni socioeconomiche e cul­turali, da una parte, e atteggiamento e personalità dei giovani, dall’altra, sfugge ai pedagogisti americani, e non a caso. Ancora una volta la scienza borghese mistifica la realtà e impone una cultura a uso e consumo del potere costituito. In questo caso il vantaggio è evidente, dal momento che lo stesso Reich ha mostra­to quali sono le conseguenze sul carattere e sulla personalità della repressione sessuale: angoscia, paura, insicurezza e passività. Tutti elementi che inibiscono o frenano le capacità critiche, la presa di coscienza, e quindi la ribellione e la lotta contro le classi dominanti. Questo spiega perché alcuni bambini all’asilo diventano a tratti aggressivi verso gli altri, attaccandoli; e chiarisce come mai bambini più grandi e più forti fisicamente temono l’aggressione, a volte restandone terrorizzati. Questo problema in genere sorge quando si rompe l’autocontrollo più esterno, lo strato di « buona educazione » così faticosamente e inutilmente impartita dai ge­nitori, e fuoriesce tutto l’odio e la rabbia accumulati e repressi. Ho sperimentato personalmente qualcosa di simile nel mio lavoro di insegnante, allorché gli studenti incontrano un profes­sore « non autoritario ». In quell’ora e contro quell’insegnante si scatenano la rabbia e l’insofferenza dei ragazzi nei confronti di una scuola che, anziché aiutarli a crescere nella libertà e nella gioia, li opprime e li condiziona mutilandone quasi del tutto le capacità creative.

Tra i bambini più piccoli il problema dell’aggressività è più semplice e più complesso allo stesso tempo. E’ più semplice perché i bambini non drammatizzano e non danno tanto peso alle aggressioni come facciamo noi adulti. In­fatti si rendono facilmente conto di essere attaccati solo da un essere umano (un altro bambino) che non è onnipotente, e al cui attacco possono reagire, nonostante le differenze di età e di forza fisica. Quello che è drammatico per il bambino, invece, è inibire la propria aggressività nei confronti dei genitori, per la paura di perdere il loro affetto, con il conseguente blocco emo­tivo. All’asilo i bambini possono esprimere aggressività verso gli altri bambini, e anche verso gli assistenti, senza paura, e non ne è impedita quindi l’espressione delle emozioni e della vitalità. Il rovescio della medaglia è che, non essendoci ancora una corazzatura del carattere già completamente strutturata, l’espres­sione di aggressività o di odio, provocati dalla frustrazione degli impulsi, è spesso totale, e cioè spietata. E’ al limite un bene che lo sia, perché quando si priva di quest’ultima arma di difesa un bambino, reprimendo anche la sua reazione emotiva, lo si con­danna alla depressione profonda. Resta il problema di come trasformare queste leggi da jungla in una collettività socializzante, proteggendo fisicamente i più piccoli e i più passivi. Certamente non cadremo nell’errore di esasperare irrequietezza e aggressività incoraggiandoli a reagire con violenza, nonostante alcuni padri (qui si evidenzia il ruolo maschile patriarcale) siano soddisfatti solo se i figli non sono delle « femminucce » e sanno « menar botte ». Ma nemmeno sposteremo forzatamente l’attenzione dei bam­bini per sfuggire il momento difficile dell’aggressione, facendo « finta di niente ». Bisogna imparare dai bambini che, se aiutati a esprimersi spontaneamente e a esternare le proprie emozioni, superano da soli questi momenti difficili, e spesso ricominciano a giocare tra di loro in sereno accordo. In definitiva è neces­sario sdrammatizzare l’aggressività, togliendole quel significato colpevolizzante che nasce quando è rivolta « contro i genitori », e dandole un contatto più diretto con la realtà. In poche parole, riconoscere l’aggressione, darle un giusto peso, intervenire ed aiutare, ma senza fingere, senza giudicare e colpevolizzare. E’ logico che un bambino non possa sopraffare un adulto, ed è bene che se ne renda conto e lo sappia. Solo se l’adulto non viene vissuto come forza oppressiva, ma rispetta la volontà del bambino, questi potrà esprimere i propri bisogni in maniera di­retta, e non sarà costretto a fingere per sopravvivere. Solo così imparerà a tenere in considerazione anche gli altri e sarà spinto a socializzare. Si possono studiare interventi specifici per far superare ai bimbi il momento « drammatico » dell’aggressione. Ad esempio la rabbia viene scaricata senza danni facendo dare pugni ai cu­scini o gridare; i bimbi più deboli vengono protetti; i più passivi vengono incoraggiati a fidarsi di più nelle proprie capacità; con­temporaneamente viene dato più affetto a quelli che aggredisco­no poiché le aggressioni sono in genere delle richieste.

