Luciano Rispoli psicologo: Il modello del Sé Funzionale in psicoterapia corporea.

in L. Peirone (a cura di) “L’identità corporea” – Ed. Giuffrè, Milano 1991.

La presenza corporea può essere o no presa in considerazione da un determinato modello terapeutico, ma in ogni caso essa condiziona profondamente la storia del rapporto psico-clinico e del campo co-transferale.


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  1. Introduzione.

Studiare quanto avviene in una cosiddetta psicoterapia di integrazione corporea, in una metodologia, cioè, nella quale vengono utilizzati più canali di approccio al paziente, con modalità tra loro interconnesse, pone una serie di problemi affascinanti ma al contempo ardui da districare, sia sul piano scientifico che su quello epistemico più generale. Non si può più dubitare infatti che il corpo nella sua complessità di processi e funzioni sia presente in termini estensivi ed intensivi sulla scena psicoterapeutica, negli ambiti tradizionali dell’analisi duale, nelle situazioni gruppali, come anche nei luoghi istituzionali deputati alla cura del disturbo « psichico » in senso ampio, vale a dire dell’alterazione dei processi di relazione all’interno del Sé e tra il Sé e l’ambiente esterno. Questa presenza corporea può essere o no presa in considerazione da un determinato modello terapeutico, ma in ogni caso essa condiziona profondamente la storia del rapporto psico-clinico e del campo co-transferale. Userò il concetto di campo nel senso delle relazioni plurime del soggetto, come l’intende FOULKES (1964); e non solo all’interno del gruppo, ma nell’ambito di matrici di pensiero transpersonali e sovrapersonali, secondo quanto precisano ANCONA (1983) e Lo VERSO (1984) in un superamento delle ristrettezze della visione dualistica. Una delle questioni che ci si può porre, allora, se si voglia analizzare e comprendere i complessi funzionamenti del sistema-corpo, è se questi risultano evidenziabili o no rimanendo all’interno del processo di comunicazione solo verbale e prendendo in considerazione unicamente le strutture del pensiero

  1. Psiche-soma

2.1. Il corporeo nel pensiero e nelle parole.

Quello che si scopre e che il cosiddetto corporeo è ravvisabile anche nel linguaggio verbale: come riporto dell’autopercezione che il paziente ha di se stesso, ma con forti delimitazioni e profonde quello distorsioni che non possono essere rilevate se si resta unicamente nell’ambito delle parole. Queste infatti possono rivelare solo una parte dell’intera struttura, mentre l’altra, quella che ci permette di leggere e percepire la persona nella sua interezza, a « tutto tondo », e che ci può segnalare la presenza di incongruenza e contraddizioni, non può che essere percepita direttamente dal corpo del paziente, di cui la voce, presente nell’uso del linguaggio, è solo una piccola parte. Il corpo può essere certamente pensato, sognato e persino « immaginato » dal soggetto, e questo ci darà già una ricchezza di dati ed elementi che possono aiutare a raggiungere più profondamente e direttamente il mondo e i conflitti interni; sempre che si sia in grado di decodificare con un sistema teoretico organizzato i significati e le rappresentazioni simboliche dei meccanismi somatici difensivi e patologici. Ma ciò non è sufficiente a creare sistemi di verifica multipla a più ingressi. Questo corpo-pensiero infatti può essere reso visibile nella relazione terapeutica solo attraverso il narrare volontario e consapevole della persona: un ambito molto limitato dell’intero flusso comunicativo perché circoscritto solo alle frasi pronunciate « intenzionalmente ». Persino la censura cosciente può operare tagli con esiti non controllabili; tagli del resto troppo legati alla necessità di un clima, un ambiente e condizioni il più possibile favorevoli all’apertura del paziente. D’altra parte il soma potrebbe essere ed è stato spesso visto, al contrario, in senso solo anatomico, come hanno fatto sinora una parte della medicina e della biologia; partendo da osservazioni su di un cadavere inerte che, secondo quanto sostiene giustamente GALIMBERTI (1983) non può dare reali indicazioni sui più complessi funzionamenti della « vita ». Con una tale metodologia meccanicistica le connessioni con il mondo affettivo, con quello cognitivo, con lo strutturarsi del pensiero, difficilmente saranno esplorate e pertanto non potranno essere utilizzate terapeuticamente. Già da queste prime riflessioni possiamo constatare che la separazione non è tanto da individuarsi tra psiche e soma, poiché forse attualmente i confini tra queste due presunte entità non ci permettono di distinguerle nettamente ne in senso ontogenetico ne in quello filogenetico.

