Psicoterapia: La verifica degli effetti in psicoterapia.

Università di Palermo, Psicologia, 1994. 

La relazione tra paziente e terapeuta, nell’insieme di elementi passati e presenti che la costituiscono, è al tempo stesso sia il campo di indagine sia lo strumento attraverso cui avviene la conoscenza.


E’ oramai da tempo largamente condiviso il punto di vista che considera la relazione come concetto fondante ed unificante, oggetto principale della psicologia clinica. La relazione tra paziente e terapeuta, nell’insieme di elementi passati e presenti che la costituiscono, è infatti al tempo stesso sia il campo di indagine sia lo strumento attraverso cui avviene la conoscenza. Tutto ciò ha comportato notevoli difficoltà, non tanto nel generare ipotesi e teorie (e quindi relative tecniche di intervento), quanto nel momento di costruire uno statuto scientifico generale, e in particolare nella possibilità di validare le teorie valutando gli effetti delle pratiche operative. Su queste difficoltà si sono originati controversi punti di vista e a volte notevoli confusioni, spesso sfociati in sterili contrapposizioni tra soggettivismo e oggettivismo, tra sperimentalisti e sostenitori del metodo clinico descrittivo. Gli sforzi compiuti per chiarire un tema così importante e delicato stanno tuttavia producendo dei risultati nella direzione di un avvicinamento dei due schieramenti. Per studiare un’esperienza dal vivo (ovviamente unica ed irripetibile come la relazione terapeutica) non è scontato che si debba usare solo il “metodo storico”, di analisi dell’accaduto tutta all’interno della soggettività del terapeuta. L’oggetto della ricerca, il paziente e la sua relazione con il terapeuta, esistono anche al di fuori della soggettività dei due.

Se è vero che i dati di quanto accade in terapia vanno strettamente legati al contesto della relazione (con le sue parti antiche e attuali), se è vero che la loro analisi deve essere condotta rispetto al significato che i dati assumono per terapeuta e paziente, questo non vuoi dire che tale significato non possa essere colto e condiviso anche da un osservatore esterno. Sono note le posizioni di Grunbaum (1984) sulla necessità che anche nelle scienze umane ci si debba basare (non unicamente) su dati rilevabili dall’esterno del fenomeno. Grunbaum raccorcia le distanze tra scienze umane e scienze fisiche, continuando per quella stessa strada che aveva permesso di scoprire come anche in queste ultime non si potesse trascurare l’effetto dell’osservatore sui fenomeni studiati. Preoccuparsi in psicologia clinica del fatto che l’osservatore incida sulla realtà osservata è però fuorviante. L’effetto della presenza dell’osservatore-terapeuta non è infatti un “disturbo”, ma è esattamente quello che ci proponiamo di ottenere. Vogliamo far sì che la presenza e l’azione del terapeuta portino a dei cambiamenti: nella relazione e di conseguenza nella vita del paziente. Il problema allora si sposta nel cercare di capire (e di verificare) in che modo si producano e agiscano questi effetti, e se agiscono nella direzione desiderata. Al di là di certe esasperazioni rivolte alla psicoanalisi, il merito di Grunbaum è quello di aver riproposto la questione fondamentale: se la psicologia clinica possa e voglia essere una scienza oppure no. Noi siamo da tempo tra coloro che ritengono che lo possa e lo debba essere, a patto che si ponga su altre e più rigorose basi il problema della verifica dei risultati. Non possiamo non rispondere ai dubbi che la terapia funzioni in fondo solo in virtù dell’effetto placebo, o grazie al fattore personalità del terapeuta, o addirittura in misura non maggiore delle remissioni spontanee dei sintomi. Lo sviluppo delle conoscenze oggi ci permette di chiarire tali dubbi. I pazienti hanno miglioramenti sostanziali e ben verificabili, non solo nei primi tempi sotto l’effetto della speranza e della fiducia, ma anche se non credono a quello che fanno, quando sono sfiduciati e opposìtivi. Sappiamo che la terapia, quando utilizza molteplici piani del Sé, non è limitata dal funzionamento del solo piano cognitivo o simbolico, ma agisce su altri livelli,  molto al di sotto di effetti placebo e di effetti Rosenthal.