Molti di questi interventi sono stati attuati all’asilo del Cen­tro Reich, spesso con successo. Nicola tremava di paura nei primi tempi se Andrea lo attac­cava, nonostante fosse più robusto; restava a volte addirittura paralizzato. Armati di cuscini i due bimbi si sono affrontati varie volte senza farsi male. Contemporaneamente cresceva in Nicola la fiducia nelle pro­prie capacità attraverso le molteplici attività ricreative dell’asilo. Ora Nicola è molto più calmo quando viene aggredito, e fugge solo se è particolarmente nervoso. Luca, uno dei più piccolini, pretendeva di pontificare sulla giustizia umana e sulla necessità di essere fratelli; ma non cre­deva alle proprie parole e restava spesso vittima di aggressioni. Negli ultimi tempi riusciva a farsi rispettare dai più « tre­mendi ». Angela appena giunse all’asilo non voleva nemmeno entrare dove stavano gli altri bambini. Agendo sulla libera realizzazio­ne del proprio corpo e dandole un suo spazio per esprimersi (pit­tura, teatro, ecc.) è diventata molto più creativa. Si impone agli altri per le sue capacità di organizzare e di parlare. Un altro tipo di intervento consisteva nel raccontare ai bambini favole con significato « liberatorio ». Nei compiti degli assistenti di turno rientrava il proporre ai bambini qualcosa di creativo e organizzato. A me capitava, a volte, di arrivare la mattina senza sapere cosa fare, soprattut­to perché a livello artistico non mi sono mai saputo esprimere bene. Ma spesso i bimbi, di loro iniziativa, mi chiedevano di rac­contare una favola. Ho cominciato così, leggendo da un libro; ma i racconti del libro erano troppo complicati ed astratti, e perciò mi sono mes­so a inventare. Tra l’altro ho verificato che piacciono molto gli elementi decisi, senza troppe sfumature sottili. In tutti, poi, esiste l’idea dei « mostri », anche nei figli di genitori più avanzati e più con­sapevoli che non li hanno mai spaventati con storie particolari. In effetti i mostri per i bimbi non sono altro che paura ed angoscia di morte (inconsapevoli), nate, ad esempio, quando da neonati non venivano sufficientemente gratificati con un buon allattamento, o quando temevano di perdere l’affetto dei genitori, di cui avevano provocato la collera. Sono, a voler sca­vare più a fondo, una reazione alle frustrazioni subite: sono una specie di autopunizione per aver provato odio verso chi li repri­meva (genitori), e nello stesso tempo un’arma terribile, anche se fantastica, che forse anche loro possono utilizzare contro gli « adulti terribili ». Il mostro, in ultima analisi, è proprio l’adulto, che al bam­bino appare come a noi apparirebbe un uomo alto e grosso come un armadio. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo, come non dobbiamo dimenticare che a volte le moine e le arrendevo­lezze dei bambini sono solo un tentativo di « rabbonire il mo­stro »!

La fantasia dei piccoli è vivida e quasi si sovrappone alla realtà. Essi nella favola vivono le situazioni narrate, e in questo modo possono spesso alleggerirsi delle proprie angosce. Basta raccontare di un animale piccolo e tenero (in cui loro si identi­ficano) che affronta il mondo. Un paperotto, ad esempio, che lascia lo stagno contro il parere di mamma papera, la quale sentenzia (con voce sgrade­vole) « Sei troppo piccolo, non devi allontanarti! Non vedi che ci sono pericoli dappertutto! Non fare questo!… Non fare quel­lo!… » Il paperotto viene però incoraggiato da un gabbiano che passa sullo stagno e che gli racconta delle bellezze del mondo: anche se pieno di paura va via col gabbiano. Sorvola nuove terre, laghi scintillanti e montagne rocciose, vede la neve ca­dere bianca, sfreccia tra le gocce della pioggia. Fermatosi in un bosco, conosce altri animali: leprotti, passeri, scoiattoli, con cui fa amicizia e gioca tutto il giorno. Mangia quello che trova nel bosco (anche se non è il mangiare cui era abituato nello sta­gno) e va a dormire con l’amico gabbiano, stanco e soddisfatto. Il  giorno dopo, però, il gabbiano lo lascia. Paperotto ha tanti nuovi amici con cui mangia e gioca tutto il giorno. Ma quando cala la notte comincia a sentire grida, ululati e altri rumori spa­ventosi: i mostri! (che verranno descritti con particolari da fan­tascienza, e con l’aiuto dei bambini, bravissimi a tirar fuori nuo­vi particolari orripilanti). E così paperotto è costretto ad affron­tare il gorilla bianco, la iena sghignazzante o il brontosauro, lotta contro il mostro e riesce ad abbatterlo chiamando in aiuto tutti i nuovi amici del bosco (leprotti, uccellini….); oppure nella lotta scopre che il « mostro » non è altro che il papà, o la mam­ma o un assistente dell’asilo, mascherati con un travestimento che incute terrore. I  mostri sono quindi sempre demistificati ed esorcizzati, e nella maggior parte dei casi i bambini sono felici di ucciderli, di farli a pezzetti e a volte persino di mangiarseli. In questo consiste il carattere liberatorio della favola: il bambino affronta le proprie paure ed angosce riconducendole alla loro vera origine; rivive, in un momento della sua vita in cui non è più totalmente dipendente dagli adulti, la repressione subita quando era più piccolo, e comprende che i suoi desideri di autonomia, libertà e conoscenza sono buoni. Impara che la realtà deve essere affrontata, ma che nella maggior parte dei casi non ne sarà schiacciato, specie se comincerà a chiedere aiu­to agli altri.