2.2. L’unitarietà delle funzioni.

È probabilmente più efficace, invece, guardare al « corpo » come a un sistema complesso e fondamentalmente unitario, che va man mano acquisendo maggiori diramazioni ed articolazioni, ma nel quale lo sviluppo non aggiunge al sistema, improvvisamente, funzioni o strutture del tutto nuove e impreviste. Le ricerche attuali sull’infanzia e in contemporanea le più recenti scoperte in campo paleontologico sembrano condurre nella medesima direzione. Vediamo in che senso. A tal proposito risulta interessante quanto WINNICOTT (1975) sostiene relativamente all’intelligenza. L’intelletto sembrerebbe svilupparsi nel « mentale » in una significativa alleanza con la psiche, nel momento in cui, per un’eccessiva pressione dell’ambiente sul bambino piccolo, questa si scinderebbe dal soma finendo per funzionare in contrapposizione. L’interesse sta soprattutto nel fatto che l’autore, almeno per questi aspetti, postula una significativa unitarietà originaria dello psiche-soma. La scissione tra differenti funzioni del corporeo è anche secondo il nostro modello un’alterazione che interviene solo successivamente, e che rivela comunque una patologia più generale e diffusa. Quando il processo di relazione e di rapporto all’interno del Sé e con l’esterno viene ostacolato, il nucleo interno originario reagisce alle frustrazioni attivando difese troppo precoci. D’altra parte la presenza di un pensiero vuoi di tipo immaginativo vuoi di tipo logico e adattivo è stata riscontrata anche in bambini appena nati. Certo le forme di pensiero possono essere rudimentali, ma è dimostrato che il neonato è in grado di provocare risposte dall’ambiente, che tendano a soddisfare i suoi bisogni, modificando così la realtà circostante. Egli è inoltre capace, sin dalla vita intrauterina delle ultime settimane, di riconoscere il timbro di voce della madre (o di una persona presente spesso nell’ambiente) da altri suoni, rivelando sorprendenti abilità ad analizzare, classificare e discriminare. Anche il suo contatto visivo e percettivo sembra molto più intenso e diretto di quanto si ritenesse non molto tempo fa. In tal senso, e chiarendo gli aspetti di una comunicazione reale e diretta con l’ambiente, propende ad esempio HINDE (1974) che cita numerose ricerche effettuate nella prima infanzia. In tutt’altro campo i coniugi BALINT (1937), per l’esperienza psicoanalitica ed osservativa relativa ai pazienti e ai bambini, arrivano a medesime conclusioni. Nell’ambito poi dello sviluppo della specie umana, gli studi sui primordi dell’umanità, corroborati dagli ultimi ritrovamenti, come quello del villaggio di Isernia, dimostrano livelli di organizzazione sociale, di attività ingegneristica e di intelligenza già presenti in epoche molto precoci, databili già al periodo della specie dell’homo abilis e dell’homo erectus, molto prima di quanto si pensasse precedentemente. Non solo, dalle ricerche emerge che evoluzione del pensiero e capacità intellettive sembrano strettamente correlate alla modifica graduale della struttura corporea, alla forma dei lineamenti del viso, degli arti, alla postura, al di là della più facile equazione che le collega al volume del cranio e del cervello. Passando a tutt’altro campo, a quello della psicologia clinica, i seguenti due casi, trattati in vegetoterapia carattero-analitica, sembrano dare un contributo significativo all’ipotesi di estrema precocità dell’interrelazione di esperienze psichiche e corporee a più livelli.