Da più parti si insiste sulla necessità di prendere in considerazione il problema della complessità in psicoterapia e più in generale nelle scienze umane: alla conoscenza risulta indispensabile non solo la descrizione dell’oggetto ma anche la descrizione della descrizione, con una rivalutazione di categorie come “l’integrazione”, l’”articolazione” alla stessa stregua di altre come l’”opposizione” e la “distinzione” (Monn 1983). Il fatto di accettare la teoria della complessità non vuoi dire però rinunciare all’indagine delle variabili in gioco e limitarsi a una visione puramente qualitativa e soggettivistica dei fenomeni. L’utilizzazione di metodologie sperimentali è auspicata da tempo da numerosi autori. Ma questo, di contro, non significa dover ricorrere per forza all’esperimento classico da laboratorio, all’isolamento delle variabili; ne’ è necessario far ricorso a metodi statistici di tipo probabilistico (Di Nuovo 1992). E’ possibile considerare “sperimentali” anche le condizioni in cui si svolgono i trattamenti terapeutici, e valutare la “grandezza dell’effetto” ottenuto, anche attraverso lo studio di pochi casi, se però sono ben definiti gli effetti attesi e l’opzione teorica cui si fa riferimento. Siamo dunque in presenza di una possibilità di ricerca qualitativo-quantitativa, così come siamo in presenza di dati che sono sia soggettivi che oggettivi. Si possono leggere gli accadimenti soggettivi e irripetibili di una relazione terapeutica, il loro svilupparsi e modificarsi, anche attraverso dati oggettivi e condivisibili, non legati al solo mondo interno del terapeuta (o della coppia terapeuta-paziente). Pensiamo ad esempio alla modificazione del battito cardiaco in relazione ad un cambiamento dello stato di paura o tranquillità del paziente. La persona può ritenere che una certa arcaica paura sia oramai “sciolta”, ma se il battito resta accelerato è un fatto incontestabile che (al di là delle interpretazioni personali e differenti sul perché) in un determinato piano del Sé la paura perduri. Può rimanere soggettiva la risonanza emotiva che la paura del paziente può provocare nei diversi terapeuti, ma non il fatto che in quella persona ci sia un battito più frequente del normale, uno stato di allarme che continua a persistere e ad incidere anche se inconsapevolmente.
Il problema della compresenza di dati soggettivi ed oggettivi si risolve se si fa ricorso a piani di lettura diversi, distinguendo il contenuto (il perché si è cronicizzata in quel paziente la paura e si è scissa dal piano della consapevolezza agendo direttamente sul fisiologico) dallo stato e dalle caratteristiche di queste situazioni, dai meccanismi di base (come si cronicizza la paura, che cosa accade quando si è prodotta una scissione, ecc).

Questione centrale diviene quella di individuare quali elementi, nei processi intersoggettivi, possano essere considerati ripetibili, costanti comunicabili scientificamente. In ogni processo terapeutico esistono una serie di fenomeni (componenti dell’interazione nella sua globalità) che possono essere rilevati da chiunque sia lì ad osservare, o sia al posto del terapeuta. Un moto di ostilità è costituito da un insieme di elementi e di segni molto precisi (anche se non tutti presenti contemporaneamente) dai quali nessun terapeuta può prescindere. E nessun terapeuta può al contrario dire al paziente che egli è mosso da ostilità se non c’è alcun segnale oggettivo di ostilità, almeno su un qualsivoglia piano del Sé (espressione del viso, tono di voce, fantasie, gesti e movimenti di attacco, ecc). Potremmo allora dire che l’irripetibile è sicuramente il tessuto di ogni vicenda relazionale, ma che in tutte le vicende esistono e si ritrovano elementi costanti. Sembra dunque possibile individuare due diversi piani. Il piano dell’unicita’ di ogni storia, di ogni paziente o gruppo, di ogni singola processualita’ di relazione, è quello nel quale si ritrovano le differenze delle esperienze di vita, così come della formazione da terapeuta a terapeuta, e potrebbe essere definito il piano della narrazione storica. L’altro, nel quale andrebbero posti i criteri di verifica, è il piano della comunicabilità e della riperibilità è il piano che potremmo chiamare della narrazione scientifica. Bisogna però precisare che la scientificità in psicoterapia non è da cogliere in rapporti stretti di causa-effetto, collegando linearmente l’agire e il dire del terapeuta a cio’ che  accade all’altro. Le leggi che si possono individuare non traducono in equazioni esatte il comportamento di un soggetto in rapporto ai movimenti, frasi, suoni, e gesti dell’altro, i quali nella loro infinita variabilità sono indubbiamente idiosincratici. La costanza è da ricercare piuttosto nelle fasi che scandiscono le vicende terapeutiche, sul piano delle condizioni generali che contraddistinguono e connotano la relazione in ciascun momento.