Infine può vivere dall’esterno i propri comportamenti coat­tivi, tramite l’identificazione col protagonista della favola, e a poco a poco se ne può distaccare. Modificando i particolari della favola si possono far vivere al bambino una quantità di situazioni diverse, a partire, magari, proprio dai comportamenti concreti e difficili che assume nel­l’asilo. Il  comportamento di Luca è significativo per comprendere quanto siano incisive queste favole: diceva « No » ogni volta che nel racconto un pezzettino del mostro-padre veniva strap­pato. Quando mi interruppe lui continuò «E non gli strappiamo il naso? E non gli strappiamo le orecchie?». Un altro bimbo cui piaceva molto la favola, arrivati alla par­te dei mostri (che io mimavo con rumori e con espressioni del corpo) mi interruppe: « Non fare così – disse perché – io ho pau­ra! » Si divertì molto al resto del racconto. Nel pomeriggio ci accorgemmo che aveva la febbre: non si sentiva, evidentemen­te, di affrontare la « fase difficile » del racconto in condizioni fisiche precarie, ma, nonostante ciò, non nascondeva a sé e agli altri la propria paura, dal momento che la controllava facen­domi interrompere la parte mimata che lo impauriva. Un altro bambino, che faceva spesso difficoltà per mangia­re, dopo la favola mangiò tutto come il paperotto.

In conclusione, esistono numerosi mezzi per scoprire i bloc­chi emozionali dei bimbi e per farglieli superare. In tal senso l’asilo è senz’altro terapeutico. Ma non dobbiamo dimenticare che i bimbi, gli assistenti e i genitori sono completamente inseriti in una realtà esterna oppressiva, che non può essere così facil­mente « esorcizzata ». Questo spiega come mai i bambini rica­dano spesso in comportamenti nevrotici che sembravano aver superato. E’ molto pericoloso dissociare il bambino tra una realtà iso­lata e quella della sua famiglia: il lavoro non può che essere svolto in una cooperazione continua, tra famiglia e asilo. Perciò a chi ci chiede, rimproverandoci, perché il figlio non abbia supe­rato questo o quel problema, rispondiamo che per poter collabo­rare è fondamentale mettere prima bene in chiaro gli obbiettivi dell’asilo. Non ci illudiamo di liberare i bambini, sia perché non ha senso parlare di liberazione individuale in una società repres­siva e di privilegi, sia perché delle «isole di libertà» (se fossero realizzabili) sarebbero schiacciate. Con l’esperienza dell’asilo, invece, ci proponiamo di analiz­zare i meccanismi particolari attraverso cui agiscono la repres­sione e i condizionamenti della società capitalistica attraverso le sue istituzioni, quali scuola, famiglia, nidi. Anche momenti di crisi che abbiamo attraversato, indicavano chiaramente l’influen­za di problemi economici (stanchezza di chi lavorava gratuita­mente, problemi per gli stipendiati, ecc.) sulla conduzione dell’asilo. L’importante è capire come agiscono le spinte economico-so­ciali, individuarle e studiarle. Questo è il grosso contributo rivoluzionario dell’asilo del Centro Reich: fornire un ulteriore strumento di lotta, contro il potere della borghesia, alle classi sfruttate e alle loro avan­guardie politiche, da utilizzare sin da ora, senza aspettare di aver prima rovesciato le strutture economiche e i rapporti di produzione. Perciò è importante che l’asilo si mantenga sempre di più in contatto con la realtà sociale e venga considerato sempre di meno come « felice isola di giochi », in modo da poter arricchire anche i bambini di quegli strumenti indispensabili per vedere e capire questa realtà, e per poter poi essere in grado di cam­biarla.