  1. Alcuni casi

Giorgio, 27 anni, ha sofferto sin da piccolo di una drammatica asma che l’ha spesso segregato in casa. Affidato con i fratelli alle governanti che si sono succedute, le ricorda tutte con un profondo senso di rancore, con una dolorosa sensazione di aver avuto troppo poco dalla vita e dai genitori. Dei suoi primi anni non ricorda però quasi niente; tutto si concentra in un’epoca che va dall’età della scuola (che frequentava molto sporadicamente per i suoi malanni) in poi. Dopo una lunga carriera di studioso e diligente alunno, improvvisamente la crisi all’Università; è il blocco totale di molte capacità, con un’abulia peggiorata dall’uso incontrollato dell’alcool.Le emozioni che invadono Giorgio sono collegate a un senso catastrofico della realtà, in cui finisce per evidenziarsi sempre ciò che sente di aver perso o che non può più raggiungere. La vita emotiva è perciò tenuta a bada e rigidamente assoggettata a un controllo razionale ferreo. Il suo messaggio caratteriale che lo pervade nel viso, nella postura, nella voce e negli atteggiamenti, sembra comunicare esasperatamente che sta male e non ce la fa più. L’ossessività di questo suo stato d’animo ricopre ogni guizzo di vitalità spegnendolo e immobilizzandolo quasi completamente. Durante le sedute sembra tutto immobile e impossibile ogni reazione finquando non si stabilisce un contatto col terapeuta: allora Giorgio si anima, smuove se stesso, il suo passato, le sensazioni e a volte finanche il suo corpo. Ma il difficile è proprio realizzare questo momento iniziale di apertura e di relazione con l’esterno. Le parole sembrano riuscire a mobilizzare qualcosa ma spesso rimangono a livello di razionalità distaccata e mentale: le emozioni sono chiuse sotto una gabbia di durezza e di freddezza metalliche, acquisita nella guerra sottile ed indiretta con la durezza della madre. Il tocco corporeo, se usato da solo, sembra smuovere un senso di angoscia e di dolore fisico insopportabili a cui Giorgio reagisce con un’opposizione sorda ma ferma, che lo porta a chiusure più spinte. Giorgio ha infatti bisogno (lo rivela un difficile e delicato lavoro sul controtransfert) di essere preso completamente, di essere tenuto fisicamente e psichicamente, senza mezzi termini in modo chiaro e diretto. Inizialmente è necessario un lungo lavoro preliminare, teso a modificare le sue capacità sensoriali e percettive ingorgate da una bassa soglia di dolore e da un blocco del tono muscolare di base di quasi tutto il corpo, ma soprattutto del collo, delle spalle e della schiena. Solo con il riattivarsi di una certa sensibilità nelle zone più dolenti e intorpidite è possibile mettere in atto una strategia di regressione psicosomatica che porti Giorgio a poter tollerare di essere « raccolto » dall’analista, proprio secondo i suoi bisogni più profondi, al di là dei suoi meccanismi difensivi di distacco e di ostilità fredda. Il contatto regressivo è possibile, ma solo se il terapeuta muove in pieno le proprie emozioni ad agganciare quelle del paziente in modo diretto, senza sotterfugi o distorsioni. L’unica maniera in cui questo può avvenire è con l’uso contemporaneo di parole, toni di voce, tocco con le mani, sguardo negli occhi; aumentando il livello di respiro, sciogliendo le rigidità del tono muscolare e mobilizzando la capacità percettive. E’ un intervento lento, paziente, in cui poco a poco l’organismo di Giorgio da segni di rimettere in moto funzioni spente e sopite: una mobilità di espressione nel viso, sensazioni di piacere nel massaggio, correnti, formicolii, onde che passano nella colonna vertebrale. Giorgio si sente finalmente « raccolto », si può rispecchiare nei sentimenti del terapeuta, può a poco a poco sciogliersi: in quei momenti parla con viva partecipazione della sua vita trascorsa, e delle sensazioni che ha accumulato dentro. La sua memoria corporea, « ri-conosce » movimenti e funzionamenti emotivi dimenticati e riconnette piani da tempo segmentati da scissioni e fratture. In uno di questi momenti, di queste condizioni di abbandono (sempre molto difficili da raggiungere) Giorgio ha lasciato che il suo corpo riprendesse a percepire, ha ripreso un respiro profondo e diaframmatico che riporta alla luce intense sensazioni fisiche: ha il collo e la testa nelle braccia del terapeuta. Quando le mani gli toccano le guance, come a tenerlo completamente, emergono dei sussulti profondissimi, che