Non c’è relazione clinica nella quale non vi sia un momento iniziale caratterizzato da un vissuto del paziente emotivamente molto intenso. Cosi’ come non accade mai che possano mancare un tipico periodo di opposizione; una fase di profonda regressione; un momento di nuove sensazioni di vicinanza; un sopraggiungere dello stupore nello scoprirsi come persone piu’ piene e reali; una fase finale di gioia-dolore nell’esser giunti al momento della separazione. Una ipotesi siffatta non può però che rimandare ad una concezione che possiamo definire “modulare” della verifica, una concezione, cioè, che ipotizzi un procedere per gradi in una certa direzione, un andamento “evolutivo”. Essa definisce cambiamenti e modifiche come moduli di un “continuum” che, proprio perché ricondotto a un andamento in “evoluzione”, può essere in un certo senso misurato e verificato. L’invisibile, l’inconscio o il preconscio possono essere percepiti tramite segni comunque visibili che li traducono alla nostra capacità di coglierli. Più numerosi sono i piani della comunicazione presi in considerazione, più numerosi sono i segni che sì possono avere a disposizione, maggiori sono le possibilità di cogliere le parti invisibili del mondo del paziente. Il delicato problema del rapporto tra segni e inferenze assume una luce particolare in quegli approcci clinici che investono (per ipotesi di base) un maggior numero di aspetti e funzioni del Sé: movimenti, posture, funzionamento degli apparati fisiologici, schemi cognitivi e comportamentali, ricordi, etc.; come, ad esempio, in un’impostazione funzionale della psicoterapia. Ciò che appare evidente è che le alterazioni del Sé hanno condotto in tutti i casi ad una limitazione della mobilità in senso generale. L’individuo mostra nella relazione col gruppo o con l’altro una prevalenza stereotipata di determinate espressioni fisiche, verbali, emotive e la carenza di altre. Ricercare le carenze di mobilità costituisce una modalità unificata di indagine, che si può articolare in una molteplice varietà di situazioni concrete, in tutti i vari piani del Sé.

Il criterio della “mobilità” potrebbe essere considerato inoltre come una proposta di verifica che superi i confini del singolo modello di terapia La mobilità, anche se attraverso differenti forme, è un fattore preso in considerazione da tutti gli approcci, un fattore a-specifico rispetto alle differenti teorie che interpretano il funzionamento umano, e specifico invece proprio di quest’ultimo. La mobilità la si può considerare come appartenente alla “vita stessa”. Si può pensare allora di passare ad una fase successiva nella ricerca sulla validità delle psicoterapie, attraverso progetti operativi che in parte siano ancora interni ai vari moduli teorici, ma in parte li coinvolgano contemporaneamente su medesimi obbiettivi, come può essere quello della mobilità. Un progetto del genere potrebbe, ad esempio, essere così suddiviso nelle sue successive fasi applicative:

1) Esplicitare in modo chiaro gli obbiettivi significativi che, internamente a ciascun modello, possano essere collegati al criterio della “mobilità”.

2) Analizzare se l’operato del terapeuta ha raggiunto, in un certo numero di casi analizzati, tali obbiettivi.

3) Studiare se i risultati raggiunti da ognuno di questi pazienti sono significativamente riconducibili o meno alle caratteristiche di personalità del proprio terapeuta.

4) Confrontare tra le varie teorie in che termini si sono esplicitati gli obbiettivi legati alla mobilità, e convergere su alcuni condivisibili da tutti.

5) Ciascun modello utilizza poi le proprie tecniche per raggiungere l’obbiettivo- mobilità concordato, ma gli effetti sono valutati con un sistema comune.

6) Collegare l’obbiettivo-mobilità concordato, inteso come fattore a-specifico ri17 spetto ai vari modelli teorici, con dati misurabili anche a distanza di tempo nei pazienti, e rilevabili anche in coloro che non hanno fatto terapia, su più larga scala, come dato di salute o meglio di “funzionamento” della vita.

Il problema della generalizzabilità dei risultati può essere superato con ricerche inter-modello, come quella che abbiamo proposto, o attraverso l’uso della meta analisi, confrontando i risultati di diverse ricerche sullo stesso tema. Ma l’efficacia maggiore la si otterrebbe proprio confrontando studi appositamente approntati e concordati dai vari modelli sui medesimi obbiettivi e sulle medesime concezioni. L’accordo su obbiettivi di massima potrebbe essere facilitato ricorrendo a criteri empirici, e mettendo in comune le variabili che si sono mostrate più significative e rilevanti. Oggi forse possiamo già fare qualcosa di più, affacciandosi da più parti un’ipotesi di teoria generale della psicoterapia la cui importanza, nel poter giungere a obbiettivi e a definizioni operative condivisi, appare evidente di per se’.