scuotono ad ondate tutto il corpo, con un senso di sofferenza intensa che si dipinge sul viso (adesso sì appare chiaramente cosa è la sua solita smorfia che normalmente sfuma in una lamentela, esagerata, a svalutare qualunque cosa buona arrivi a percepire). Gemiti sottili accompagnano respiro e movimento. Giorgio racconterà, dopo, che ha avuto davanti agli occhi tre scene nitidissime: una che gli sembrava di ricordare già prima, ma molto confusamente, e che non aveva mai visto in modo così chiaro; e le altre due del tutto inusitate. Nella prima egli si accosta alla culla della sorellina più piccola appena nata; non è solo, ci sono altre persone che non si accorgono di lui. In un’altra c’è un bambino che sta seduto all’interno del recinto di un box, ma non sa chi sia. Nella terza infine lui è dentro la culla e vede avvicinarsi la prima governante della sua vita, di cui fino ad allora non aveva mai parlato in seduta. Margherita, che si era occupata di lui quasi sostituendo la madre, scompare improvvisamente quando ha solo 3 anni di vita. La perdita sembra aver lasciato un vuoto che non trova più neppure sentimenti adatti che lo possano esprimere. La terapia ha una svolta: la regressione è ora più facile e possibile e il filo tenue del rapporto col terapeuta è rinsaldato da quel qualcosa di « buono » che Giorgio ha avuto da piccolissimo e su cui in fondo ha potuto basate in parte forze e sentimenti positivi. Michela è una paziente di gruppo, sofferente di angosce e di tachicardia. Il suo tratto caratteriale più evidente è nel sorriso esageratamente accattivante e sofferente a un tempo, con cui attraverso gli occhi, la bocca e la postura particolare di spalle e braccia, sembra dire: « Ho paura di non essere vista » o, ancora più amaramente: « Non ce la faccio a tenere questo ritmo ». Parla molto veloce e gesticola nervosa. Oltre a una rigidità nello sguardo, che non riesce a localizzare e tenere ben centrato, spicca un bacino grosso e poco mobile sul quale sembra si sia sempre dovuta basare la sua forza e la capacità di farcela da sola. In realtà questa struttura della pelvi la imprigiona e la soffoca, mentre la parte di sopra del suo corpo sembra voler sfuggire a questo immobilismo con un’attività tanto esagerata quanto a volte non corrispondentemente produttiva. Durante una seduta di gruppo Michela accusa ancora una volta i suoi soliti disturbi. L’angoscia cresce dopo un’attività svolta in piedi che la mobilizza; quando si mette stesa sul pavimento è attraversata da una sensazione di estraneità e di oppressione cardiaca. La paura cresce e perciò il gruppo e il terapeuta le si mettono intorno, per darle aiuto. Innanzitutto cercano di farle percepire di più ime confini del suo corpo, specie le gambe e il bacino, attraverso tocchi, massaggi, e una respirazione che ridia mobilità alle sue parti basse. Solo allora è possibile cominciare a « toccare » anche il torace, fortemente teso e dolente, sede principale di quel panico endemico così caratteristico in lei, che di tanto in tanto sconvolge la sua esistenza. Un iniziale senso di paralisi, che la immobilizza completamente, a poco a poco si scioglie. La paura si trasforma da sintomo cardiaco in un movimento di tutto il corpo, diventando espressione, estrinsecandosi in atteggiamenti e gesti molto antichi, sinché Michela non prorompe in un grido lacerante di dolore. Ella non vuole più guardare gli occhi del terapeuta; si dibatte furibonda e spaventata gridando: « Gli occhi di mia madre, gli occhi di mia madre ». Gli occhi non sono un contatto con l’attuale, ma risvegliano antiche memorie di bisogni disattesi e di paure ancestrali. Solo una presenza forte, continua e nello stesso tempo dolce e accogliente del terapeuta e del gruppo permette a Michela di ritrovare il contatto che calma le sue paure profonde. Il terrore non deve più essere ricacciato a forza al di là del cosciente, separato dagli altri piani del Sé corporeo dalle antiche scissioni: ora Michela può cominciare a guardare le sue paure, soppesarle, darle agli altri, per accorgersi che non sono più quelle conservate dentro per tanto tempo, stratificate nel corpo e nel tessuto affettivo della sua infanzia. Non è più quella piccola creatura che può errare veramente distrutta se non è accolta e capita, che può realmente morire sotto uno sguardo terribile e accusatore di un adulto, per una carenza di amore della propria madre.

  1. Il Sé corporeo

I processi corporei analizzati dalla vegetoterapia carattero-analitica nelle sue formulazioni più recenti costituiscono un sistema funzionale che si dispiega su più piani e più livelli. Il corpo infatti è anche ciò che si struttura nella relazione attuale, momento per momento, come corpo vivente ed espressivo, il cui linguaggio fondamentale è il movimento. Il sistema del Sé corporeo ha una sua esistenza originaria, come nucleo iniziale della vita del bambino, che può essere ipotizzato unitario e integrato. L’ipotesi più valida ed efficace da formulare, alla luce delle nuove frontiere della conoscenza, è a mio avviso quella di un insieme di processi funzionali che costituiscono sin dall’inizio una complessa struttura intrapsichica e relazionale; un sistema aperto che costituisce, seppure in modo non eccessivamente elaborato, un Sé corporeo capace di movimenti, espressioni ed elaborazioni a più livelli. Solo per comodità distingueremo tra questi: un piano posturale-muscolare, uno emotivo-affettivo, un piano più strettamente fisiologico e uno cognitivo-simbolico. Le capacità di muoversi in tutti questi ambiti con utilizzazioni significative e pregnanti si presenterebbe dunque nel bambino sin dall’inizio. La funzione posturale-muscolare comprende la mobilità dei muscoli volontari scheletrici, il tono di base della muscolatura e la sua capacità di modificarsi o meno a seconda delle esigenze della realtà. Perciò in essa è contenuto il linguaggio della postura, cioè dei rapporti tra varie parti del corpo, delle posizioni dell’una rispetto all’altra, viste soprattutto nella ripetitività e fissità che ci rivelano una precisa alterazione in atto. Ma a questo livello appartengono anche le proporzioni corporee, la forma del viso, la lunghezza delle gambe, la grandezza del torace, ecc., che rivelano, con le posture, la storia passata, condensata e cristallizzata nella immagine che la persona attualmente da di sé. Il livello emotivo-affettivo esplora i moti emozionali e la connessione di questi con le funzioni espressive, percettive e cognitive. Spesso ci si accorge che l’emozione vive una vita autonoma, distaccata dalla consapevolezza del Sé, con un’iterazione che finisce per diventare fissità patologica. Consideriamo a parte il piano fisiologico perché in vegetoterapia movimenti intemi risultano di grande importanza diagnostica e terapeutica. Non sono così solo i movimenti macroscopici o i movimenti fini, volontari o incontrollabili, a costituire una via significativa di intervento. Anche la motilità viscerale, cardiaca, neuronica od ormonale costituiscono punti di notevole importanza per la lettura dei flussi comunicativi dell’intero Sé corporeo. D’altronde le variazioni funzionali del sistema vegetativo costituiscono materia di indagini delle osservazioni dello stesso Reich, più di cinquanta anni fa. È naturale che da allora il perfezionamento di tecniche e metodologie abbia ampliato e modificato la stessa struttura dei primi modelli teoretici. Infine il piano cognitivo-simbolico rappresenta nell’ambito delle funzioni del Sé corporeo quella che più si avvicina a ciò che potremmo definire « pensiero ». È presente in questa categoria la capacità di elaborazione logica dell’individuo, cioè di adoperare le strutture psichiche con operazioni di analisi, paragone e discriminazione che costituiscono un grosso nucleo dell’attività adattativa nello sviluppo evolutivo. Il bambino modifica se stesso e la realtà circostante, con segnali e comportamenti da un lato e con modificazioni del processo percettivo e sensoriale dall’altro (dal punto di vista del significato più che da quello fisico, che appartiene invece al livello fisiologico). Il neonato avrebbe dunque forme di pensiero primario non solo di tipo divergente e associati vo, ma anche convergente, non solo sintetico ma anche analitico. E si riscontrerebbero altresì forme già strutturate di ideazione e simbolizzazione legate al modo fantasmatico e immaginativo.  A questo piano appartengono, infine, se si guarda da un altro punto di vista, anche le modalità con cui l’individuo si autorappresenta e crea l’immagine di sé, del proprio corpo, delle proprie qualità e caratteristiche.

  1. L’analisi delle funzioni.

Risulta ora più chiaro capire come il problema principale sia rappresentato dall’analisi delle funzioni, nel senso di rilevare e interpretare le incongruenze e le sconnessioni tra queste ultime. Possiamo così rilevare che un determinato settore può essersi, per effetto delle pressioni ambientali (intese sempre in senso di relazione), esageratamente sviluppato e iperespanso, mentre altri processi corporei possono essere rimasti impediti ed atrofizzati. Lo studio delle strutture caratteriali risulta così essere specificato e sostenuto da una concezione che prende in considerazione la costellazione cristallizzata e cronicamente alterata dei processi del Sé corporeo. In un caso potremo avere una funzione cognitiva particolarmente ispessita a rinforzata, che rivela un’esagerata tendenza ad usare se stessi quasi soltanto nel pensiero, con una scarsa presenza di sensazioni corporee e di percezioni fisiche. Oppure lo sviluppo del cognitivo può aver portato ad un diverso tipo di scissione, che si verifica tra strutture appartenenti allo stesso piano. In questo caso potrebbe essere accaduto, ad esempio, che razionalità e creatività, logica e fantasia risultino irrimediabilmente contrapposte, come spesso si verifica, peraltro, in numerose situazioni di blocco apprenditivo e di disadattamento scolastico. Discorsi analoghi si possono intessere per le infinite combinazioni che varie alterazioni e diversi sviluppi degli ambiti del Sé corporeo possono arrivare a determinare. Da qui derivano due importanti corollari. Il primo individua nelle alterazioni e nelle scissioni, anche quelle che si verificano all’interno del singolo piano, il tessuto eziologico dei vari tipi di patologie funzionali, quelle non provocate cioè da una lesione organica prodottasi improvvisamente per traumi, per effetto di virus, ecc. Seguendo questa falsariga rientrano nelle disfunzioni del Sé corporeo:

  1. a) le classiche somatizzazioni a carico di organi interni bersaglio;
  2. b) le infiammazioni, come raffreddori, febbri, malattie della pelle, allergie, ecc.;
  3. c) le disfunzioni vegetative, come tachicardie, alterazioni della pressione, problemi della sessualità, astenia, insonnia, ecc.;
  4. d) i disturbi percettivi, soglia del dolore, vista, udito, ecc.;
  5. e) i disturbi posturali, cefalee, dolori artrosici, dolenzìe muscolari, senso di oppressione in alcune parti, ecc.;
  6. f) squilibri emotivi, iperemotività, abulìa, scarsa affettività, ecc.;
  7. g) naturalmente tutti i problemi e le malattie tradizionalmente definiti «psichici».

Per ognuna di queste patologie è possibile individuare non tanto « le cause », quanto piuttosto i piani funzionali che sono implicati attraverso incongruenze, blocchi e sconnessioni, come indicazione al contempo eziologica ma soprattutto terapeutica del malessere. Il secondo corollario sostiene che le « significazioni » dei movimenti corporei non sono realmente attribuibili se si resta all’interno di un singolo piano, ma sono costituite proprio dalle relazioni tra i piani, dal modo in cui interagiscono ed hanno interagito le differenti funzioni, da dislivelli che si sono andati creando.

  1. Il vissuto infantile e le relazioni precoci

Il senso dei movimenti corporei attuali, volontari e in volontari, affonda dunque nell’area del «vissuto»: in quell’intersezione tra vita biologica e vita affettiva e sociale che solo più tardi diverranno falsamente e assurdamente contrapposte da una cultura divisionista e da un’esperienza di duro impatto (o quanto meno di scarso accoglimento) delle istanze fondamentali del bambino con la realtà esterna. Non bisogna però vedere in questo movimento del bambino nell’ambiente un accadere retto da leggi semplicistiche di causa-effetto. Ne al contrario è più facilmente ipotizzabile pensare ad un neonato tutto contenuto nel sé della madre, incapace di relazioni significative con l’esterno, chiuso da un’insensibilità percettiva iniziale. È più realistico piuttosto vedere l’insieme neonato-realtà circostante come un sistema in cui la presenza di stimoli in varie direzioni facilita l’aprirsi di opportunità e il modificarsi di comportamenti e reazioni nel senso di una migliore comprensione e coesistenza reciproche. Se il bambino ha scarsi stimoli e carenti interazioni con ciò che lo circonda, probabilmente vede diminuire le occasioni attraverso cui perfezionare i suoi strumenti, approfondire il contatto, e mettere in atto strategie sperimentali e comunicative via via più complesse. L’ambiente non è uno specchio a una sola dimensione che riflette l’immagine di un bambino tutto « dall’altra parte ». Esso è piuttosto costituito da una circolarità di eventi in cui movimenti fisiologici — percezioni — emotività — espressione di bisogni — variazioni e accoglimento dell’ambiente — modificazione del proprio stato interno costituiscono catene complesse e intrecciate di accadimenti, i quali permettono al bambino una capacità di sentirsi, pensarsi e leggersi proprio come egli è percepito dall’insieme delle persone e come è inserito nel modo di svolgersi degli eventi intorno a lui. Non è in gioco solo l’immagine che i genitori hanno di lui, quanto i canali di comunicazione, i movimenti attraverso cui avviene il contatto; qualcosa di simile all’holding, al tenere il neonato, di cui parla WINNICOTT (1965). Nel rispecchiamento sono implicati tutti i sensi, anche quelli enterocettivi, tesi a rilevare il modo della relazione: movimenti, contatto, calore, odori, toni di voce, caratterizzazioni con cui è tenuto in braccio, manipolato e cambiato, sguardi, sorrisi e così via. Per semplificare, ciò che il bambino legge è il sorriso materno — pancia colma di latte — mani calde; oppure il freddo — volto di indifferenza — brivido nella schiena — andatura stanca; o ancora schiena arcuata — cadere —perdita di contatto con gli occhi —paura — immagini inclinate; o calore — broccia — tocco della mano —ruttino — volto vicino — gorgoglii.  Ogni input non produce separatamente un proprio output, neppure in uno schema più complesso del tipo S-O-R (Stimolo – Organismo – Risposta), in quanto le risposte sono esse stesse inputs di questo sistema più ampio che è un’intercapedine interno — esterno. Cosicché se proprio si volesse rimanere nell’ambito di questo genere di schematizzazioni si potrebbe piuttosto preferire una formula di tipo S-O-R-0, dove O stanno contemporaneamente per Organismo e per Organizzazione (di stimoli, risposte e modificazioni dei sistemi in gioco), potendosi così leggere sia per le singole persone che per processi più ampi.

  1. La stratificazione emozionale ai vari livelli corporei.

Quando si parla di modalità del rapporto, di caratteristiche rielaborative del sistema, ci si avvicina a quel modello interpretativo che io definisco dalla stratificazione emozionale. Le emozioni primarie, in stretta connessione con gli esiti delle vicende intercorse durante la storia dell’individuo, sono co-presenti nel Sé corporeo dell’adulto. Anche per quanto abbiamo visto prima possiamo sostenere che non esiste una corrispondenza meccanica tra una singola emozione e una determinata zona del corpo, come ipotizzano taluni autori (LOWEN, 1958). Le emozioni primarie sono coinvolte in ciascuna parte del corpo, e lo sono a seconda della fase motoria che il bambino sta attraversando, delle possibilità di espressione, dell’accoglimento che riceve; oppure della necessità di trattenerle o sopprimerle perché sostanzialmente non accettate e rifiutate dal mondo adulto. La medesima zona somatica, lo stesso organo, sono implicati nel rapporto con l’ambiente in modi differenti, cioè con la necessità di esprimere un bisogno o l’altro in dipendenza dello stadio evolutivo presente (RISPOLI, 1985b). Braccia e mani, ad esempio, sono collegate, nel bambino molto piccolo, a continui movimenti esplorativi proiettati verso l’esterno, che esprimono esigenze di motilità ed espansività nei confronti del mondo. Successivamente, quando comincia a stare in posizione più eretta, con le braccia e le mani sperimenta, spingendo, la necessità di potersi distanziare dall’adulto e il piacere di riuscirvi. Se in questa fase le reazioni dei genitori, intersecate al tipo di movimento, producono tensione, preoccupazione o dispiacere, questa motilità andrà sempre di più diminuendo e le emozioni corrispondenti saranno sempre più bloccate e incapsulate in quel distretto muscolare. Ciò che accade è la scomparsa totale di quel tipo di movimento, oppure la rarefazione del gesto, che acquisterà così durezza, goffaggine o dimensioni e ampiezza esagerate. Più tardi braccia e mani vengono adoperate per raggiungere gli oggetti e prenderli con movimenti diretti e intenzionali. Le emozioni saranno allora collegate a un interesse « localizzato », alla curiosità, allo stupore. Proseguendo nel tempo, si può ritrovare una costellazione emotiva del tutto differente in quei movimenti che il bambino compie per « tirarsi su », aggrappandosi ed appoggiandosi per poter finalmente stare in piedi. Qui le braccia hanno una funzione motoria del tutto ribaltata rispetto alle emozioni che erano prevalenti quando egli era solito sollevare le mani verso l’adulto per essere preso in braccio. Il movimento è ora invece più attivo, legato direttamente ad una sensazione di crescita e di autonomia; per esso le braccia fungono sì da supporto, ma non più così determinante come nel periodo del camminare carponi. Possono infatti essere usate dal bambino per comunicare mentre si avvicina o si allontana da qualcuno, o per portare una giocattolo amato con sé negli spostamenti. Di tutt’altra coloritura è infine il tessuto affettivo che accompagna i gesti dell’aggressione, quando braccia e mani vengono usati per colpire, oppure quando gesti di amore e affetto sono espressi direttamente e consapevolmente con tenere carezze. Possiamo intuire come non solo siano diversi gli stati emozionali, ma lo siano anche le stesse percezioni dei movimenti, così come quelle tattili, sia epidermiche che profonde.

  1. La memoria corporea.

L’ipotesi suggestiva di questo modello è quella di poter accedere a una memoria corporea anch’essa situata a più livelli; non solo quello corticale centrale, ma anche quelli più diffusi e generalizzati, periferici, presenti in tutte le parti dell’organismo. Sarebbero dovute proprio a questa complessa struttura le possibilità di allargare la gamma di sfumature possedute dal bambino, in senso percettivo, in senso emotivo ed espressivo. Riconoscere, in gesti e movimenti già esplorati nell’epoca neonatale, antiche sensazioni legate a situazioni più strutturate e complesse permetterebbe di acquisire per ibridazione nuove colture psico-emotive. Emozioni e movimenti sarebbero ri-conosciuti e ri-sentiti permettendo lo svolgimento del processo di ramificazione e di articolazione delle funzioni del Sé corporeo cui abbiamo già accennato. Le accresciute potenzialità neurofisiologiche non potrebbero spiegare da sole l’enorme aumento delle capacità e del bagaglio esperienziale; l’apprendimento poggia anche fondamentalmente su una possibilità di rivivere e ritrovare qualcosa che è noto e familiare, ma visitato attraverso una visuale più ampia, con più eventi in gioco e con relazioni che sono ora controllate attraverso il discernimento di una quantità maggiore di particolari, e di movimenti più fini e precisi.  Le emozioni più complesse non si aggiungerebbero così tardivamente a quelle di base, ma nascerebbero da diversificazioni in sfumature emotive sempre nuove nate dallo sperimentare del bambino e dal suo muoversi attraverso sensazioni e percezioni conosciute e rassicuranti.  La creatività espansiva risiederebbe nella possibilità di una continuità dell’identità piuttosto che per salti nell’ignoto. L’identità del Sé corporeo può così essere considerata il nucleo centrale interno al quale possono aggregarsi esperienze per alcuni versi « sconosciute » e tentativi che per il bambino costituiscono un « rischio » calcolato di avventura verso nuovi mondi. Ma se l’identità non può permanere come struttura per riconoscere il vissuto, se le scissioni tra i piani e all’interno di ogni piano compromettono esageratamente la possibilità di utilizzare la memoria corporea, allora il nuovo non può più essere assimilato, le aree di mobilità e di esplorazione si riducono, i comportamenti diventano rigidi e stereotipati, costituendo la base delle strutture caratteriali.                                                                      

  1. I risvolti diagnostici e terapeutici.                               

Questo modello presenta risvolti notevolmente interessanti sia sul piano diagnostico che su quello terapeutico. I segni e gli accadimenti da leggere e interpretare vanno, infatti, anch’essi riferiti a vari contesti: quello culturale-cognitivo, quello simbolico, quello delle modificazioni somatiche percepibili dal terapeuta o avvertite dal paziente. L’importante è utilizzare una presenza multimediale di più contesti per la verifica delle ipotesi diagnostiche: confrontare le immagini e le rappresentazioni che la persona ha di se stessa con la maniera di esprimersi e di apparire agli altri; paragonare emozioni e movimenti, ricordi e somatizzazioni e così via. Il senso diagnostico deriva allora dalla possibilità di ricavare dati da tutti questi contesti, in modo non separato, ma integrandoli fra loro e ricollegandoli all’identità caratteriale e somatica della persona, dal momento che analogamente complessivo è anche il flusso di eventi-comunicazioni che intercorrono su più piani nella relazione terapeutica. Ma naturalmente il problema centrale rimane quello metodologico in tutt’uno con la diagnosi, affinchè la capacità di contestualizzare e creare senso possa diventare anche capacità di intervenire su questo flusso relazionale. La ricezione e la rimodulazione dell’interazione si pone, come dicevamo inizialmente, all’interno di un campo co-transferale, che va però qui inteso in senso « ampliato». La utilizzazione del vissuto della persona e del terapeuta va fatta appoggiandola a più contesti e più rilievi, nei quali rientrano i processi funzionali somatici, i movimenti involontari e le motilità interne. Invece di considerare la presenza di tutti questi aspetti come un qualcosa che può determinare un disturbo nel processo analitico, essa diviene un nuovo poderoso strumento di comprensione del processo e dell’andamento della relazione. Il terapeuta potrà fondare le sue « impressioni » su un vissuto più ampio, nel quale le proprie contrazioni muscolari, i disturbi e le disfunzioni degli apparati interni costituiscono un ponte più diretto con i vissuti dell’altro (sia esso una persona, un gruppo, un’istituzione) è una più chiara trasmissione di messaggi che vedano al di sotto di apparenze, formalismi, censure e inibizioni. Ritagliando con queste caratteristiche le modalità prorompenti con le quali si presentano le stratificazioni emozionali sulla scena terapeutica, è stato poi possibile affrontare altri nodi, da sempre centri di interesse e di ricerca in campo clinico. Si è potuto, cioè, dare un senso più specifico, congruente con l’approccio ad integrazione somatica, sia a concetti interni allo stesso modello (come blocchi corporei, livelli « adiacenti », punti chiave); sia a problematiche inerenti al processo terapeutico in senso lato (come transfert, controtransfert, rimozione). E questo a partire dallo stimolo ad aperture e ad amplificazioni visuali che l’input « corpo », oggi così vividamente al cento di interessamenti e « riscoperte », ha suggerito nella sperimentazione clinica e nella rielaborazione teorica (RISPOLI, 1985a; RISPOLI, NUNZIANTE CESARO, VALERIO e DOLCE, 1988; RISPOLI e ANDRIELLO, 1988).